NATALE, Tommaso
– Nacque a Palermo il 3 giugno 1733, primogenito di Domenico, marchese di Monterosato, discendente di una ricca famiglia di mercanti di Cosenza, e di Beatrice Rao, nobile messinese.
La sua educazione fu affidata, fin dalla giovane età, allo zio paterno Giovanni, poeta e grecista. Ebbe come maestri anche Nicolò Marino, per la grammatica e la retorica, e Saverio Romano da cui apprese il greco antico. Ma l’incontro che più di ogni altro influenzò la sua formazione, soprattutto nell’ambito filosofico, fu quello con Nicolò Cento, esponente dell’élite culturale che a partire dalla metà del Settecento diffuse in tutta la Sicilia le dottrine di Leibniz e Wolff.
A 19 anni lesse nell’Accademia del Buongusto, della quale era socio, l’Orazione funebre in morte del sacerdote Giuseppe Natoli (Palermo 1752), ricordandone l’animo caritatevole e la preziosa opera di assistenza prestata durante l’epidemia di peste che nel 1743 colpì Messina. Nel 1756 pubblicò (formalmente a Firenze presso la stamperia del Matini, in realtà a Palermo col tipografo Francesco Valenza, secondo Ziino, 1931, p. 59) il primo tomo de La filosofia leibniziana, esposta in versi toscani, dedicato con parole lusinghiere ai protestanti Accademici di Lipsia e accolta con scalpore dai gesuiti, che inclini alla scolastica osteggiavano il diffondersi in Sicilia delle nuove correnti filosofiche, specialmente quelle riconducibili a pensatori protestanti come Leibniz. Il tribunale del S. Uffizio, con editto del 27 febbraio 1758, condannò l’opera, vietandone la diffusione e la lettura, e Natale fu obbligato a fare pubblica professione di fede ortodossa. Tuttavia essa ebbe notevole successo, soprattutto dopo l’ abolizione del tribunale (1782).
Secondo il progetto dell’autore, la trattazione sul pensiero leibniziano avrebbe dovuto constare di cinque libri: il primo dedicato ai princìpi, con particolare riferimento ai due capisaldi del pensatore tedesco, cioè il principio di contraddizione e quello di ragion sufficiente; il secondo incentrato su Dio, considerato sia come entità autonoma sia come autore della natura e della grazia; il terzo sugli spiriti, le anime e le monadi; il quarto sulla materia, le sue affezioni e l’unione tra spirito e materia; infine il quinto e ultimo sui doveri delle anime, rispetto sia a Dio sia alla società. Benché solo il primo libro abbia visto la luce a causa della condanna ecclesiastica, esso è già sufficiente per cogliere l’influenza esercitata sull’autore dagli insegnamenti di Cento così come il rigore e la semplicità dello stile espositivo, perfettamente funzionale al fine dell’opera che è quello di far conoscere e instillare nei lettori il gusto per il pensiero del filosofo tedesco. Pertanto Natale espone le teorie di Leibniz senza apportare alcun contributo personale o giudizio originale.
Nel 1772 pubblicò a Palermo, in forma di lettera al giurista e amico Gaetano Sarri, le Riflessioni politiche intorno all’efficacia e necessità delle pene (edizioni recenti a cura di G. Giarrizzo, in Illuministi italiani, 1965, pp. 988-1017, e con prefazione di L. Buscemi e un saggio di G. Tranchina, Palermo 2011) che gli assicurarono rinomanza ben oltre i confini siciliani e lo collocarono nel solco dei grandi pensatori illuministi auspicanti un profondo rinnovamento nell’ambito del sistema di diritto penale.
In particolare notevoli sono i punti di contatto tra il pensiero di Natale e quello del milanese Cesare Beccaria: entrambi, infatti, postulando un sistema sanzionatorio dal volto più umano e con pene più miti, muovevano da una visione utilitaristica del diritto penale: la pena doveva essere diretta alla difesa della società attraverso la prevenzione e la repressione dei comportamenti criminosi forieri di nocumento per la collettività. In tal senso, scopo precipuo della pena non era tanto attivare una reazione diretta contro il reo, quanto fornire un valido strumento per evitare che il malfattore reiterasse i comportamenti criminosi e dissuadere, con il timore della sanzione, chi avesse voluto imitarlo. Furono queste comunanze anche tematiche a spingere Natale a rivendicare orgogliosamente l’originalità delle proprie teorie, sottolineando fin dalle prime pagine come avesse scritto le sue Riflessioni politiche, durante un soggiorno napoletano, già nel 1759, ovvero cinque anni prima rispetto all’uscita del più celebrato Dei delitti e delle pene di Beccaria.
Come punto di partenza del suo ragionamento giuridico, Natale si propone di spiegare perché, nonostante la severità della legislazione penale e le frequenti esecuzioni, il numero dei delitti non diminuisca. La spiegazione sta nell’assunto che l’efficacia delle pene non dipende dalla loro severità, né dal loro uso, per quanto frequente, bensì nel saperle «adattare e dispensare» (p. 3). Premesso questo principio, che ispira tutta l’opera, l’autore comincia a esporre le sue riflessioni e si sofferma prima sullo scopo della pena, poi sul come bisogna punire, e soprattutto sugli elementi di cui il legislatore dovrà tener conto nel dettare le leggi penali. In particolare, bisogna aver riguardo non solo all’indole dei sudditi, ma anche al diverso ceto delle persone, in base al quale diversamente si opererà la norma penale. Per ciò che attiene all’esecuzione delle stesse norme penali si deve innanzitutto guardare alla natura del delitto, a cui le pene devono essere necessariamente proporzionate. Come Beccaria, anche Natale ripudia la tortura come mezzo di prova, mentre per ciò che riguarda la pena di morte, pur dichiarandosi in linea di principio contrario, non ne esclude totalmente l’applicazione, limitandola comunque a pochi casi, in presenza di delitti particolarmente gravi come per esempio la ribellione. Altro elemento centrale nella trattazione è l’educazione dei sudditi, di cui lo Stato deve farsi carico alla stessa stregua della repressione penale, poiché mentre quest’ultima mira a punire il delitto, grazie all’educazione lo si può prevenire agendo sulla sua causa determinante. Più volte, infatti, l’autore ribadisce l’interesse della comunità per la natura e gli scopi dell’educazione, auspicando tra l’altro un’istruzione pubblica e laica. Tematica quest’ultima che accomunò Natale ai principali illuministi italiani, quali il napoletano Antonio Genovesi, ed europei come Montesquieu.
Nello stesso volume contenente le Riflessionipolitiche, Natale pubblicò una breve lettera, sempre indirizzata a Gaetano Sarri, Sul sistema di Cesare Beccaria intorno alla pena capitale e degli opposti sentimenti del giureconsulto De Linguet, nella quale, pur non aderendo completamente alle teorie del pensatore milanese, lo difese e appoggiò in molti punti, in contrasto con le idee del giurista francese Simon-Nicolas-Henri Linguet, il quale propugnava un vastissimo utilizzo della pena di morte da comminare per un gran numero di delitti. Ancora nel medesimo volume apparvero le Riflessioni preliminari ai Discorsi intorno alla prima deca di Tito Livio (versione parziale in Illuministi italiani, 1965, pp. 979-987) in cui, ripercorrendo il pensiero di Machiavelli, Natale mise in luce la propria concezione della storia, vista nella sua funzione benefica soprattutto in rapporto alla politica: infatti, sulla scia del fiorentino, sostenne che gli uomini, con le loro passioni e desideri, rimangono sempre gli stessi, sicché a cambiare sono gli accadimenti esterni ma non la natura umana e dunque, sulla scorta di ciò, potrebbe ricavarsi dalla storia una perfetta ed esatta politica fondata sull’esperienza.
Nel 1773 pubblicò a Palermo le Osservazioni intorno al paragrafo XI del Diritto della guerra e della pace del signor Grozio, opera in cui confutò le teorie sulla coazione espresse da Grozio e da Hobbes. A suo avviso, infatti, l’esercizio della coazione era necessario a completare l’idea di diritto (elemento questo negato da Grozio) e, d’altra parte, questa coazione doveva pure avere un valore immanente (valore negato da Hobbes). Nello stesso anno diede alle stampe, sempre a Palermo, La Illiade di Omero, tradotta in verso sciolto italiano, una traduzione in versi di quattro libri dell’Iliade che, nella successiva edizione del 1807, fu estesa a ulteriori due libri del poema.
All’età di 51 anni sposò Rosalia, figlia dell’illustre giureconsulto Giuseppe Gugino, dalla quale ebbe nove figli (quattro maschi e cinque femmine).
Tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo seguente, l’attività letteraria fu accantonata per gli impegni derivanti dalle numerose cariche pubbliche ricoperte. Fu, infatti, consigliere di Stato, entro il 1789 maestro razionale nel tribunale del Real Patrimonio (carica che conservò fino alla morte), deputato del Regno di Sicilia (per tre volte), consigliere del supremo magistrato del commercio e deputato degli studi del Regno e dell’Università di Palermo, carica quest’ultima che ricoprì pur non avendo mai insegnato nell’ateneo palermitano. Inoltre, nel 1790, fu membro della giunta incaricata di sottoporre a censo gli immensi possedimenti terrieri facenti capo alla manomorta demaniale ed ecclesiastica: tale frazionamento della proprietà avrebbe dovuto favorire il rifiorire dell’agricoltura di tipo intensivo nell’isola, oltre che agevolare la libertà nei traffici commerciali. Nell’ambito di quest’ultima attività, stese una Rappresentanza a S.M. in cui si sostiene la validità della censuazione delle terre dette della Gazena di Acirreale (Palermo 1793). Profondamente ostile nei confronti della Costituzione di Palermo del 1812, in una Memoria espresse tutte le perplessità nei confronti del nuovo assetto istituzionale derivato dalla carta costituzionale, con specifico riguardo all’istituzione della Camera dei Pari, della quale comunque chiese al sovrano di far parte, indirizzandogli a tal fine, nel 1812, due suppliche (alcuni tratti della memoria e delle suppliche sono contenuti in Genuardi, 1921, pp. 361-368).
Morì a Palermo il 28 settembre 1819, mentre era intento a una nuova edizione delle sue Riflessioni politiche, corredata da un’appendice rimasta incompleta. Le sue ossa andarono disperse.
Fonti e Bibl.: V. Genuardi, Elogio storico di T. N. marchese di Monterosato, Palermo 1825; D. Scinà, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, II, Palermo 1825, pp. 86-109; G. Bozzo, Le lodi dei più illustri siciliani trapassati ne’ primi 45 anni del secolo XIX, II, Palermo 1852, p. 53-97; C. Cantù, Beccaria e il diritto penale, Firenze 1852, pp. 23-30; V. Di Giovanni, Il Miceli, ovvero dell’Ente Uno e reale, Palermo 1864, pp. 44, 62s.; Id., Della filosofia moderna in Sicilia, Palermo 1868, pp. 73-92; Id., Storia della filosofia in Sicilia dai tempi antichi al secolo XIX, IV, Palermo 1873, pp. 323-344; V. La Mantia, Storia della Legislazione civile e criminale in Sicilia, II, Palermo 1874, p. 170; G.M. Mira, Bibliografia siciliana..., II, Palermo 1881, p. 123; L. Sampolo, La R. Accademia degli studi di Palermo, Palermo 1888, pp. 59, 103; G. Cosentino, Proposte di ristabilire la tortura nei giudizi criminali dopo le riforme del 1812, Palermo 1889, p. 25; A. Conte, T. N. e le sue riflessioni politiche, Palermo 1891; T. Natale, Della efficacia e necessità delle pene ed altri scritti ... con uno studio critico di F. Guardione ed introduzione di G.B. Impallomeni, Palermo 1895; C. Fara, Notizie su T.N. nel carteggio di Giovanni Lami, in Archivio storico siciliano, XL (1915), pp. 169-180; G. Majorana, T. N. e i suoi tempi, Catania 1918; F. Genuardi, T. N. e la costituzione del 1812, inArchivio storico siciliano, XLIII (1921), pp. 61-68; G. Maggiore, Principi di diritto penale, I, Bologna 1931, p. 46; O. Ziino, T. N. e il pensiero pubblicistico in Sicilia nel secolo XVIII, in Annali del Seminario giuridico di Palermo, XV (1931), pp. 3-111; A. Castro, La dottrina del diritto naturale in Sicilia negli anni dell’unità nazionale, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, LIX (1962), pp. 771-772; Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo - G. Torcellani - F. Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 965-1017.