Delli Colli, Tonino (propr. Antonio)
Direttore della fotografia, nato a Roma il 20 novembre 1923. Fu il sodalizio artistico con Pier Paolo Pasolini, per il quale ha firmato le immagini di quasi tutti i film, a portare alla ribalta il nome di D. C., prima considerato solo un versatile artigiano della luce, onesto illustratore del dolce bianco e nero delle commedie all'italiana. Con il suo cinico disincanto ha incarnato il prototipo dell'artigiano di Cinecittà, scettico e sornione, privo di formazione scolastica ma dotato di un istintivo talento. Spesso innovatore nella tecnica di lavorazione, sia del bianco e nero sia del colore, D. C. è stato, fra i grandi della fotografia italiana, quello meno coinvolto in produzioni internazionali. Hanno comunque fatto il giro del mondo le immagini di alcuni suoi film, soprattutto quelli girati per Sergio Leone, da Il buono, il brutto, il cattivo (1966) a Once upon a time in America (1984; C'era una volta in America), che hanno costituito un importante punto di riferimento anche negli Stati Uniti. Di rilievo, negli anni Ottanta, la collaborazione agli ultimi tre film di Federico Fellini (Ginger e Fred, 1986; Intervista, 1987; La voce della luna, 1990). Nel corso della sua carriera è stato premiato quattro volte con il David di Donatello e sei volte con il Nastro d'argento.
Dopo aver abbandonato gli studi, nel 1938 andò 'a bottega' da Ubaldo Arata, uno dei grandi della fotografia della Cinecittà fascista, trovando poi lavoro a fianco di Mario Albertelli. Negli anni della guerra ebbe la fortuna di esordire giovanissimo come direttore della fotografia, firmando più che dignitosamente le immagini di Finalmente sì (1944), una commedia in stile telefoni bianchi diretta dall'ungherese László Kish, e di un film goldoniano voluto da Cesco Baseggio, Il paese senza pace (1946), diretto da Leo Menardi. Dopo la parentesi bellica, in ragione della sua troppo giovane età, dovette tornare a lavorare come operatore alla macchina e fu nelle troupe di Arata e di Anchise Brizzi. Ma ben presto riconquistò il ruolo di direttore della fotografia, scritturato da Dino De Laurentiis che lo riteneva adatto alla realizzazione di veloci commedie, melodrammi canori, film d'avventura e soprattutto instant movies confezionati su misura per Totò. Toccò a lui illuminare il primo lungometraggio girato interamente con il negativo italiano Ferraniacolor, Totò a colori (1952) di Mario Monicelli e Steno. Forzando la mano agli ingegneri della Ferrania, che seguivano la lavorazione per imporre l'uso di grandi quantità di luce, riuscì a ottenere la possibilità di realizzare alcuni effetti di pregio, come lo spot attorno a Totò nella famosa sequenza del burattino. Fu sotto contratto sia per la Scalera sia per la Titanus, guadagnandosi pian piano spazio nelle produzioni più importanti, come nelle commedie Piccola posta (1955) di Steno, Donatella (1956) di Mario Monicelli e soprattutto Poveri, ma belli (1957) di Dino Risi, tutte fotografate con raffinata grazia in bianco e nero. Alla fine del decennio fu protagonista di un altro exploit cromatico, quello del fantasy avventuroso all'italiana, in Il ladro di Bagdad (1961), diretto da Arthur Lubin e Bruno Vailati, e in Le meraviglie di Aladino (1961), diretto da Mario Bava. Appena uscito da questo dittico di scatenata fantasia, venne coinvolto nella lavorazione del primo film di Pasolini, Accattone (1961), già iniziato da Carlo Di Palma e poi sospeso per ragioni produttive. Imbattutosi nello strano, apparentemente incoerente, mondo cinematografico pasoliniano, D. C. modificò radicalmente la propria maniera di filmare, puntando sulla grana grossa della vecchia Ferrania (e calcandone le imperfezioni), irrobustendo i contrasti e sovvertendo alcune regole della fotografia: negli esterni, anziché girare in favore di sole, D. C. scoprì che era molto più interessante usare un controluce pieno, o un mezzo controluce, schiarendo poi il volto dei personaggi con una luce di taglio o una diffusa ravvicinata. Questa scelta conferì una drammaticità insolita ai primi piani e costituì (insieme al gusto pasoliniano dei casting 'borgatari') il segreto di quella icasticità pittorica dell'immagine che si ritrova nei film di Pasolini in bianco e nero. Insieme a Nino Baragli, D. C. fu l'uomo che governò le incongruenze tecniche di Pasolini, ricevendone in cambio una sorta di alfabetizzazione sul campo. Nel 1963 Pasolini lo condusse fra le citazioni delle Deposizioni del Pontormo e di Rosso Fiorentino per l'indimenticabile episodio La ricotta del film collettivo Ro.Go.Pa.G., coraggiosa miscela di un bianco e nero fisicamente pasoliniano e di un colore a metà strada fra la pittura del Cinquecento e la pop art. La fama derivata dalla collaborazione con Pasolini gli servì anche a guadagnare la stima di altri registi di quella che si poteva considerare la nouvelle vague italiana, da Ugo Gregoretti a Mario Missiroli, da Valerio Zurlini a Nelo Risi, da Marco Bellocchio a Giuseppe Patroni Griffi. Nel 1966 avvenne l'incontro con Leone, per il quale D. C. applicò al colore di Il buono, il brutto, il cattivo le scelte stilistiche adottate nei primi film in bianco e nero di Pasolini, con il risultato di conferire alle immagini una densa pasta cromatica. Con il trascorrere degli anni il gusto del colore di D. C. si è sempre più affinato, passando dal favolistico approccio della cosiddetta Trilogia della vita pasoliniana alla raggelata bellezza di Lacombe Lucien (1974; Cognome e nome: Lacombe Lucien) di Louis Malle, per il quale aveva già lavorato in un episodio, William Wilson, di Histoires extraordinaires oTre passi nel delirio (1968) diretto anche da Fellini e da Roger Vadim; dalla leggiadra semplicità di Casotto (1977) di Sergio Citti alle suggestioni barocche dell'ultimo Leone, quello di Once upon a time in America, dall'accumulazione cromatica di Pasqualino Settebellezze (1975) di Lina Wertmüller all'estrema pulizia formale dell'ultimo Marco Ferreri (Il futuro è donna, 1984), dai misteri medievali di Jean-Jacques Annaud (Der Name der Rose, 1986, Il nome della rosa), all'acido iperrealismo di Roman Polanski (Bitter Moon, 1992, Luna di fiele; Death and the maiden, 1994, La morte e la fanciulla). Uno dei suoi capolavori assoluti lo ha realizzato con le immagini della Sicilia settecentesca di Marianna Ucrìa (1997), diretto da Roberto Faenza, regista da sempre attento ai valori figurativi. Sempre nel 1997 ha diretto la fotografia di La vita è bella di Roberto Benigni. Tra gli altri cineasti con i quali ha collaborato, sono da ricordare Roberto Rossellini (Dov'è la libertà…?, 1954), Jean Delannoy (Les sultans, 1966, L'amante italiana), Luis García Berlanga (El verdugo, 1963, La ballata del boia), Renato Castellani (Questi fantasmi, 1968), Alessandro Blasetti, Jean-Luc Godard, Salvatore Samperi, Yves Boisset e Alberto Lattuada.
S. Consiglio, F. Ferzetti, Tonino Delli Colli, i misteri della luce, in La bottega della luce, Milano 1983, pp. 26-43; S. Pizzello, The name of the rose, a medieval mystery, in "American cinematographer", 1986, 10, pp. 50-54; A. Gross, J. Turner, Death and the maiden: trial by candlelight, in "American cinematographer", 1995, 4, pp. 56-70, in partic. 56-58 e 64-66.