TOSSICODIPENDENZA
(v. tossicomania, App. IV, III, p. 661)
La t. è l'insieme di tre fattori che si mescolano dinamicamente: sostanza, consumatore, ambiente geografico-sociale. Ogni descrizione che volesse limitarsi a uno di questi fattori, o privilegiarne uno, porterebbe a una visione parziale ed errata del fenomeno e del tossicodipendente. La t. è continuamente variabile proprio perché mutano le sostanze disponibili sul mercato, le caratteristiche e le motivazioni dei consumatori e anche le modalità con cui una società vive e interpreta questa realtà. Talvolta nel giro di pochi mesi si presentano volti nuovi della t., capaci di togliere significato a quanto era prima ritenuto fondamentale. Negli ultimi anni lo scenario del dramma della t. è cambiato: possiamo fissare nell'entrata in vigore della l. 22 dicembre 1975 n. 685, in materia di abuso di sostanze stupefacenti (v. stupefacenti: Legislazione, App. IV, iii, p. 530), l'inizio di un nuovo capitolo, all'interno del quale si sono susseguiti paragrafi nuovi e a ritmo crescente. Li descriveremo, avendo però sempre presente la necessità di combinarli assieme per una più generale e corretta comprensione della tossicodipendenza.
Le sostanze. - Il periodo che va dal 1969 al 1975 è dominato in Italia dall'uso di eroina e dei derivati della canapa indiana (marijuana, hashish, olio di hashish). Vi sono state mode che hanno privilegiato alcuni allucinogeni (come la dietilamide dell'acido lisergico, i solventi dei grassi, ecc.), ma la scena è stata dominata dall'eroina e dai cannabici. Nel periodo successivo (dopo il 1975) si è assistito a una maggiore diffusione dell'uso della cocaina, che è così uscita dall'ambito dell'élite e dai club esclusivi, per farsi sostanza di massa. Contemporaneamente l'eroina ha perso relativamente di ''potere'' per due ragioni principali: una economica, l'altra psicologica. Il mercato illecito della cocaina ha diminuito il prezzo della sostanza, che da doppio rispetto all'eroina riferito a una dose media efficace, è diventato competitivo e in alcuni casi vantaggioso. La legge del mercato vale per tutti i prodotti, anche per quelli gestiti dal ''mercato nero''. Le ragioni psicologiche si legano agli effetti specifici della cocaina, nettamente distinti da quelli dell'eroina e di tutti i derivati dell'oppio. Questi ultimi inducono un vissuto di distacco, di passività, e portano a un'apatia sia affettiva che intellettiva. L'eroina finisce per essere l'unico stimolo a se stessa, a reiterare l'atto della sua assunzione, e per costituirsi in esperienza totale ed esclusiva. La cocaina è posta invece tra gli stimolanti del sistema nervoso centrale, poiché induce un attivismo mentale con un vissuto di allargamento delle proprie capacità: e la sua immagine ha riferimenti positivi in ambienti e personaggi di rilievo, in molteplici settori, dell'arte, della musica, dell'industria, della finanza, in cui il suo uso, sia pure occasionale, è cosa risaputa. La cocaina insomma non distoglierebbe, secondo questo schema, dall'appartenenza attiva alla società e nemmeno dal successo, di cui sarebbe uno dei fattori. La campagna di prevenzione all'uso di eroina, fondata appunto sulla minaccia di morte sociale cui conduce (prima ancora di quella fisica), inconsapevolmente ha preparato l'immissione sul mercato della cocaina, che presenta caratteristiche opposte. Inoltre l'uso della cocaina consente di evitare il rischio di tutte quelle patologie secondarie all'uso di eroina per via endovenosa, quali le epatiti da siringa e l'AIDS (la cui massima frequenza è rilevata tra i consumatori di droghe per via iniettiva). La cocaina, avendo come via principale quella inalatoria, permette perciò di evitare le conseguenze da siringa, spesso più gravi della dipendenza. La cocaina insomma è così divenuta la regina delle tossicodipendenze.
La forma di gran lunga oggi dominante è il cosiddetto crack, una cocaina preparata in modo particolare per permettere di essere fumata (in genere con una pipa di vetro) e non di essere assunta in forma di polvere, aspirandola con il naso (''sniffata'', nel gergo dei consumatori), e assorbita dalla mucosa. La preparazione della polvere di cocaina, e le varianti che portano al crack, inizia con la macerazione delle foglie di coca mediante cherosene, acqua, carbonato di sodio e acido fosforico, per ottenere la ''pasta di coca''. La pasta viene convertita in ''polvere di coca'' che, chimicamente, è cocaina cloridrato, per aggiunta di acido cloridrico. In questa forma arriva sul mercato e viene usata, anche se talvolta ''tagliata'' con l'aggiunta di altre sostanze. La polvere di coca può essere aspirata ma non fumata, poiché il calore della combustione la decompone e le fa perdere efficacia. Per ottenere la cocaina da fumo (smoking cocaine) la polvere viene trattata con una base forte, di solito con sodio bicarbonato. In questo modo la cocaina perde la forma di sale cloruro. Il crack è in commercio in forma di compresse. Il fumo del crack, raggiunti gli alveoli polmonari, si diffonde nei capillari e ha una rapida e intensa azione. La sua diffusione comporta il rischio di notevoli effetti tossici, per lo più congestione e infezioni broncopolmonari.
Anche le modalità d'uso della cocaina sono mutate: da quello ''classico'', occasionale e finalizzato, si è passati a un uso di maggiore frequenza che ha permesso di evidenziare effetti prima rari o ignoti. All'effetto stimolante (noto come up) segue una fase di depressione dell'umore e di rallentamento, anche motorio, delle attività: il cosiddetto down. In quest'ultima fase c'è la tendenza a una nuova assunzione e quindi a una ripetizione che tende a eliminare o a ''prevenire'' le fasi sgradevoli, talora tanto intense da portare depressione e talvolta comportamento suicida. Con questa modalità, la quantità di cocaina assunta diviene elevata e genera effetti tossici gravi, compresa la morte per overdose. Un quadro prima del tutto sconosciuto.
Con l'inizio degli anni Novanta è apparsa sul mercato italiano l'ecstasy: la 3-4 metilendiossimetamfetamina o MDMA, che rapidamente è diventata la ''pillola del sabato sera''. Segna il ritorno delle anfetamine come sostanze d'abuso. Le anfetamine sono psicostimolanti, noti per la capacità di aumentare l'attività mentale e di togliere l'esigenza del sonno verso il quale si è molto più resistenti. È noto che alcune variazioni strutturali dell'anfetamina potenziano alcune attività della molecola. L'ecstasy è, appunto, uno dei recenti derivati: dà un grande senso di euforia e facilmente permette di superare la fatica fisica. Viene usata per via orale; l'effetto incomincia già dopo 5-10 minuti e raggiunge il massimo dopo mezz'ora, ma dura in media dalle sei alle dieci ore. La dose usata è compresa tra i 50 e i 100 milligrammi. Queste caratteristiche ne fanno la sostanza ''ideale'' per un'azione limitata al sabato notte.
Sui derivati della canapa indiana è calato invece il silenzio, a indicare un'accettazione del ''minor male''. Il loro uso è sempre più diffuso, anche se meno alla moda. Si è imposto in molti il cosiddetto uso da week-end: una modalità in cui la sostanza diventa un'evasione per i giorni del riposo lavorativo o scolastico. Una sorta di divertimento confezionato in polvere, o meglio in cubetti di hashish o sotto forma di tabacco di marijuana. A favorire questa silenziosa accettazione ha agito un atteggiamento della società, benevolo verso alcool etilico e nicotina: atteggiamento quantomeno contraddittorio di difesa dell'alcool e della nicotina, e di condanna della canapa indiana.
Quanto ai farmaci psicotropi, essi sono una delle grandi scoperte di questa seconda metà del Novecento. L'introduzione di molecole capaci di superare la barriera del sistema nervoso centrale e di modificare il comportamento, ha cambiato la storia della follia ed è in grado d'incidere sui comportamenti di ciascuno. In linea di principio ogni farmaco attivo sul sistema nervoso centrale è in grado d'indurre dipendenza e rappresenta una potenziale sostanza d'abuso. Da prescrizione medica esso può acquisire il carattere di un'indicazione confidenziale e da strada, e diventare droga. In questi anni abbiamo assistito molte volte al passaggio di sostanze dalla farmacopea ufficiale alla tabella degli stupefacenti. C'è il rischio che ai danni del mercato nero si aggiungano quelli del mercato bianco.
Il consumatore. - Nel periodo successivo al 1975 si sono verificati considerevoli mutamenti nel consumatore. In precedenza si parlava esclusivamente di mondo giovanile, oggi esiste un tossicodipendente adulto (non solo perché nel frattempo quei primi giovani sono invecchiati), e sta iniziando anche la t. della terza età. Ci sono cioè persone che diventano consumatori in età adulta e anziana senza mai esserlo stati prima. La novità più rilevante comunque è il cambiamento che ha subito il mondo giovanile, che continua a dare il maggior contributo all'abuso di sostanze stupefacenti. Fino agli anni Settanta i giovani ''giustificavano'' il loro legame con la droga con critiche e rifiuto del mondo in cui vivevano: difficoltà nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro; rifiuto della società nel suo insieme, dei suoi modi di gestione del potere, delle sue ingiustizie. Oggi questa tematica è scomparsa, e l'uso della droga sembra non avere alcuna giustificazione, almeno consapevole: perlomeno non si accompagna ad alcuna critica della società o dell'ambiente ma, semmai, si accompagna talvolta alla semplice affermazione del piacere personale di usarla, o alla mancanza di ragioni per rifiutare un'occasionale offerta. Manca però una richiesta, o almeno non viene formulata: il ''bisogno d'aiuto'', che spesso portava i tossicodipendenti a contatto con le persone e le strutture preposte al loro trattamento. Un bisogno non più espresso, come se non si avvertisse più la possibilità di un cambiamento o la voglia di farlo. Il mondo giovanile non percepisce più il futuro né come dimensione né come progetto; l'esistenza viene consumata in un presente iperconcreto e sugli oggetti su cui è incentrata la nostra vita quotidiana. Tutto è ridotto all'istante presente e ogni cosa si riduce al suo consumo. Il resto è incertezza e quindi paura.
In questa perdita di futuro si è smarrita ogni traccia che permetta di organizzare progetti ed esprimere desideri. In un vissuto senza la percezione del futuro, la droga non si distingue da rapporti più validi, poiché scompare ogni distinzione etica e tutto si limita a una strategia dell'empirico. Corrispettivamente, il mondo dei giovani d'oggi tende a perdere la memoria storica e, quindi, i riferimenti con il passato e con la tradizione. La società ha talmente accelerato la propria corsa, da togliere significato alle esperienze compiute dalle generazioni precedenti. Il passato diventa un'ombra inutile, incapace d'ogni insegnamento. In questo scenario il giovane si perde in un labirinto e perde soprattutto il desiderio in qualche modo di uscirne. In questo teatro, dove tutto è ''senza qualità'', anche la droga si riveste di bene e di male a seconda delle circostanze. Ogni descrizione della realtà giovanile dimentica sempre qualcuno e qualche cosa: noi abbiamo richiamato un'atmosfera, una filosofia che sovrastano, sia pure con tinte diverse, le differenti categorie e classificazioni che si possono ipotizzare sui giovani.
Fino al 1975 aveva dominato l'idea che esistessero zone immuni dalla droga: certe classi sociali, certe tipologie psicologiche. Oggi sappiamo che la droga ha unificato ogni classe economica e psicologica. È caduto anche il mito che la t. rappresentasse la maschera contemporanea di una malattia, di un disturbo comportamentale che comunque si sarebbe espresso. È stato dimostrato che la maggior parte dei tossicodipendenti non è definibile secondo i parametri di alcuna patologia: è crollato quel binomio malattia-t., sulla cui base si erano immaginate zone d'immunità. Chi inizia a usare sostanze stupefacenti non è necessariamente un malato; chi sviluppa una t. lo diventa poiché finisce per condizionare ogni sua espressione in funzione della sostanza da cui dipende.
Circa il 20% dei consumatori di sostanze stupefacenti ha più di trent'anni e, come abbiamo accennato, la maggior parte ha iniziato l'uso in età adulta, quando aveva già un inserimento nel lavoro e molti avevano famiglia e figli. Il loro modo di usare le sostanze tende a essere compatibile con un'esistenza che, almeno formalmente, appare ''normale''. In realtà è caratterizzata da rischi continui e da una precarietà sia economica che affettiva. Anche le motivazioni sono differenti e per lo più legate a difficoltà nell'affrontare doveri non gratificanti sul lavoro o in famiglia. La necessità del comune consumatore di droga di allontanare da sé il più possibile i sospetti di esserlo, ha indotto un mercato particolare, come la distribuzione a domicilio, per cui uno spacciatore fa il giro dei clienti (15÷20) elegantemente vestito e magari mascherato da una pseudoprofessione. Di questo gruppo fanno parte insegnanti, commercianti, rappresentanti delle cosiddette professioni alte (avvocati, medici).
Un cambiamento, nell'ultimo decennio, nella figura del consumatore è dato dalle donne. Se prima del 1975 la loro incidenza era al di sotto del 10%, oggi raggiunge il 30%. Se poi il confronto viene fatto per quanto riguarda l'uso dei derivati della canapa indiana, ci si avvia, anche per questo parametro, verso il traguardo della parità dei sessi.
L'ambiente geografico-sociale. - Non c'è dubbio che questo parametro condizioni l'incontro tra sostanza e consumatore. Ha insomma un ruolo preciso: non è l'esclusivo responsabile della t., ma certamente non svolge un ruolo insignificante. Per togliere il contenuto vago che il termine sociale ha assunto, ci riferiamo a due sue espressioni che ne specificano il significato rispetto al fenomeno della t.: la legislazione in materia di sostanze stupefacenti e il mercato della droga.
Nella storia della Repubblica italiana si sono finora susseguiti due diversi e opposti orientamenti legislativi in materia di sostanze stupefacenti (v. oltre: Diritto). Il primo, del 1954, non stabiliva alcuna differenza tra consumatore e spacciatore, e puniva alla stessa stregua chi "comunque" detenesse una delle sostanze elencate nelle apposite tabelle delle sostanze stupefacenti. Era dunque indifferente possedere una sostanza per uso proprio o a fini di spaccio. La ''logica'' di questa normativa era la concezione del consumatore come soggetto criminale e quindi da punire. Il secondo orientamento, quello rispecchiato dalla legge del 1975, ha diviso nettamente il consumatore dallo spacciatore, e prevede pene solo per quest'ultimo. Il consumo di sostanze stupefacenti è depenalizzato e quindi non è perseguibile. In questo caso la concezione del consumatore è quella di un malato, e a tal fine la legge istituisce centri specifici per la cura. Se si tratta di malati, infatti, sarebbe ingiusto punire.
Queste due filosofie ripercorrono un cammino che alternativamente ha applicato lo schema punitivo e quello terapeutico nel caso delle devianze sociali: ne è un esempio paradigmatico la follia. Sono stati proposti ripetuti disegni di legge per modificare o abrogare la legge del 1975, taluni espressione, entro il dilemma se curare o punire, della volontà sociale di punire. La discussione prevalente è semmai il tipo di pena (amministrativo, carcerario, in comunità). Continua insomma l'andamento altalenante: il tossicodipendente considerato ora malato da curare, ora colpevole da punire.
Nel 1994 è ripresa con rinnovato ardore una campagna tendente a far approvare la liberalizzazione dei derivati della canapa indiana: un'azione che ha diviso l'opinione pubblica e che ha visto scendere in campo molti intellettuali, favorevoli. Contemporaneamente vi è stata una recrudescenza dell'atteggiamento proibizionistico, in particolare per il tabacco: una situazione paradossale, che ruota da una parte attorno al diritto di ''drogarsi'' (sia pure per il momento limitatamente ad alcune sostanze), dall'altra al diritto di ''non drogarsi'', e quindi di mettere in atto ogni azione per impedire l'uso di qualsiasi ''droga''. Un altalenarsi di due ''diritti'' che potenzialmente si potranno trasformare in una legge nel senso della liberalizzazione o in un più ampio proibizionismo (esteso anche ad alcol e tabacco).
La coltivazione, la lavorazione e il commercio della droga rappresentano l'altra faccia del fenomeno della t.: un volto terrificante e sfuggente. Parlare di questo tema è come raccontare una favola dove esistono mostri, organizzazioni criminali, invisibili o imprendibili. Talora il mostro ha le identiche sembianze di chi lo deve vincere, e così il bene e il male si confondono e il perseguitato s'identifica nel persecutore.
Non c'è dubbio che spacciare eroina o cocaina nel nostro paese sia facilissimo e non c'è dubbio che da quest'attività provengano utili impensabili da realizzare in qualsiasi altro modo. È anche vero che in una società fondata sull'acquisizione di oggetti e sul valore del successo, le modalità per raggiungere questi obiettivi diventano secondarie. L'alternativa che si pone a molti giovani è quella di un lavoro sottopagato e non gratificante oppure di un piccolo rischio che permetta in poche ore di guadagnare lo stipendio di un mese. Occorrono saldi principi per non cadere in tale tentazione, e nella nostra società i principi sono in grande crisi: tutto pare relativo e mutevole.
Questa situazione è indice dell'insufficiente lotta verso il commercio e il mercato nero, a livello sia degli organi governativi sia delle associazioni libere dei cittadini. Si preferisce convivere che lottare, assuefarsi piuttosto che respingere; per paradosso potremmo dire che esiste tolleranza e dipendenza sociale verso il fenomeno della tossicodipendenza. In questo clima nascono le utopie che, nella storia, sono sempre sintomo di un'impotenza ad affrontare concretamente i problemi del momento: tra queste utopie c'è o quella della liberalizzazione, o quella della guerra armata contro il mostro, sia esso consumatore o spacciatore.
Bibl.: V. Andreoli, F. Maffei, G. Tamburino, Il ciclo della droga, Milano 1982; La droga, a cura di V. Andreoli, "Quaderni de Le Scienze", 12 (1984); V. Andreoli, Droga e scuola, Milano 1985; V. Andreoli, L. Cancrini, W. Fratta, P.L. Gessa, Le tossicodipendenze, Milano 19942.
Diritto. - Nessuna normativa è stata oggetto di così numerose critiche, di tante incertezze interpretative e di successive modifiche come è avvenuto nel corso di questi ultimi settanta anni per la legislazione in materia di stupefacenti. Percorrendo a ritroso soltanto le ultime tappe di tale evoluzione normativa si evince che l'ordinamento italiano, intorno agli anni Cinquanta, è stato espressione di una tendenza culturale tradizionalista a contenuto prettamente repressivo (l. 22 ottobre 1954 n. 1041 "Disciplina della produzione, del commercio e dell'impiego degli stupefacenti"). Essa, infatti, non considerava la fondamentale differenza esistente tra la figura del tossicomane e quella del trafficante e, conseguentemente, vedeva nella sanzione penale lo strumento più efficace per sanzionare anche la condotta di assunzione di droghe, illudendosi di eliminare in tal modo possibili reiterazioni comportamentali partendo dal falso presupposto di una perfetta equiparazione del tossicomane al comune delinquente. La necessità di una regolamentazione maggiormente idonea sul piano normativo e più rispondente al contenimento dell'espansione del fenomeno droga, che tendeva ad assumere sempre più i connotati di una emergenza sociale, e anche al mutato atteggiamento nei confronti dell'assuntore di sostanze stupefacenti, sempre più considerato un malato da curare piuttosto che un criminale da punire, ha trovato tra il 1970 e il 1980 ampio riscontro nell'emanazione di una nuova legge (l. 22 dicembre 1975 n. 685, "Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza"), che ha di molto ampliato i precedenti limitati interventi amministrativi e allineato la nostra normativa a quelle dei sistemi più avanzati e alle Convenzioni Internazionali del 1961 e del 1971.
In tale ottica, infatti, il nuovo dispositivo, nel tentativo di articolare in modo equilibrato, secondo le esigenze dell'utilità sociale, gli interventi repressivi e quelli preventivi, pur escludendo qualsiasi forma di liberalizzazione dell'assunzione e della detenzione delle droghe per uso personale terapeutico e non, ha previsto, in talune ipotesi e a determinate condizioni (art. 80, 1° e 2° co.), la non punibilità, vale a dire l'esclusione dell'applicazione della sanzione penale nei confronti dell'assuntore di sostanze stupefacenti. Ha demandato nel contempo, alle Regioni il compito di prevenire e intervenire contro il detto uso secondo criteri-guida programmati dallo stato e finalizzati, dal punto di vista sanitario, alla cura e all'assistenza del tossicomane e, dal punto di vista sociale, al suo recupero (artt. 90-102).
Anche questa legge è stata non soltanto più volte aggiornata (D.L. 22 aprile 1985 n. 144, "Norme per l'erogazione di contributi finalizzati al sostegno dell'attività di prevenzione e reinserimento dei tossicodipendenti nonché per la distruzione di sostanze stupefacenti e psicotrope sequestrate e confiscate", convertito, con modifiche, dalla l. 21 giugno 1986 n. 297; D.L. 1 aprile 1988 n. 103, "Rifinanziamento delle attività di prevenzione e reinserimento dei tossicodipendenti" convertito, con modifiche, dalla l. 1 giugno 1988 n. 176; e anche alcune disposizioni del nuovo codice di procedura penale relative all'art. 380 "Arresto obbligatorio per detenzione", d.P.R. 22 settembre 1988 n. 447), ma nei suoi confronti sono state avanzate numerose e modificative proposte di legge incentrate sui contrastanti principi della liberalizzazione o della repressione, sino ad arrivare alla definitiva riforma del 1990 (l. 26 giugno 1990 n. 162, "Aggiornamento, modifiche e integrazioni della l. 22 dicembre 1975 n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza" e al successivo Testo unico d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, emanato dal governo al fine di riunire e coordinare tutte "le leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza". Infine va ricordato il D.L. 8 agosto 1991 n. 247, "Modificazioni del testo unico, approvato con d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, relativamente all'arresto in flagranza in materia di sostanze stupefacenti o psicotrope", convertito, con modifiche, dalla l. 5 ottobre 1991 n. 314).
La normativa contenuta nel T.U. (d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309), che sembrava ''definitiva'' prima dell'abrogazione parziale a seguito del referendum popolare 18-19 aprile 1993 (d.P.R. 5 giugno 1993 n. 171), ha aggiornato, modificato e integrato le disposizioni della l. 685/1975 mediante la tecnica della novellazione così che non solo lo schema della legge originaria è conservato e l'intera materia risulta ugualmente distribuita in 12 Titoli ma, anche, ampie parti della previgente normativa di natura amministrativa sono rimaste in vigore. Così per es., l'individuazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope (Titolo I), la vigilanza e il controllo degli stupefacenti (Titolo II), le disposizioni in tema di coltivazione, produzione, fabbricazione, impiego e commercio delle sostanze stupefacenti (Titolo III), la disciplina della loro distribuzione (Titolo IV), della loro importazione, esportazione e transito (Titolo V) e della loro documentazione e custodia (Titolo VI).
Quello che, invece, la l. 162/1990 ha decisamente innovato è l'impostazione generale nei confronti del consumatore di sostanze stupefacenti, sia sotto il profilo della punizione sia sotto quello del recupero. La riforma, infatti, incentrata su due cardini: punizione dell'assuntore e interazione procedimento-sanzione-trattamento terapeutico e socio-riabilitativo (Titoli VIII, X, XI), segna in questo caso nuovamente una svolta (ma in senso repressivo) nell'evoluzione legislativa in tema di stupefacenti, in quanto torna ad assoggettare a sanzione punitiva (anche se di natura principalmente amministrativa) il detentore di piccole quantità per uso personale non terapeutico, pur prevedendo l'alternativa della sottoposizione a trattamento riabilitativo che perde, tuttavia, la precedente caratteristica di ''teorica'' obbligatorietà, per tramutarsi in una scelta volontaria del soggetto interessato, anche se ''sollecitata'' dalla prospettiva di incorrere nelle sanzioni punitive. È evidente la differente impostazione programmatica rispetto a quella della l. 685/1975, basata sulla non offensività della condotta di mero consumo, l'equivalenza tossicodipendente = malato e la conseguente separazione tra fase processuale e fase riabilitativa.
Le problematiche motivazionali che sono alla base della nuova scelta di politica legislativa sono di vario tipo: alcune, ravvisabili nel continuo aumento (andato ben oltre le aspettative legate alla tolleranza per l'uso personale) della diffusione del traffico e del consumo di stupefacenti e del numero di soggetti segnalati per detenzione di tali sostanze o deceduti per intossicazione acuta o per narcotismo acuto, nell'estensione e nel rafforzamento della criminalità organizzata ampiamente coinvolta nel traffico, nell'accumulo, nel riciclaggio o nell'immissione nei canali dell'economia legale di grandi capitali frutto di attività illecite; nell'indotto di delinquenza minuta conseguente al mercato illegale delle droghe, hanno destato e sostenuto un vivissimo allarme sociale sia a livello nazionale sia a livello internazionale. Altre, di carattere prettamente nazionale, sembrerebbero individuabili negli insuccessi riportati nell'affrontare il problema, dovuti principalmente alla mancata attuazione di un servizio pubblico di assistenza efficiente, alla carenza delle previste strutture per la prevenzione e il trattamento delle t., alla scarsa collaborazione da parte di enti e istituzioni affidatarie, alla difficoltà d'intesa tra tecnici del diritto e operatori socio-sanitari e, non ultimo, all'inesistenza di un atteggiamento determinato e coerente in termini di effettiva tolleranza verso l'individualità dell'uso (con tutte le possibili conseguenze) o in termini di disvalore sociale verso un fenomeno comunque devastante.
La nuova normativa, dal punto di vista sanzionatorio, ha seguito in parte gli orientamenti della l. 685/1975, ma si è discostata da essa in punti di grande rilievo. Comune all'indirizzo precedente è la differenziazione di trattamento del trafficante e dello spacciatore-tossicomane, di cui sono espressione le disposizioni in ordine alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva, all'affidamento in prova in casi particolari, alle modalità di esecuzione della pena detentiva, sempre nei riguardi del soggetto tossicodipendente, e alle prestazioni sociosanitarie per tossicodipendenti detenuti (artt. 90-93, art. 94, art. 96 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Tali previsioni normative rivestono carattere decarcerizzante e non depenalizzante, in quanto non viene depenalizzato il reato a causa della condizione soggettiva dell'autore ma, semplicemente, si adattano al tipo di autore le modalità esecutive della sanzione. Ciò consente di dare tempestivo corso ai programmi terapeutici e di evitare ai tossicodipendenti sin dall'inizio l'esperienza della carcerazione. Ancora in sintonia con l'indirizzo normativo precedente è la tendenza all'inasprimento delle sanzioni poiché i minimi edittali previsti dal T.U. per i delitti di traffico di sostanze stupefacenti e di associazione finalizzata al loro commercio (artt. 73 e 74) sono notevolmente aumentati.
Contrasta, invece, con la normativa del 1975, perché rappresenta un ritorno a quella del 1954, la dichiarazione dell'illiceità dell'uso personale di sostanze psicoattive. Il legislatore, infatti, ha ribaltato la precedente impostazione abolendo tanto la distinzione tra uso avente per oggetto ''modiche'' quantità di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 72) e quantità ''non modiche'' (art. 71), quanto il principio della non punibilità della detenzione di modiche quantità di droga per uso personale non terapeutico (art. 80). In sostituzione, l'orientamento legislativo sancisce il divieto generale dell'uso personale non terapeutico delle sostanze indicate come stupefacenti o psicotrope nelle apposite tabelle (art. 72 T.U.), prevedendo un complesso sistema sanzionatorio, inizialmente di carattere principalmente amministrativo e solo in un successivo momento penale (secondo un modello di logica temporale rappresentato da un parametro correlato dalla frequenza delle trasgressioni, artt. 75 e 76 T.U.) nei riguardi di coloro che, allo scopo di farne uso personale, importano, acquistano o comunque detengono le sostanze citate "in quantità non eccedente la dose media giornaliera" (art. 75, 1° co. T.U.). I limiti quantitativi massimi di principio attivo per le dosi medie giornaliere vengono determinati, con riferimento specifico a ciascuna sostanza, dal ministro della Sanità con un decreto emanato su parere dell'Istituto Superiore della Sanità, periodicamente aggiornato tenendo conto dell'evoluzione delle conoscenze specifiche raggiunte nel settore (art. 78, 1° e 2° co. T.U.).
Proprio il quantitativo della sostanza stupefacente o psicotropa oggetto della condotta illecita e l'accertata finalità di questa costituiscono i due profili che differenziano, nella formulazione originaria della legge, l'illecito amministrativo (artt. 75 e 76) da quello penale (art. 73): il primo si perfeziona quando la condotta illecita (acquisto, importazione, detenzione) ha luogo per uso esclusivamente personale dell'assuntore e ha per oggetto quantitativi di sostanza non superiori alla ''dose media giornaliera'' (art. 78); il secondo, invece, si realizza a prescindere dalla finalità della condotta e quindi, pure in caso di uso esclusivamente personale, allorché il quantitativo risulti superiore a quello corrispondente alla ''dose media giornaliera'' e anche quando, pur in presenza di una quantità non superiore alla ''dose media giornaliera'', viene a mancare il requisito della finalità personale della condotta.
Nel caso di illecito amministrativo, competente ad applicare le sanzioni amministrative (sospensione della patente di guida, della licenza di porto d'armi, del passaporto e di ogni altro documento equipollente o, se trattasi di uno straniero, del permesso di soggiorno per motivi di turismo) è il Prefetto del luogo ove è stato commesso il fatto. La durata delle sanzioni oscilla da 2 a 4 mesi, ovvero da 1 a 3 mesi a seconda che trattasi di sostanze comprese nelle tabelle I e III o nelle tabelle II e IV (art. 75, 1° co. T.U.). Le predette misure possono essere sostituite dal semplice invito formale del Prefetto a non recidivare, ma a condizione che l'utenza riguardi determinate sostanze (le cosiddette droghe leggere di cui alle tabelle II e IV) e che ricorrano elementi tali da far presumere la non reiterazione dell'assunzione o che si tratti di un minorenne (art. 75, 2° e 3° co. T.U.). Di più il procedimento amministrativo può venire sospeso qualora l'interessato richieda volontariamente di sottoporsi al programma terapeutico e socio-riabilitativo previsto dall'art. 122 T.U., ma se non si presenta o lo interrompe senza giustificato motivo l'autorità amministrativa lo convoca nuovamente invitandolo al rispetto del programma (art. 75, 9° e 12° co. T.U.).
La mancata presentazione del soggetto o il suo rifiuto di sottoporsi al programma, o una nuova sua interruzione senza giustificato motivo, ovvero la reiterata assunzione di sostanze stupefacenti da parte di quei soggetti già incorsi per due volte nelle sanzioni amministrative previste dall'art. 75, comportano la trasformazione del procedimento amministrativo in procedimento penale con la trasmissione degli atti dall'autorità amministrativa (Prefetto) a quella giudiziaria (Pretore) che è dotata di un ampio potere discrezionale nella scelta delle sanzioni (di contenuto amministrativo secondo l'orientamento dominante, di contenuto penale secondo altri), di durata da 3 a 8 mesi o da 2 a 4 mesi (a seconda che trattasi di sostanze comprese rispettivamente, nelle tabelle I e III o II e IV): divieto di allontanarsi dal comune di residenza; obbligo di presentarsi almeno due volte la settimana all'ufficio di Polizia o ai Carabinieri; obbligo del rispetto del prescritto orario nel rientro e nell'uscita dalla propria dimora; divieto di frequentare i locali pubblici indicati; sospensione della patente di guida, della licenza di porto d'armi, del passaporto, o di ogni altro documento equipollente; obbligo di prestare un'attività non retribuita a favore della collettività, almeno per una giornata lavorativa alla settimana; il sequestro dei veicoli, se di proprietà dell'autore del reato, con i quali le sostanze stupefacenti sono state trasportate o custodite; affidamento al servizio sociale; sospensione del permesso di soggiorno rilasciato allo straniero per motivi turistici (art. 76, 1° e 2° co. T.U.). Anche questo procedimento (come quello avanti l'autorità amministrativa) può essere sospeso dal Pretore su richiesta dell'interessato che dichiari di volersi sottoporre al programma terapeutico previsto dalla legge. Ma la mancata collaborazione, il successivo rifiuto o l'interruzione ingiustificata comportano la revoca della sospensione e la ripresa del procedimento pretorile (art. 76, 8° co. T.U.). Infine l'inosservanza delle prescrizioni imposte come contenuto delle sanzioni applicate dal Pretore assume, secondo la tesi dominante, rilevanza penale ed è punita con la pena alternativa dell'arresto fino a 3 mesi o dell'ammenda fino a 5 milioni (art. 76, 12° co. T.U.).
Sembra potersi affermare che la scelta normativa operata dal legislatore italiano (inasprimento della repressione del traffico di droga e dichiarazione del carattere penalmente illecito dell'uso personale con l'applicazione di misure sanzionatorie di vario tipo) sia stata un'opzione influenzata dall'orientamento rigidamente proibizionista espresso dalla Convenzione delle Nazioni Unite adottata a Vienna il 20 dicembre 1988 e ratificata dalla l. 5 novembre 1990 n. 328. Detta Convenzione, infatti, prevede la possibilità che gli stati adottino misure di trattamento a fine terapeutico, di educazione, di assistenza sanitaria post-ospedaliera, di riadattamento o di reinserimento sociale, sia in sostituzione della condanna o della pena, sia in aggiunta a esse.
L'avvenire avrebbe potuto dimostrare la natura effettuale della nuova normativa se le polemiche che avevano preceduto e accompagnato l'iter della l. 162/1990 non fossero continuate anche dopo la sua entrata in vigore, riattualizzando particolarmente la discussione (che sembrava superata) sull'opportunità di favorire l'opzione antiproibizionistica per lo meno nei riguardi delle cosiddette ''droghe leggere''.
Le critiche si sono principalmente accentrate sul fatto che la minaccia della sanzione punitiva nei confronti dell'assuntore, invece di favorire la sua scelta di essere sottoposto a trattamento, avrebbe potuto spingerlo verso la clandestinità; la nozione di ''dose media giornaliera'' presenterebbe una limitata consistenza scientifica e concettuale e notevoli difficoltà nell'interpretazione e nell'applicazione medico-legale e tossicologica; ancora il decreto ministeriale (provvedimento di carattere generale e astratto) scelto come tecnica d'individuazione del limite della ''dose media giornaliera'' non avrebbe potuto prendere in considerazione la dimensione soggettiva del fenomeno; infine il facile superamento della ''dose media giornaliera'', pur per minime quantità, avrebbe necessariamente determinato l'applicazione delle stesse gravi sanzioni detentive previste per i trafficanti-spacciatori (art. 73 T.U.), data la presunzione di destinazione allo spaccio della sostanza posseduta.
Molteplici eccezioni di illegittimità costituzionale sono state sollevate nel tentativo di cambiare la situazione, ma la Corte, con tre fondamentali sentenze (11 luglio 1991 n. 333, in Giur. it., 1993, i, 1, 2067; 27 marzo 1992 n. 133, in Cass. pen., 1992, 2612 (nota); 1° luglio 1992 n. 308, in Giur. it., 1993, i, 1, 1656), le ha respinte salvando, in tal modo, sia la struttura fondamentale della riforma sia la questione relativa alla ''dose media giornaliera''.
Al fine, forse, di evitare un ventilato referendum abrogativo è stato emanato il D.L. 12 gennaio 1993, n. 3 "Rideterminazione del fabbisogno soggettivo sino alla triplicazione - D.M.G. in 24 h.", reiterato dal D.L. 14 maggio 1993 n. 139, convertito, con modifiche dalla l. 14 luglio 1993 n. 222, ma limitatamente ai primi sette articoli riguardanti il trattamento di persone detenute affette da infezioni da HIV e tossicodipendenti. Detta modifica al T.U., pur evidenziando la differenza qualitativa esistente tra assuntori abituali secondo un duplice criterio cronologico (assunzione nelle 24 ore) e quantitativo (non superiore al triplo della ''dose media giornaliera'') e, conseguentemente, riducendo le condotte penalmente illecite dal momento che rientravano negli illeciti amministrativi tutti quei comportamenti aventi per oggetto quantitativi di sostanza stupefacente superiori alla ''dose media giornaliera'', è stata, comunque, superata dal referendum popolare del 18-19 aprile 1993 (d.P.R. 5 giugno 1993 n. 171) che ha abrogato, tra gli altri, l'art. 72, co. 1 (illiceità del consumo per uso non terapeutico); gli artt. 75, co. 1 (relativamente alla ''dose media giornaliera'') e 78, co. 1, lett. b e c (in riferimento alle metodiche per quantificare l'assunzione abituale nelle 24 ore e ai limiti quantitativi massimali di principio attivo per la ''dose media giornaliera''); l'art. 76 (disciplinante le misure di competenza dell'autorità giudiziaria, a carico di colui che rifiuta o interrompe il programma terapeutico e socio-riabilitativo e a carico del recidivante, nonché le sanzioni penali per colui che viola tali misure). In effetti il d.P.R. 5 giugno 1993 n. 171, rendendo operativi i risultati del referendum, ha profondamente mutato l'assetto normativo della l. 162/1990 (che aveva posto a base di tutta la sua impalcatura proprio il principio del divieto del consumo di droghe) così che la detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti di qualsiasi natura e quantità non costituisce più un reato, ma un mero illecito amministrativo e, conseguentemente, il consumatore non è più assoggettabile né a restrizioni cautelari della libertà personale neppure, ovviamente, nella flagranza del fatto, né a qualsivoglia misura di carattere penale, restando salvo il solo procedimento amministrativo di competenza prefettizia.
In conclusione, allo stato, la differenziazione tra responsabilità amministrativa del consumatore e responsabilità penale del trafficante è esclusivamente rappresentata dalla specifica finalità di destinazione della sostanza posseduta (e cioè se per uso o per spaccio) e sarà compito della pratica giudiziaria, anche alla luce delle direttive tracciate dalla giurisprudenza, riuscire a fronteggiare il pericolo grave che degli autentici spacciatori passino per meri consumatori e che la giustificazione che si tratta di sostanze da utilizzare a fine esclusivamente personale si tramuti in un facile e comodo espediente da parte di chi, invece, intenda destinarle allo spaccio.
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