VALLAURI, Tommaso
– Nacque a Chiusa di Cuneo il 23 gennaio 1805 da Pietro Francesco e da Maria Cristina Voena; ebbe come secondo nome Francesco e come terzo Napoleone, perché il padre era cancelliere e ricevitore presso l’amministrazione francese, che in quegli anni controllava il Piemonte.
Iniziò lo studio del latino in casa, grazie al padre; all’età di dieci anni si trasferì a Mondovì per studiare dapprima al collegio e poi al seminario. Nel novembre del 1820 si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Torino, ma vinse il concorso per un posto gratuito presso il Collegio delle Province per studiare lettere, seguendo una più genuina vocazione. Studiò eloquenza greca e latina sotto Carlo Boucheron, che divenne suo maestro, ed eloquenza italiana sotto Giuseppe Biamonti; furono suoi condiscepoli Luigi Cibrario e Vincenzo Bigliani. Nell’autunno del 1821 scrisse un poemetto in latino, De moribus aetatis nostrae, rimasto inedito e poi distrutto. Nel 1823 rivide le bozze di stampa di tutto il teatro plautino, che Boucheron andava editando per conto dell’editore Giuseppe Pomba di Torino. Nello stesso anno divenne professore di umanità e retorica (a soli diciotto anni) e fu assegnato al collegio di Alba, prima di una serie di istituzioni superiori in cui insegnò per un decennio (seguirono Mondovì, Fossano, Vercelli, Alessandria e finalmente Torino). Nel 1833 sostenne l’esame per diventare dottore aggregato al Collegio di scienze e lettere dell’Università di Torino e nel 1838, dopo la morte di Boucheron, fu supplente di eloquenza latina e italiana.
L’ammirazione per il maestro condizionò la produzione iniziale dell’allievo, che tradusse dal latino all’italiano la Vita di Tommaso Valperga Caluso (1836) di Boucheron, ne redasse la biografia (De Carolo Boucherono, Taurini 1838) e ne raccolse le epigrafi latine, dotandole di note stilistiche ed erudite (Caroli Boucheroni inscriptiones perpetuis animadversionibus auxit Thomas Vallaurius, Augustae Taurinorum 1850). Risalgono al decennio di insegnamento superiore anche tre progetti di ricerca assai più originali, che videro la luce più tardi: la Storia della poesia in Piemonte (Torino 1841, costata sette anni di ricerche documentarie nelle biblioteche di tutta la regione e di Milano), Delle società letterarie del Piemonte libri due (Torino 1844) e la Storia delle Università degli studi in Piemonte (I-III, Torino 1845-1846; il previsto quarto volume, sul periodo napoleonico e sul ritorno dei Savoia, a detta dell’autore non fu mai pubblicato per protesta contro l’indifferenza e l’ingratitudine delle autorità accademiche). Tali scritti di natura essenzialmente storica si distinguono ancora oggi per ricchezza della documentazione, «notizie di prima mano, passione antiquaria, culto delle memorie patrie e buone capacità compositive» (Gianotti, 2000, p. 222). La vocazione storiografica di Vallauri si rafforzò quando, nel 1845, iniziò a pubblicare a fascicoli i Fasti della Real Casa di Savoia e della Monarchia (interrotti dalla guerra nel 1848).
Grazie all’intervento del conte Stefano Gallina, ministro dell’Interno di Carlo Alberto, nel 1843 Vallauri divenne professore ordinario di eloquenza latina, succedendo così sulla cattedra di Boucheron all’Università di Torino.
Il 14 febbraio 1844 si unì in matrimonio con Elisa Gibellini, figlia dell’avvocato torinese Gian Maria, da cui non ebbe figli; nei giorni del viaggio di nozze a Venezia la coppia conobbe Enrico De Tipaldo e Niccolò Tommaseo. Nel gennaio del 1849 Vallauri fu nominato membro del Consiglio universitario e della Commissione permanente del neonato ministero della Pubblica Istruzione. Gli incarichi ministeriali favorirono un progressivo interesse per l’ambito politico; nel 1857 fu eletto deputato al Parlamento subalpino nel collegio di Mondovì; venticinque anni più tardi, nel 1882, su proposta del ministro Guido Baccelli, venne nominato senatore. L’orientamento di Vallauri fu sempre determinato da un marcato conservatorismo, spesso coincidente con le posizioni dei cattolici più reazionari, tanto da risultare per decenni «punto di riferimento per quanti, nelle battaglie della scuola e della vita pubblica», aborrissero ogni mutamento rispetto alla tradizione (Gianotti, 2000, p. 221).
Sin dalla fine degli anni Quaranta, Vallauri si dedicò alla dotazione sistematica di strumenti linguistici e testuali a supporto della didattica superiore e universitaria del latino, pubblicando un manuale di storia letteraria (Historia critica litterarum Latinarum, Augustae Taurinorum 1849), la revisione del Vocabolario universale Latino-Italiano e Italiano-Latino di A. Bazzerini e B. Bellini (Torino 1850-1854), vari compendi di storia antica e moderna (Epitome historiae Grecae ed Epitome historiae patriae, Augustae Taurinorum 1856; Epitome historiae Romanae ab urbe condita ad Odoacrem, Augustae Taurinorum 1860), tutti composti in un «latino ricercato ed efficace, non privo [...] di impronte originali: Vallauri conosce bene Cicerone, ma non è scrittore ciceroniano» (Gianotti, 2000, p. 223). Tra il 1850 e il 1858 editò una collana di numerosi autori latini (repubblicani e della prima età imperiale, ma anche tardi e cristiani), corredati da note antiquarie e stilistiche; fu questo il periodo in cui Vallauri si specializzò su Plauto (quattro commedie commentate uscirono tra il 1849 e il 1854, tutte per i tipi della Stamperia reale di Torino). Contemporaneamente, tra il 1848 e il 1854, si pubblicava a Bonn l’edizione critica di tutto il teatro plautino a cura di Friedrich Ritschl, improntata al metodo critico e comparativo della filologia classica di area tedesca. Vallauri ebbe modo di visionare i codici manoscritti di Plauto conservati a Milano, Bologna, Roma, Napoli e Parigi (nel 1863, per esempio, si recò a Roma insieme alla consorte e al fratello minore Antonio, canonico della cattedrale di Mondovì, per studiare alcuni esemplari della Biblioteca apostolica Vaticana; durante il soggiorno ebbe anche un colloquio particolare con Pio IX), ma i suoi studi non trassero alcun beneficio da questo esame. In una memoria risalente al 1845 (Parerga zu Plautus und Terenz. Dissertatio I: de Plauti poetae nominibus), Ritschl aveva avanzato l’ipotesi che il vero nome di Plauto fosse Tito Maccio (sulla base dell’ispezione dell’antico manoscritto palinsesto di Milano, Biblioteca Ambrosiana, G.82 sup.), e non Marco Accio; la ricostruzione (tuttora accettata da editori e studiosi) innescò una veemente risposta di Vallauri, pronunciata in occasione dell’ingresso nell’Accademia delle scienze di Torino e poi consegnata alle stampe (Animadversiones in dissertationem Fr. Ritschelii de Plauti poetae nominibus, Augustae Taurinorum 1867). La disputa sul nome di Plauto si trasformò in contrapposizione tra i valori nazionali italiani e le pretese della nuova filologia germanica, coinvolgendo rapidamente buona parte degli antichisti, al di qua e al di là delle Alpi.
Il 1867 fu l’anno di importanti onorificenze: a Torino Vallauri fu nominato accademico delle scienze e commendatore dell’Ordine Mauriziano (di cui era già cavaliere), a Firenze accademico della Crusca e cittadino onorario di Sarsina, la terra natale di Plauto.
All’età di settantadue anni iniziò a redigere la propria biografia, che pubblicò a Torino nel 1878 (Vita di Tommaso Vallauri scritta da esso, con titolo di evidente ascendenza alfieriana; seconda ed. rivista e ampliata, Torino-Napoli 1886). Tuttavia, anche uno studioso della storia e della cultura piemontesi attento ed equilibrato come Dario Pasero (2015) osserva che «l’opera biografica del Vallauri è piena di livore, maldicenza e manipolazione della realtà» (p. 280).
In effetti, oggetto principale dell’esposizione è l’opera scientifica, storica e letteraria del suo autore, unitamente alle reazioni, positive o negative, suscitate nei lettori. La Vita deve quindi essere letta come pugnace recensione di tutte le pubblicazioni e idee dello stesso Vallauri, finalizzata soprattutto ad amplificare (anziché sopire) polemiche e discussioni di ogni sorta; al tempo stesso, essa costituisce un regesto prezioso di informazioni personali e documentarie sulla cultura classica italiana nel XIX secolo, inserite all’interno di una narrazione non sempre serena e disinteressata.
Il 27 novembre 1873 si celebrò nell’Università di Torino il giubileo professionale di Vallauri: nell’occasione egli lesse la prolusione De causis neglectae latinitatis; l’anno successivo, nella nuova prolusione De optima ratione instaurandae latinitatis, insisté sulla necessità di studiare gli autori comici e satirici latini, attirando la censura di uno storico cattolico come Pietro Balan. Nel 1876 licenziò a Torino la raccolta di Opuscula varia in sex classes digesta, che riuniva prolusioni accademiche, dissertazioni, prefazioni e altri scritti già pubblicati (come la vita di Boucheron). In seguito alla nomina a senatore, nel 1882 si trasferì a Roma, dove risiedeva per la maggior parte dell’anno. Sin dal 1871 aveva designato supplente nell’attività accademica l’allievo Vincenzo Lanfranchi, che però nel 1886 fu rimosso dall’incarico da parte della facoltà; il nuovo sostituto, Eusebio Garizio, era un altro allievo di Vallauri, ma a causa della sua vicinanza al metodo filologico non tardò a scoppiare tra i due una violenta polemica.
Vallauri morì a Torino il 2 settembre 1897 a causa di un colpo apoplettico, dopo qualche mese di malattia a seguito di una caduta, e fu tumulato nel cimitero Monumentale della città.
Grazie a un suo lascito, l’Accademia delle scienze di Torino aveva istituito sin dal 1894 un premio per le scienze fisiche e la letteratura latina (Guglielmo Marconi, Eduard Norden, Giorgio Pasquali, Carlo Cattaneo furono tra i premiati; ultimo latinista insignito del premio Vallauri fu Antonio La Penna nel 2007).
Nelle diatribe accademiche in cui fu coinvolto, Vallauri si abbandonò spesso a quella stessa virulenza che rimproverava agli avversari; inoltre, le sue risposte si basavano quasi sempre sul tentativo di dequalificare la competenza linguistica latina dell’interlocutore, più che su prove storiche o documentarie (come dimostrano le controversie con Ritschl e Garizio). Desiderando che tutte queste discussioni godessero di ampia eco, non esitò ad allontanarsi dallo stile più consono al dialogo scientifico, scegliendo il genere della novella satirica di ascendenza lucianea per trasformare gli avversari in personaggi ridicoli e grotteschi; una scelta che piacque ai lettori dell’epoca, a giudicare dalle numerose ristampe della raccolta delle quindici Novelle (Firenze 1860, fino alla settima ed., con aggiunte dell’autore, Siena 1891, ma 1892), che tuttavia non mancò di interferire con la sua carriera. Nel novembre del 1869, quando era appena stato nominato preside della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Torino, il ministro della Pubblica Istruzione Angelo Bargoni lo rimosse dall’incarico a causa delle sprezzanti allusioni a Camillo Cavour contenute nella novella L’apocoricosi (ossia la trasformazione in pallone, rifacimento dell’Apocolocintosi – trasformazione in zucca – di Lucio Anneo Seneca; se il bersaglio dell’opera antica era stato l’imperatore Claudio, il latinista piemontese condannava ancora una volta Ritschl, preconizzandogli un disonorevole destino nell’aldilà). Vallauri non diede ascolto a chi gli suggeriva di dimettersi e continuò a insegnare e scrivere.
In tutta l’opera di Vallauri converge una robusta istanza storiografica, indivisibile dalla memoria letteraria di Roma, che ne è alla base. Tale eredità, però, non vive di alcun dinamismo, giacché si presenta come modello immutabile, che sarebbe sbagliato tentare di correggere o aggiornare: di qui derivò l’opposizione al metodo critico e all’indagine filologica, identificati come perniciose tendenze di origine tedesca e contrarie allo spirito italiano. Molti allievi di Vallauri (Ettore Stampini, Luigi Valmaggi, Felice Ramorino, Giovanni Battista Gandino) si convinsero dell’imprescindibilità di discipline come la paleografia, la codicologia, la linguistica comparata e la filologia stemmatica lachmanniana; soltanto il maestro restò incrollabile nelle sue convinzioni, con un atteggiamento che ne determinò l’isolamento negli ultimi anni di vita (di là dagli omaggi formali che continuava a ricevere) e un giudizio molto severo da parte degli storici della filologia classica (in particolare, Timpanaro, 1972). Oltre all’infaticabile attività di insegnante, di studioso e di prosatore che praticava la lingua antica con intento umanistico dalla valenza perenne, di Vallauri è necessario sottolineare l’obiettivo fondamentale insito nella comunicazione attraverso il latino, ossia la formazione del cittadino: «non a ricostruzioni storico-letterarie punta l’insegnamento di Vallauri, ma alla lettura integrale dei testi latini da cui distillare a esclusivo beneficio delle classi alte, valori culturali intesi come strumento educativo e traguardo di eleganza formale, salute morale, intelligenza pratica» (Gianotti, 2000, p. 225).
Fonti e Bibl.: Necrologio accademico: L. Valmaggi, in Annuario della R. Università di Torino, 1897-1898, pp. 151-158. Lo stesso Vallauri aveva riunito e pubblicato tutti i documenti con cui si potesse ricostruire la sua biografia (Vita), la sua corrispondenza (Lettere di illustri scrittori a T. V., Torino 1880), la produzione scientifica e letteraria (Bibliografia, in entrambe le edizioni della Vita). Sempre nella Vita aveva recensito (anche in modo molto critico) i profili biografici che lo riguardavano, tra i quali vanno ricordati almeno: A. De Gubernatis, Ricordi biografici, Firenze 1873, pp. 507-510; E. Camerini, Nuovi profili letterari, II (parte italiana), Milano 1875, pp. 134-142; G. Dalmazzo, Biografia di T. V., Firenze 1875; V. Bersezio, Profilo letterario di T. V., in Gazzetta letteraria, I (1877), pp. 76 s. (poi in Rivista minima, 23 settembre 1877, pp. 273-277). Studi, documenti e giudizi più recenti si leggono in: S. Prete, Gli inizi della critica plautina: F. Ritschl, in Convivium, XVI (1947), 5-6, pp. 759-769; S. Timpanaro, Il primo cinquantennio della Rivista di filologia e d’istruzione classica, in Rivista di filologia e d’istruzione classica, C (1972), 4, pp. 399-402, 424; G.F. Gianotti, Per una storia delle storie della letteratura latina. II Parte, in Aufidus, 1989, vol. 7, pp. 75-103; D. Pasero, Eusebio Garizio, un protagonista della polemica tra retorica e filologia nella cultura classica italiana di fine Ottocento, in Bollettino storico vercellese, 1991, n. 2, pp. 53-63; Id., Gli studi classici nel Piemonte risorgimentale nella corrispondenza tra il cuneese T. V. e il p. Giuseppe Giacoletti d.S.P., in Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo, CVII (1992), pp. 169-177; G. Polara, A proposito di un foglietto autografo di T. V., in Mousa. Scritti in onore di Giuseppe Morelli, Bologna 1997, pp. 469-475; G.P. Romagnani, T. V. storico, in “Fortemente moderati”. Intellettuali subalpini tra Sette e Ottocento, Alessandria 1999, pp. 203-217; T. V. nella società e nella cultura dell’Ottocento, a cura di G. Griseri, in Bollettino della Società per gli studi storici, archeologici ed artistici della Provincia di Cuneo, CXX (1999), monografico; G.F. Gianotti, Gli studi classici, in Storia della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Torino, a cura di I. Lana, Firenze 2000, pp. 221-227, 232-234 (poi in Id., Gli studi di latino e greco nel Piemonte dell’Ottocento, in Piemonte antico. L’antichità classica, le élites, la società fra Ottocento e Novecento, a cura di A. Balbo - S. Romani, Alessandria 2014, pp. 24-30); D. Pasero, Vita e opinioni di T. V., novelliere, in L’Escalina, IV (2015), 2, pp. 277-296.