Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Sulla base di alcuni chiarimenti relativamente al concetto di “tonalità”, si cerca di individuare le ragioni che fondano alcune delle principali opere di Schönberg, Berg e Webern composte negli anni Dieci nel clima espressionistico.
Il sistema della tonalità
Nei saggi e nei libri che parlano di musica, la parola “tonalità” compare continuamente e viene usata con disinvoltura: per chi fa musica il concetto è così ovvio che non c’è nessuna necessità di spiegarlo. L’ovvietà però, diventa paradossale quando anche i non musicisti imparano a conoscere e a usare la parola: e non sempre, ovviamente, la usano con correttezza. Che i musicisti non amino spiegarla potrebbe anche derivare dal fatto che spiegarla a parole non è per niente semplice: la presenza della tonalità “si avverte”, “si sente”, “è lì”, “parla da sé”…è prima di tutto un fenomeno d’orecchio, e non un fenomeno di concetto. Ma in questa sede, purtroppo, all’orecchio non è possibile ricorrere.
Per spiegarmi alla meglio ricorrerò a tre esperienze che forse qualsiasi ascoltatore è in grado di riconoscere. In primo luogo la tonalità è legata alla dialettica tra momenti instabili, incompleti, e altri stabili e conclusivi. Chi ascolta un brano tonale “sa” o “prevede” (anche senza esserne consapevole) quale sarà la “nota” che concluderà tale brano, ma si aspetta anche che prima di raggiungere quella conclusione si sentano momenti di sospensione, di tensione, di instabilità. Questa dialettica nella musica classica europea ha raggiunto vertici di straordinaria complessità e raffinatezza.
In secondo luogo la tonalità è caratterizzata dall’uso prevalente di suoni simultanei “consonanti”, cioè che all’ascolto risultano più gradevoli di altri suoni simultanei, che sono “dissonanti”. Sono esempi di suoni simultanei consonanti i primi accordi (che la teoria musicale chiama “perfetti”) che impariamo quando cominciamo ad accompagnarci con la chitarra. La scoperta di queste sonorità “perfette” risale perlomeno al Rinascimento e in Europa esse sono state usate ininterrottamente per cinque secoli, con modalità sempre sottilmente diverse, ma senza che si perdesse mai di vista l’obiettivo di far prevalere nel corso di un brano le sonorità più consonanti.
In terzo luogo, il chitarrista in erba, dopo aver imparato alcuni accordi, impara anche a collegarli fra loro. In una composizione tonale, non qualsiasi accordo è accettato dopo qualsiasi altro: esistono regole di successione. Così ad esempio i chitarristi, se vogliono accompagnare efficacemente una canzone, devono imparare quello che in gergo si chiama il “giro d’accordi”: si può allora dire che tutti i pezzi di musica tonale sono basati su uno stesso “giro di accordi”, una successione standard che gli ascoltatori di musica tonale sono abituati ad aspettarsi, e che sanno benissimo riconoscere nonostante le infinite varianti a cui essa è sottoposta.
Ci si può chiedere allora come mai i più grandi musicisti di tradizione europea abbiano deciso, agli inizi del Novecento, di sbarazzarsi di un patrimonio faticosamente e minuziosamente costruito da generazioni di compositori e di ascoltatori che vi avevano lavorato per secoli. Si può rispondere in due modi, anche qui chiedendo venia per le semplificazioni. Anzitutto si può ricordare come l’idea di “novità” fosse profondamente connaturata al fare artistico del tardo Ottocento. La società mercantile e democratica che si era formata a seguito delle grandi rivoluzioni aveva fortemente posto l’accento sull’individualità dell’uomo, e gli artisti, che di quella società erano gli interpreti più autentici, tendevano a emergere non tanto per fare di meglio all’interno di norme accettate e diffuse, quanto per fare qualcosa di diverso rispetto a tali norme.
Una seconda motivazione è che gli artisti, che appartenevano di diritto alla borghesia colta, all’élite intellettuale della società dell’Ottocento, assistevano con sgomento a quello che essi interpretavano come un degrado culturale della società: la cultura diffusa si allargava, ma a questo allargamento corrispondeva una vistosa perdita di qualità. Gli artisti cominciarono a sentire il bisogno di distinguersi dalle “masse” di cui aborrivano la cosiddetta “volgarità”, e di rivendicare la profondità e la sottigliezza del loro pensiero e del loro sentire, anche a costo di isolarsi dal resto del mondo.
Il graduale rifiuto della tonalità da parte dei musicisti del primo Novecento si inquadra in questo contesto culturale. La tradizione tonale si è ridotta a far parte delle attese e dei desideri d’ascolto di un ceto di frequentatori delle sale musicali, che appartengono sicuramente alla borghesia, ma che hanno valori e gusti ben lontani da quelli di coloro che l’arte la vivono con passione esistenziale e con una vocazione che a volte arriva ai confini del sacrificio personale.
Il declino della tonalità
Il declino della tonalità è comune un po’ a tutte le tendenze musicali d’avanguardia agli inizi del secolo, sia a quelle che convergono verso Parigi (Debussy, Ravel, Stravinskij) sia a quelle che convergono verso Vienna (Schönberg, Berg, Webern), sia a quelle che sono attive in Europa orientale e in Russia (Scriabin, Bartók). A seconda degli orientamenti locali, l’allontanamento dalla tonalità colpisce più l’uno o più l’altro dei diversi aspetti sui quali si regge il linguaggio della tradizione. Ma la tendenza musicale che più radicalmente e sistematicamente prende di mira l’insieme globale di tali aspetti è quella della scuola di Vienna. Solo nel suo caso si comincia a parlare di atonalità.
Le opere composte dai tre viennesi prima della guerra mondiale si inscrivono nel clima culturale dell’espressionismo, allora dominante nei paesi di lingua tedesca, e costituiscono un blocco particolarmente coerente e dirompente, in antagonismo con la tradizione dal punto di vista sia tecnico che espressivo. Fra le opere più note di Arnold Schönberg (1874-1951) si possono citare Il libro dei giardini pensili (Das Buch der hängenden Gärten), una raccolta di liriche per voce e pianoforte, di un estetismo solipsistico esasperato, sollecitato dalla poesia di Stefan George. Attesa (Erwartung) è invece un monologo per voce e orchestra in cui la protagonista si addentra in un bosco alla ricerca del proprio amante, e al termine del percorso ne trova il cadavere; e naturalmente non è improprio interpretare in termini freudiani questo viaggio nei meandri di un’angosciosa interiorità. Ma la più memorabile composizione schönberghiana di quegli anni (siamo nel 1912) è Pierrot Lunaire: 21 piccoli racconti declamati da una voce stravolta e grottesca che non canta, ma intona una Sprechstimme (una sorta di canto ritmato con inflessioni parlate); la accompagna un gruppo strumentale che si ispira a quella poetica del “grido primordiale” che gli artisti dell’espressionismo hanno elaborato e a cui l’atonalità presta una capacità d’impatto tutta particolare. La cosa più paradossale, però, è che quei gridi sono costruiti con matematica precisione, cioè con l’adozione di procedimenti antichi come quello del canone a più voci, spesso arricchito da giochi “enigmatici” (l’inversione della direzione degli intervalli, la retrogradazione dall’ultima nota alla prima…). Quando dieci anni dopo Schönberg inventerà la dodecafonia, utilizzerà sistematicamente tecniche di questo tipo.
Alban Berg (1885-1935) e Anton Webern (1883-1945), che di Schönberg sono discepoli, e sono di circa dieci anni più giovani, sviluppano in proprio alcune premesse del maestro. Ad esempio Berg, nella sua quarta opera datata 1912 (5 Orchesterlieder – 5 canti con orchestra – su testi dalle “cartoline postali” di Peter Altenberg: singolari e penetranti immagini che il poeta invia per posta ad amici e nemici) si dimostra particolarmente sensibile al gioco delle salienze timbriche (o “melodie di timbri”, come le chiama Schönberg). L’eliminazione della tonalità (o “sospensione tonale”) induce i compositori a utilizzare le mescolanze di colori strumentali e le loro successioni come strumento espressivo primario, sostituendole in un certo senso agli accordi e alle successioni accordali del passato. Webern invece, nelle Sei bagatelle per quartetto d’archi, op. 9, datate 1913, individua precocemente quella che sarà la sua cifra stilistica successiva: l’idea di concentrare in brani aforistici, asceticamente privi di allettamenti retorici, un pensiero musicale straordinariamente denso e ricco. Il suo maestro commenta le Bagatelle in questo modo: “Ogni sguardo può prolungarsi in una poesia, ogni sospiro in un romanzo. Ma mettere un romanzo in un unico gesto, una felicità in un solo respiro, è una forma di concentrazione che si trova solo dove è stata rifiutata la voglia di esprimersi con inutili e noiosi lamenti”.