TORNEO (fr. tournoi; sp. torneo; ted. Turnier; ingl. tournament, tourney)
Combattimento di uomini a cavallo formanti squadriglie che, aggirandosi entro un largo steccato circolare, cercano di colpire le squadre avversarie e di rimanere padrone del campo. Anche: spettacolo pubblico tra squadre armate rappresentanti una battaglia, con esclusione di pericolo per i combattenti.
La parola torneo si trova spesso unita con la parola giostra, e i due vocaboli furono anche usati indifferentemente, quantunque giostra significhi più propriamente combattimento di due cavalieri che vanno l'uno contro l'altro a cavallo e con lancia in resta.
Storia. - I tornei furono un prodotto del feudalismo e della cavalleria, e si riallacciano, per ciò che riguarda il fine di esercitarsi nell'arte militare, ai giuochi guerreschi proprî di quasi tutti i popoli. Si dissero inventati da un signore G. de Prévilly, morto nel 1066; ma è da ritenersi che questi abbia soltanto fissato e forse perfezionato le norme che governavano quei ludi. Sembra accertato che la loro origine sia francese, come ci prova, tra l'altro, il nome ad essi dato di conflictus gallici. E dai Franchi si disse apprendessero l'arte di torneare gli altri popoli. Certo si è che l'uso di queste esercitazioni cominciò, anche in Italia, assai presto, e che vi presero parte molto volentieri gl'Italiani, già addestrati in antichissimi giuochi militari, e desiderosi di dare prova del loro valore e della loro perizia.
Il Muratori vide un sicuro accenno ai primi tornei italiani in Ruderico (De Gestis Frid. Aug., lib. II, 8, A. 1158). Essi furono molto numerosi durante i secoli XII e XIII, in tutte le città grandi e piccole. I tornei primitivi furono vere e proprie battaglie, e però in essi molti erano i feriti e non rari i morti. Per celebrare una vittoria o un matrimonio, una pace o una lega, per una grande festa religiosa o un importante avvenimento politico, come la visita di un re o di un principe; per la creazione di nuovi cavalieri, per trovare mariti alle donzelle, e anche per sgranchire le membra dopo l'inerzia del lungo inverno, era indetto il torneo, per lo più in un giorno della primavera. I messi passavano di luogo in luogo gridando il bando nel quale erano sempre indicati il nome del signore che invitava, il luogo e i giorni della festa, e il premio; talora anche le condizioni del combattimento. Il premio era per lo più di poca entità: una corona, un'armatura, una borsa, un gioiello, un cavallo, un ricamo, una stoffa, ecc. Tutti si preparavano nel miglior modo, e non soltanto i cavalieri e gli scudieri, ma anche le dame e le donzelle, e tutta la gente che viveva sui tornei: araldi, trombetti, giocolieri, menestrelli, suonatori, venditori di armi, ecc. I tornanti, dopo un viaggio che durava talora giorni e anche settimane, giunti al luogo indicato prendevano alloggio o nei palazzi o sotto tende, facendo appendere i loro scudi e le loro insegne in luoghi stabiliti, mentre i banditori annunciavano il loro arrivo. Gli scudi erano esaminati da cavalieri scelti a tale ufficio, che ne prendevano nota particolare. Così pure i giudici di campo osservavano attentamente le armi dei cavalieri per assicurarsi che tutti avessero a combattere lealmente; e da tutti ricevevano il dovuto giuramento.
Il più delle volte, prima di scendere in campo per il torneo, i cavalieri, e particolarmente i giovani donzelli, cominciavano a provarsi giostrando e duellando. Allorché il gran giorno spuntava tutti insieme i combattenti si avviavano al campo dopo avere ascoltato con fervore la messa; gli araldi, splendidamente vestiti, curavano che tutto procedesse con ordine, sia nel campo, sia nelle tribune dove si affollava il pubblico. Su alcuni palchi appositi sedevano i vecchi cavalieri che non erano più in grado di combattere, e i giudici di campo; da altri palchi assistevano le dame sfoggianti ricchissimi abiti, pellicce, gioielli e cinture. Tra il rullare dei tamburi e il suono delle trombe e delle musiche incomincia la zuffa, che tutti seguono con interesse vivissimo e che dura fino alla sera. Al lume delle torce si trasportano i feriti alle loro dimore, assistiti amorosamente da dame e da cavalieri, e confortati dai canti dei giullari. I cavalieri incolumi, dopo un bagno, si rifocillano con un buon pranzo dove non mancano mai musiche e canti: quando è proclamato il vincitore questi riceve il premio dalla dama per la quale ha combattuto, e, piegando il ginocchio e abbassando la lancia, la bacia in fronte. Indi è messo a sedere in un posto distinto, è servito a tavola dalla dama e riceve le più liete felicitazioni. Ma poiché in quelle lotte, come si è detto, spesso non mancavano i morti, già nel concilio ecumenico del 1139 era stata presa una deliberazione per la quale ai morti in torneo si vietava la sepoltura in terra benedetta. Gli anatemi e le scomuniche non riuscirono a far cessare quei pericolosi spettacoli tanto universalmente graditi, ma sia per queste opposizioni, sia per l'azione della civiltà, essi andarono via via perdendo della primitiva ferocia, e al fiero combattimento a schiere si vennero a sostituire le giostre, nelle quali si usavano "armi cortesi", cioè armi spuntate o coperte d'una difesa. Naturalmente anche più dei tornei furono numerose le giostre dal sec. XIII in avanti, e tanto vivo e diffuso fu l'amore per tali feste, che se ne vollero correre dappertutto. Si disse che il gusto e le regole delle giostre fossero diffusi in Italia particolarmente da Carlo d'Angiò: certo si è che di esse si parla da cronisti, poeti e novellieri come di cosa molto comune e frequente alla fine del sec. XIII e al principio del XIV. Nella seconda metà del Cinquecento le giostre vanno facendosi sempre meno aspre e pericolose, e risentono anch'esse delle nuove idee sociali e politiche. Talché, accanto ai solenni spettacoli offerti dai principi e dai signori, non mancano le giostre popolari, cui prendono parte non solo i borghesi, ma anche gli artigiani e i famigli. All'inizio del Quattrocento s'era risvegliato quasi dappertutto in Italia lo spirito militare e guerresco, e le giostre avevano raggiunto in quell'epoca una magnificenza cui prima non si erano nemmeno avvicinate. Il popolo ne era avido e i principi non se ne mostravano avari, sia per sfoggio di ricchezza, sia anche perché tali convegni assumevano non di rado molta importanza per il loro significato politico, dando modo ai signori di conoscersi e di intendersi per patti o parentadi.
Ma dal sec. XVI in poi quegli esercizî andarono perdendo sempre più della loro indole primitiva, trasformandosi in feste: in una, cioè, delle tante specie di spettacoli che hanno nel Rinascimento italiano l'età del loro decisivo trionfo. Nel Seicento la trasformazione, andò tant'oltre che lo spettacolo consistette quasi soltanto in esercizî di comparse, ove si gareggiava di grazia e di agilità, di combinazione di quadriglie e di giuochi, che accompagnavano spesso un'azione coreografica, con carri trionfali e allegorici, e anche con musiche e fuochi artificiali.
Giostre particolari e spettacoli affini. - Giostra del Saracino, o Quintana. - Bersaglio formato di un uomo di legno, rappresentante un saracino, avente spesso le braccia in croce e girante su un asse centrale in modo da dare un colpo al giostratore che non colpiva nel segno.
Giostra con l'anello. - Consisteva in corse a cavallo, durante le quali i cavalieri, galoppando, dovevano infilare la lancia o la spada in un anello sospeso.
Giostra a demenini. - Era un combattimento a lance pesanti e tripuntite, e per ciò faticoso e anche pericoloso.
Bagordo o Bigordo (bahurt, antico francese behourd). - Fu tra gli esercizî più amati in Italia, perché permetteva ai cavalieri di fare sfoggio di vestiti, di gualdrappe, di cavalli, e di mostrare la snellezza dei corpi e la maestria nel cavalcare: era una specie di parata fatta o in onore di un illustre personaggio o sotto le finestre di una dama; tali esercizî si chiamarono anche armeggerie e schermaglie.
Carosello (fr. carrousel). - Era uno spettacolo offerto da cavalieri che di solito guidavano carri o cocchi, e, maneggiando canne e girando intorno a un bersaglio centrale, o facendo altri giuochi o corse, rappresentavano spesso fatti eroici dell'antichità. (V. tavv. IX e X).
Letteratura. - La produzione letteraria sulle giostre fu molto copiosa: descrizioni in prosa volgare, ora brevi e rapide, ora piene di minuti particolari; cantari borghesi, poemi e poemetti, i cui antecedenti più diretti si trovano nei "contrasti" che celebravano passatempi popolari e signorili, lodavano donne amate, descrivevano lotte, conflitti anche tra personaggi immaginarî. Nella seconda metà del Quattrocento l'epica popolaresca si ampliò, si ingentilì, ma diventò cortigiana. Tra i componimenti latini su giostre ricordiamo soltanto i Ludi equestres di Giovanni Antonio Campano, che li scrisse quasi certamente nel 1460 per un torneo dato in Perugia da Braccio Baglioni; e le Elegie di Giovanni Aurelio Augurelli per la giostra corsa nel 1475 da Giuliano de' Medici. Tra i volgari, che furono molto numerosi, sono particolarmente noti due poemetti: uno che celebra la giostra da cui uscì vincitore Lorenzo de' Medici, il 7 febbraio 1469; l'altro quella datasi in onore di suo fratello Giuliano il 28 marzo 1475, ed è opera di Angelo Poliziano. Le ottave per Lorenzo, attribuite per lungo tempo a Luca Pulci, si ritengono oggi dai più di Luigi, l'autore del Morgante: esse, pur offrendo qualche tratto grazioso là ove il tono è scherzevole, non possono dirsi nella loro maggioranza felici. Le mirabili Stanze del Poliziano rimasero interrotte, come è noto, alla 45a strofe del II libro.
Bibl.: Fonti: Nodius, Pandectae triumphales sive Pomparum et Festorum ac solemnium apparatuum, ecc., Francoforte s. M. 1586; M. De Vulson de la Colombière, Le vrai théâtre d'honneur, ecc., Parigi 1618; C. F. Menestrier, Traité des tournois, joustes, carrousels et autres spectacles publiques, Lione 1660.
Cfr., inoltre, G. Bertoni, Il Duecento, Milano 1911; R. Truffi, Giostre e cantori di giostre, Bologna 1911 (con ampia bibliografia); E. Rho, La lirica di A. Poliziano, Torino 1923; G. Reichembach, Costumi della Rinascenza. Una giostra, Padova 1925; V. Rossi, Il Quattrocento, 2a ed., Milano 1934.