Tra etica ed estetica: la musica nel pensiero di Platone e Aristotele
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le riflessioni sul “piacere” prodotto dalla musica per l’orecchio umano sono oggetto delle riflessioni di filosofi antichi come Platone e Aristotele, ma rimangono spesso inestricabilmente connesse con la funzione etica ed educativa che l’antica cultura greca attribuiva all’arte musicale.
Nel mondo greco alla musica viene attribuito un enorme potere nel muovere e plasmare l’animo umano: di qui la centralità del suo valore educativo, evidente sin dalle testimonianze più antiche.
Meno espliciti e talora ambigui sono invece i riferimenti delle fonti al “piacere” musicale. Al di là di un’aggettivazione sinestesica che spesso descrive i suoni musicali in base alla gradevolezza o meno della loro percezione (basti pensare alla metafora – molto comune in contesto poetico – secondo cui il poeta-musico è descritto come un’ape che distilla il suo “dolce” miele, cioè le sue soavi melodie), l’appropriatezza di un brano musicale a un determinato contesto sociale o religioso è più spesso misurata in base alla sua funzione etica, cioè alla sua capacità di influenzare positivamente il carattere di chi la ascolta o la pratica, che facendo appello alle sue proprietà estetiche. Lo stesso concetto di “bello” musicale è sviluppato, nel pensiero antico, secondo modalità che possono essere intese solo parzialmente utilizzando le categorie concettuali moderne.
L’autore che più chiaramente esplicita il problematico rapporto tra valore etico ed estetico della musica è Platone. In un famoso passo della Repubblica (398e-400d), in cui egli discute la capacità dell’arte musicale di rappresentare (grazie a un principio mimetico) qualità morali o condizioni dell’anima attraverso parole, ritmi e melodie, le strutture musicali ritenute appropriate dal punto di vista educativo sono selezionate unicamente in base alla loro affinità con un modello di carattere “virtuoso”: di qui la fama di Platone quale censore dell’arte, così persistente nella storia dell’estetica moderna. Incidentalmente, però, soprattutto negli scritti in cui egli tratta in maniera più estesa dell’educazione dell’anima attraverso la musica, affiorano passi in cui Platone si mostra più aperto nei confronti della possibilità di apprezzare le qualità di una composizione musicale secondo criteri legati non solo all’utilità ma anche al piacere. Sempre nella Repubblica (401d-402a), i confini dell’educazione musicale oltrepassano infatti la sfera morale per aprirsi a una dimensione estetica: “Chi possiede una sufficiente educazione musicale può accorgersi con grande acutezza di ciò che è brutto o imperfetto nelle opere d’arte o in natura, mentre sa approvare e accogliere con gioia nel suo animo ciò che è bello, e nutrirsene e diventare un uomo onesto”.
La nozione di “bello” (to kalon) musicale in Platone è però peculiare e va intesa tenendo sempre ben presente il suo pensiero, nell’ambito del quale la dimensione rappresentativa dell’arte musicale è discussa sullo sfondo del più ampio e articolato rapporto da lui delineato tra dimensione sensibile e intellegibile della realtà.
L’opera in cui il filosofo sottopone tale nozione a un’analisi più dettagliata (anche se non del tutto sistematica) sono le Leggi, l’ultima sua opera, pubblicata postuma, nella quale egli torna al tema della città ideale – già trattato nella Repubblica – progettando la legislazione per Magnesia, una immaginaria colonia cretese. Nelle Leggi, il consenso della comunità cittadina nell’uniformarsi spontaneamente alle leggi dello Stato si basa sulla possibilità di persuaderne i singoli membri attraverso un sistema educativo sostanzialmente coreutico-musicale (perché “chi è educato bene sarà in grado di cantare e danzare bene”, Leggi 654b) che utilizzi innanzitutto il piacere (hedone) quale incentivo per l’acquisizione della virtù. La percezione dei ritmi e delle melodie musicali da parte degli esseri umani deve infatti accompagnarsi in primo luogo a una sensazione di gradevolezza, soprattutto nei più giovani, che non possiedono ancora le facoltà razionali per essere “formalmente” educati. Tale piacere però, non dannoso di per sé, ma potenzialmente pericoloso nel caso in cui se ne demandi il giudizio a persone non virtuose, va inestricabilmente connesso con un’utilità etica (o, per meglio dire, etico-politica), nonché con una correttezza “formale” nella realizzazione di ciò che il musicista è tenuto a rappresentare (vale a dire valori positivi per la comunità, come il coraggio, considerata virtù tipicamente maschile, o la temperanza, suo corrispettivo femminile).
I tre criteri di giudizio di una composizione musicale (secondo cui chi giudica deve innanzitutto capire la natura dell’oggetto rappresentato, poi se la rappresentazione musicale è stata eseguita correttamente/orthos e bene/eu), sono esposti in un lungo e articolato passaggio di non facile interpretazione (669a-b): se ne evince che, per Platone, la corretta realizzazione tecnico-formale di una composizione musicale (per esempio musicisti intonati, che eseguono i brani più appropriati a un determinato contesto, nei quali l’insieme degli elementi – parole, ritmi e melodie – siano opportunamente selezionati ed utilizzati) è indissolubilmente legata alla sua appropriatezza etica (deve rispecchiare cioè fedelmente la qualità morale che si intende, o meglio si deve necessariamente veicolare in quel particolare contesto). Per fare un esempio banale, se un pianista oggi eseguisse la marcia funebre di Chopin nella tonalità corretta (Si bemolle minore) ma a un ritmo irregolare o molto più veloce di quello immaginato dall’autore e poi codificato dalla tradizione esecutiva, fallirebbe lo scopo ultimo della sua esecuzione (far, cioè, commuovere l’uditorio) soprattutto per colpa di una non correttezza dal punto di vista tecnico-formale (che naturalmente poggia su una determinata tradizione culturale, in questo caso specifico la tradizione della cosiddetta musica colta occidentale). I criteri di giudizio estetico elaborati da Platone presuppongono quindi un legame strettissimo tra etica ed estetica, puntando a una formazione del gusto musicale grazie alla quale la musica migliore da un punto di vista morale è effettivamente percepita come quella più piacevole.
Dopo Platone la dialettica tra piacere e utilità in campo artistico-musicale viene ulteriormente elaborata da Aristotele, anche se con una prospettiva differente. Se gli sforzi di Platone tendono infatti a fornire alle supreme guide dello Stato gli strumenti per selezionare le musiche più funzionali a rafforzare le tradizioni e i valori della comunità, Aristotele ritiene utile utilizzare ogni genere di musica conosciuta dalla società del suo tempo riconoscendo alla musica funzioni diversificate: non solo educazione (paideia), ma anche divertimento (paidia) e ricreazione intellettuale (diagoge). Nel descrivere nella Politica queste tre funzioni, egli sottolinea come il piacere ne sia una componente fondamentale, “perché il divertimento è in vista del riposo e il riposo è di necessità piacevole”, mentre “la ricreazione intellettuale, per ammissione concorde di tutti, deve avere non soltanto nobiltà ma anche piacere […] e la musica diciamo tutti che è tra le cose più piacevoli” (1339b, traduzione di R. Laurenti).
Se la dimensione estetica pare quindi svincolata da scopi etici in quei contesti in cui la musica non mira a trasmettere contenuti morali, ben diverso è invece il discorso relativo a quelle melodie e a quei ritmi che debbono concorrere allo sviluppo di un buon carattere, dove la posizione di Aristotele non si distacca poi troppo da quella platonica (almeno nei presupposti di partenza): le organizzazioni melodiche e ritmiche contengono “somiglianze” (homoiomata o mimemata) con caratteri buoni o cattivi, e questo avviene in quanto – specificano Aristotele e altre fonti peripatetiche – le percepiamo come “dinamiche”, cioè grazie al fatto che, nella realtà fenomenica, la musica si sviluppa in una successione temporale e, in virtù del suo movimento percepito, “muove” emotivamente e psicologicamente chi ne fruisce. Sulla base di questo presupposto va intesa anche la quarta funzione che Aristotele attribuisce alla musica, vale a dire la sua capacità di produrre quel tipo di purificazione che libera l’anima dalle emozioni pericolose ed eccessive, nota con il nome di “catarsi” (katharsis). La teoria della significazione musicale come “espressione oggettiva” (che fa cioè riferimento alle qualità intrinseche dell’opera d’arte musicale) e quella della “provocazione emotiva” (secondo cui il fine di un’esecuzione musicale è la reazione dell’ascoltatore a essa) sono quindi per Aristotele intimamente collegate e fuse in un unico sistema interpretativo dell’arte musicale.