torre (sost.)
Indica edifici ben determinati: la t. della Garisenda, in Rime LI 4; le mura della città di Dite sono munite di ‛ alte torri ' (If VII 130, VIII 2, IX 36); un riferimento storico preciso si ha nel racconto di Ugolino, che ricorda di aver sentito chiavar l'uscio di sotto / a l'orribile torre (If XXXIII 47), cioè la porta di accesso alla Torre dei Gualandi in cui era stato rinchiuso; nel castello di Gelosia si aprono quattro portali / con gran torri di sopra imbertescate (Fiore XXVIII 10) e, sempre in Fiore CLXIII 12 far lor vender la torre e 'l palagio, / o casa o casolari o vero i colti, in un'enumerazione che assume il valore di " tutto ciò che possiedono ". Simile accezione in CXXII 5 de' suo ' beni i' fo torre e palazzo, / o ver be' dormitori o belle sale.
Un altro gruppo di esempi si collega all'episodio dei giganti, i quali fuoriescono dal pozzo dall'ombelico in su, sicché D. ha l'impressione di veder molte alte torri (If XXXI 20); ma Virgilio lo corregge: sappi che non son torri, ma giganti (v. 31). La fantasia di D. è anzi talmente colpita dalle dimensioni colossali dei giganti da suggerirgli la similitudine tratta dalle t. che coronano il castello di Monteriggioni (v. 41; cfr. TORREGGIARE), e quella introdotta per descrivere l'impotente moto di ribellione di Efialte: Non fu tremolo già tanto rubesto / che scotesse una torre così forte, / come Fïalte a scuotersi fu presto (v. 107).
Abbastanza frequente è l'uso di t. come termine di comparazione o in senso metaforico. Per enunciare con maggior vigore la tesi che le ricchezze non possono togliere la nobiltà a chi ce l'ha, D. usa la metafora né la diritta torre / fa piegar rivo che da lungi corre (Cv IV Le dolci rime 54, ripreso e chiarito in X 12 che non vuole altro dire, se non... che le divizie non possono torre nobilitale, dicendo quasi quella nobilitade essere torre diritta, e le divizie fiume da lungi corrente; e così in XIII 16).
È assunta a simbolo di fermezza morale nell'ammonimento di Virgilio a D.: Vien dietro a me, e lascia dir le genti: / sta come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar di venti (Pg V 14); il paragone ricalca il " velut... rupes immota " di Virgilio (Aen. VII 586), ma può essere stato suggerito anche da Seneca Const. III " Quemadmodum proiecti in altum scopuli mare frangunt, ita sapientis animus solidus est ". In modo analogo, una t. è, per metafora, posta a difesa della mente del poeta, insidiato dalla baldanzosa fiducia riposta da Lisetta nella propria bellezza: colei che mi si crede tòrre / ... quando è giunta a piè di quella torre / che s'apre quando l'anima acconsente... (Rime CXVII 5: si noti la rima equivoca; lo stesso artificio ricorre anche in Cv IV Le dolci rime 50-54, citato), per cui cfr., per un analogo traslato, II II 3 quella gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca de la mia mente.
A una metafora ancor più complessa, e discussa, ricorre Marco Lombardo per affermare la necessità di un'autorità sovrana capace di guidare l'umanità verso la città di Dio, vista come origine di ogni giustizia, e quindi verso la meta che le è prefissa: convenne legge per fren porre; / convenne rege aver, che discernesse / de la vera cittade almen la torre (Pg XVI 96). La torre, spiegava il Buti, " è la guardia e difensione, che è la iustizia in generale... de la città eterna, ch'è in questa vita mondana lo vivere ragionevilmente, e di po' questa vita... è vita eterna nella fruizione di Dio, dov'è vera iustizia ". Da quest'interpretazione dissente in parte il Chimenz, al quale l'avverbio ‛ almeno ' sembra male accordarsi col concetto di cosa tanto fondamentale; per quello studioso la frase va intesa nel senso generico " che l'imperatore può condurre l'umanità a vedere almeno da lontano la città celeste, promovendo l'esercizio delle virtù morali e intellettuali ".