MINARDI, Tommaso
– Nacque a Faenza il 4 dic. 1787 da Carlo, tintore chimico, e Rosa Stanghellini. Ebbe una prima formazione presso la scuola di G. Zauli, dove entrò intorno al 1800, ma già nel 1803 era a Roma, grazie alla pensione della Compagnia di S. Gregorio di cui godette fino al 1808, e poi al 1810. A Roma F. Giani, in partenza per Faenza, gli cedette la stanza tenuta in affitto presso il pittore M. Köck mettendogli a disposizione il materiale del proprio studio e, secondo le istanze della Compagnia faentina, lo introdusse nell’atelier di V. Camuccini, già incontrastato protagonista della pittura romana. L’apprendistato presso Camuccini fu interrotto quasi subito dallo stesso M. che non ne condivideva le modalità di insegnamento. Egli preferì muoversi nell’ambito di una pratica disegnativa comune con altri giovani artisti in una sorta di accademia privata, esperienza già conclusa nel 1804. La ricerca principale fu tuttavia per il M., come d’altro canto per altri suoi giovani colleghi, quella dello studio del nudo che poté compiere, dal 1812, presso l’Accademia d’Italia in palazzo Venezia. Affidata alla direzione di G. Tambroni, riuniva i borsisti delle tre accademie di Milano, Venezia e Bologna, presso la quale il M. nel 1810 aveva vinto il pensionato romano della durata di un triennio. Qui incontrò A. Canova, sotto la cui supervisione studiavano gli allievi borsisti, il M. compreso.
Durante questi primi anni romani il M. realizzò alcuni studi, tra cui i saggi di profitto destinati all’Accademia bolognese e le prove che si era impegnato a inviare annualmente alla Compagnia di S. Gregorio per lo più conservate presso la Pinacoteca comunale di Faenza: e cioè i primi dipinti a olio con S. Giovanni Battista battezza il popolo, copia da N. Poussin (1804); l’Autoritratto da giovane (1805); il Filosofo (1806), caravaggesco come pure la Cena in Emmaus (1807). Del 1807 è ancora Socrate che ammaestra Alcibiade, il grande cartone (mm 1245×1730) dove compaiono i ritratti propri, del giovane amico e collega M. Sangiorgi e di Zauli, e che evidenzia un tema ripetuto nella produzione del M., quello del rapporto tra maestro e allievo. Si ritrova, tra l’altro (Disegni di T. M., I, pp. 137 s.) in un disegno caratterizzato da un evidente michelangiolismo della Galleria nazionale di arte moderna a Roma (d’ora in avanti GNAM), uno dei fogli a lunetta parte di un album detto delle Sacre Famiglie composto dallo stesso M. in età avanzata con esemplari giovanili.
A questo periodo risalgono anche alcuni taccuini conservati nella Biblioteca comunale di Forlì. Uno in particolare testimonia del viaggio del M. a Venezia del 1810 (T. M. Disegni taccuini lettere …, pp. 47 s., n. 93), dove, come ricorda egli stesso, «mi accorsi della sconcertata, strana, maniera di compor storie di quella scuola e invece quanto giusto retto e semplice e di appropriata espressione fosse lo stile dei tre e quattrocentisti già da me ammirato» (p. 150). Il soggiorno veneziano era stato preceduto da altri a Milano, Firenze e Ravenna (1808), dove il conte Crispino Rasponi lo incaricò di eseguire per il soffitto di un suo gabinetto di dipinti un Genio delle belle arti all’altare di Artemide Efesia dea della Natura, mai realizzato. Il progetto fu comunque portato avanti: se ne conserva il disegno (1808; GNAM), che reca un’iscrizione autografa nella quale furono indicati dal M. il nome del committente (Rasponi) e il luogo di destinazione dell’opera (il palazzo ravennate). L’idea fu ripresa poi nel disegno di poco più tardo con il Genio delle belle arti incorona l’erma di Canova (1812 circa, Roma, coll. privata: Maestà di Roma …, p. 112; Torino, coll. privata: Grandesso, pp. 321 s.).
In queste composizioni così articolate il M. mostra di saper utilizzare un complesso repertorio iconografico che affonda le proprie radici in una lunga tradizione figurativa, ma sa anche confrontarsi con i suoi contemporanei. Il modello più prossimo si deve infatti individuare nella composizione dedicata a Raffaello di P. Pelagi (1802; Bologna, Biblioteca dell’Archiginnasio), che ambienta la scena allegorica, come poi il M., all’interno di un tempio circolare con soffitto a cassettoni: evidente richiamo al Pantheon, luogo di massima celebrazione della gloria artistica in quanto vi riposano le spoglie di Raffaello. Negli esemplari con Canova – realizzati in occasione di una festa a sorpresa in casa di Clotilde Tambroni dedicata allo scultore (Grandesso, p. 322) – il Genio delle belle arti incorona il busto di Canova con il serto della Scultura mentre la Storia scrive il suo nome nel gran libro degli immortali; in basso, il Tempo è vinto e incatenato, con la falce spezzata.
La famiglia Rasponi sarebbe stata ancora committente del M. nel 1823: in quell’anno, per le nozze con la principessa Luisa Murat celebrate nel 1825, il conte Giulio gli chiese una tela per il soffitto decorato da P. Piani nel salotto del proprio palazzo ravennate: solo J.-B. Wicar e F. Nenci, coinvolti nell’impresa, consegnarono in tempo le proprie tele, oggi ancora in situ per il cabinet di Luisa, mentre il M. e F. Agricola realizzarono le loro opere più tardi. L’Ettore rimprovera Paride della sua viltà del M. giunse a Ravenna solo nel 1836, tra l’entusiasmo e l’ammirazione generali. Alla medesima impresa si riferiscono due disegni (Faenza, Pinacoteca comunale; Venezia, Fondazione Giorgio Cini) destinati ai plasticatori faentini Ballanti Graziani, i quali realizzarono, traducendo fedelmente l’idea minardiana, due bassorilievi in stucco con Paride vinto da Menelao e Le Troiane piangono la morte di Ettore che sormontano le porte di ingresso del cabinet (Faenza negli anni di T. M., pp. 16-27).
Intanto nel 1810, quando il M. risulta seguire i corsi dell’Accademia di S. Luca, giungeva da Milano e dall’incisore G. Longhi, che era stato chiamato a valutare i saggi dello stesso M. all’Accademia bolognese (Notizie biografiche di Giuseppe Longhi), e grazie all’intercessione del comune conoscente F. Rosaspina, la commissione di realizzare un disegno del Giudizio universale di Michelangelo, destinato a essere tradotto in incisione. Il grande foglio (mm 912×833), eseguito su carta a matita e carboncino, si conserva ora alla Biblioteca apostolica Vaticana; nonostante l’impegno a completarlo per il 1813, fu consegnato solo nell’ottobre del 1826, e Longhi, che morì nel 1831, non ebbe modo di completare l’intaglio del rame. Dalla corrispondenza del M. si ha notizia del totale coinvolgimento del M. in questa impresa, che richiedeva, tra l’altro, «ponti grandissimi», con la realizzazione di numerosi studi (T. M. Disegni taccuini lettere …, p. 106, n. XLV, lettera a F. Rosaspina del 5 ag. 1812): coinvolgimento assiduo al punto, come dice egli stesso, di dover tralasciare importanti commissioni. Tra queste, la decorazione del casino Massimo, che il marchese Carlo, in ragione della rinuncia del M. sul finire del 1816, affidò a F. Overbeck e ai nazareni. Ciò non impedì al M. tuttavia di onorare l’impegno per il palazzo del Quirinale, dove, nell’ambito dell’ampio progetto affidato a R. Stern, tra il 1811 e il 1813 si andava decorando la seconda sala dell’appartamento dell’imperatrice Maria Luisa con quattro grandi tele con scene di battaglie dell’antichità (affidate a L. Agricola, J. Madrazo, G. Conca e J.-A.-D. Ingres, si conserva solo il Romolo con le spoglie di Acrone di quest’ultimo: Parigi, École des beaux-arts). Il M. si trovava sui ponteggi nel 1812 a eseguire le figure del fregio che corre in alto sulle pareti, secondo quanto previsto dal contratto con l’amministrazione francese (Disegni di T. M., I, p. XVIII).
Sono collocabili in questi anni alcune opere che risentono dell’impresa portata avanti a stretto contatto con l’opera sistina; e in particolare, La distruzione del tempio di Gerusalemme (1813: Faenza, Pinacoteca comunale) che relega sullo sfondo i momenti concitati dell’episodio, offrendo al primo piano le monumentali rovine e i massicci corpi delle figure, espliciti richiami se non proprio citazioni delle figure michelangiolesche così ben note. Pure del 1813 è l’Autoritratto nella soffitta (olio su tela; Firenze, Galleria degli Uffizi), mentre all’anno successivo risale l’Omero in casa di Glauco (GNAM), tema ben frequentato dal M. sulla scia dell’interesse dell’ambiente culturale romano per i temi omerici, generato dalle recenti edizioni dell’Iliade e dell’Odissea pubblicate a Roma nel 1793 con le incisioni di John Flaxman. L’ambientazione è intimistica, anche se nel dipinto il M. si muove tra caravaggismo, nell’impianto luministico, e influenza davidiana e camucciniana, nella semplificazione dell’impaginazione.
Al 1812 si riferiscono invece il soggiorno senese e quello bolognese, durante i quali ritrasse il pergamo di Nicola Pisano e l’arca di S. Domenico su richiesta del conte ferrarese L. Cicognara, che andava incaricando artisti ed eruditi per fornire disegni e notizie in vista della pubblicazione della Storia della scultura, realizzata con l’esplicito intento di rendere omaggio a Canova, visto quale vertice e sintesi del risveglio e del rinnovamento dell’arte dai tempi della Grecia classica (Disegni di T. M., I, pp. 75 s.).
Risale al 1814 l’incarico per la stamperia di L. Fabri di realizzare un disegno (Forlì, Biblioteca comunale; cfr. anche Grandesso) con l’evento storico dell’anno, il ritorno di Pio VII dalla prigionia francese, avvenuto il 14 maggio. Al centro della composizione il M. inserisce il proprio autoritratto in veste di mazziere, partecipe dell’ingresso trionfale del pontefice in piazza del Popolo, nella quale per l’occasione, come testimonia il disegno del M., G. Valadier aveva allestito due colonnati affrontati. Il foglio, di discrete dimensioni (mm 445×680), reca i nomi dei partecipanti all’impresa: il M., l’amico C. Baldeschi e l’incisore G.B. Romero che ne trasse l’acquatinta.
Sono successive le commissioni di un disegno con Cristo e la vedova di Naim (Perugia, Accademia di belle arti) per tradurre in incisione il dipinto di Wicar, considerato già all’epoca un capolavoro, ammirato nel suo studio romano dove fu terminato nel 1816 (Lille, Musée des beaux-arts); e di una tela, incompiuta, con I filosofi della Divina Commedia (1815; Faenza, Pinacoteca comunale) da parte del conte milanese Cesare di Castelbarco.
Il soggetto – replicato in un grande cartone, perduto, destinato alla trasposizione in pittura, dato dal M. in omaggio al granduca russo Alessandro, poi zar Alessandro II, nel 1839, in occasione della visita al proprio studio romano – deriva dalla riscoperta che si andava facendo di Dante e della sua opera, consacrata con le pitture del casino Massimo (1819), e che condusse il M. a frequentare più volte nella sua produzione successiva soggetti danteschi (l’acquerello con Dante Alighieri nello studio di Oderisi da Gubbio della Pinacoteca di Faenza, del 1840; il Conte Ugolino del 1843, della Biblioteca comunale di Forlì; l’Allegoria della Chiesa cattolica, 1850 circa, della Pinacoteca faentina, in cui il M., all’interno di un rigoroso schema disegnativo di chiara ascendenza raffaellesca, rielabora palesemente motivi desunti dal Paradiso dantesco). Il conte di Castelbarco sarebbe stato il colto interlocutore del M. su Leonardo e la scuola lombarda: cfr. Lettera di sua eccellenza il conte Cesare di Castelbarco in osservazione alla dissertazione del cavaliere prof. Tommaso Minardi (3 febbr. 1839) e la Risposta del M. (1° marzo 1839) pubblicate negli Scritti del prof. T. M. sulle qualità essenziali della pittura italiana, a cura di E. Ovidi, Roma 1864 (rispettivamente pp. 43-57, 59-97).
In questo periodo si consolida anche la conoscenza con Canova: oltre alle sedute di palazzo Venezia, il M. frequentava il suo studio e lo scultore lo teneva quale «aiuto efficacissimo adoperandolo continuamente a disegnare le sue statue» (De Sanctis, pp. 44 s.). Si devono alla stima che Canova ebbe nei suoi confronti due significativi episodi nella vita del M., entrambi del 1818: la sua elezione, il 22 luglio, ad accademico di merito dell’Accademia di S. Luca e l’incarico di dirigere l’Accademia di belle arti di Perugia. In ragione di alcuni impegni precedenti – oltre all’impresa del Giudizio sistino, nella cappella Paolina del palazzo del Quirinale fatta restaurare da Pio VII sotto la direzione di Stern, il M. eseguì S. Filippo nella serie monocroma degli apostoli (Disegni di T. M., I, p. 78) – il M. giunse in quella città solo il 16 genn. 1819 e vi rimase fino al 1821.
Per il M. furono due anni decisivi. Durante questo periodo, curò l’Accademia da un punto di vista organizzativo e amministrativo, e si fece promotore di una revisione dello statuto. Ufficializzò la scuola di nudo e ripristinò, sulla base di regole precise, l’antica tradizione di incontri serali tra accademici e studenti meritevoli (il 25 febbr. 1820 il M. tenne una lezione su Poussin: Zappia, p. 33). In merito alla salvaguardia del patrimonio artistico umbro si fece portavoce delle idee acquisite nell’ambiente romano. Il M. era giunto a Roma giovanissimo e, nel mezzo della discussione sulla tutela delle opere d’arte generata dalle recenti spoliazioni francesi, aveva conosciuto i protagonisti di tale dibattito, e Canova primo fra tutti. Dai rapporti compilati dal M. sullo stato di conservazione delle opere visitate nei numerosi sopralluoghi, si desume il suo approccio in materia di restauro. In opposizione agli interventi integrativi, sostenuti da V. Camuccini e praticati dai restauratori di sua fiducia, il M. si batté con tenacia per una posizione conservativa: consolidamento e mai ritocco con il colore. Fu il punto che tenne quando si occupò dell’affresco di Raffaello e Perugino nel monastero di S. Severo a Perugia o degli affreschi di Benozzo Gozzoli in S. Francesco a Montefalco. E lo scrisse anche nella Nota redatta nel 1819 insieme con G. Menotti, C. Cruciani e il restauratore G. Carattoli in merito al restauro dei «quadri antichi» della Pinacoteca perugina (pubblicata in Manni, p. 67). Le ragioni di tale orientamento vanno ricercate anche nel rispetto quasi sacrale per quella «prima epoca dell’arte», che, come avrebbe recitato lo stesso M. nel suo Discorso all’Accademia di S. Luca nell’ottobre del 1834, aveva saputo dare «la vera e giusta espressione delle passioni umane» (Delle qualità essenziali della pittura italiana dal suo rinascimento fino all’epoca della perfezione, Roma 1835, p. 22). Queste posizioni sono anche all’origine della sua ansia di conoscenza approfondita del territorio. I rapporti e più ancora l’Inventario dei dipinti delle province di Perugia e Assisi (Manni, p. 30), redatto su richiesta del delegato apostolico di Perugia monsignor U.P. Spinola, risalente al 28 dic. 1819, testimoniano un impegno attento e assiduo di ricerca e documentazione, esteso in modo capillare e dunque anche alle opere meno note e in località minori. Impegno che sarebbe andato al di là degli anni perugini, e a distanza, da Roma (Scarpati, pp. 5-7; Manni; Ricci, T. M. a Gubbio …): sotto la sua direzione si aprì la campagna di restauri, in realtà di consolidamento, degli affreschi assisiati di S. Francesco, affidata a Pellegrino Succi da Imola, ben noto a Roma e al M. (Manni, pp. 43 s.).
L’Umbria fu dunque molto importante per il M. che, in ragione del suo ruolo, conobbe direttamente la pittura locale, quattrocentesca soprattutto e in particolare peruginesca: un’arte mitica e spirituale, che più di ogni altra avrebbe lasciato tracce durature nella sua produzione, distaccandolo sempre di più dal modello nazareno (Ricci, T. M. a Gubbio …, p. 304). Del 1819 è la Madonna con Bambino e s. Giovannino (GNAM), rielaborazione della Belle jardinière di Raffaello, come pure datato a questo periodo è un cospicuo gruppo di disegni facenti parte di un album minardiano di circa 200 fogli (Aberystwyth, University of Wales, School of Art Gallery and Museum: Ricci, 2006, p. 90). Significativamente, poi, proprio in Umbria il M. avrebbe reso testimonianza di questa tendenza stilistica e concettuale: l’ovale con il Sacro Cuore di Gesù del 1831-33, ancora oggi nella cappella del Sacramento del duomo di Spoleto e nella splendida cornice lignea disegnata e forse intagliata da un allievo del M., G. Catena, dipinto realizzato su commissione dell’allora arcivescovo della città Giovanni Mastai Ferretti, poi Pio IX.
Alla morte di L. Agricola, titolare della cattedra di disegno presso l’Accademia di S. Luca, una petizione fu rivolta al pontefice per affidare l’incarico al M. che, in deroga allo statuto, lo ricoprì a partire dal 1822 e per alcuni decenni, fino al 1858. La fama del M. crebbe, e anche il suo ruolo, sempre più decisivo, nell’orientamento del gusto e del mercato artistico romano.
Il prestigio del M. è testimoniato dagli attestati di benemerenza di importanti istituzioni: fu socio corrispondente dell’Accademia degli Ardenti a Viterbo (1827), tra i Virtuosi al Pantheon (1831), socio dell’Accademia di belle arti (1832), inserito nella I classe degli Accademici a Firenze (1832), accademico d’Arcadia come Driante Parraside (1836), direttore degli studi all’Accademia britannica in Roma nel 1845 (in occasione della nomina recitò un Ragionamento sullo studio del nudo, di cui si conserva la minuta tra le sue carte confluite in quelle di E. Ovidi all’Archivio di Stato di Roma: Disegni di T. M., I, pp. 121-123). Fu cavaliere dell’Ordine Piano (1854) e commendatore della Corona d’Italia (1868). Fu anche tra gli ispiratori della Società degli amatori e de’ cultori delle belle arti, di cui compilò lo statuto (1830), società che tenne la prima esposizione quello stesso anno nelle sale del Campidoglio: tra gli altri, P. Tenerani presentò Il martirio di Eudoro e Cimadocea, finito nel 1828, tradotto poi dallo stesso M. in un disegno contemporaneo finalizzato all’incisione (Parigi, coll. priv.: ibid., I, pp. 256-258).
Durante questi decenni promosse una riforma dell’insegnamento in S. Luca (1825) e si fece vivace portavoce delle proprie convinzioni in materia di restauro, opponendosi all’intervento di P. Camuccini sul Giudizio michelangiolesco. Il 23 nov. 1825 con i colleghi F. Agricola, Tofanelli, B. Thorvaldsen e altri protestò infatti contro il proseguimento dei lavori avviati con la pulitura della lunetta superiore destra. Nel corso della polemica il M. avrebbe dichiarato di non aver mai approvato i saggi di pulitura per l’impossibilità di accedere agli affreschi una volta tolti i ponteggi.
Divenne soprintendente delle Gallerie (1829); nel 1838 si concluse la sistemazione della galleria Corsini, alla quale egli aveva atteso dal 1832 con la scelta dei dipinti da esporre e la supervisione dei restauri. Soprattutto a partire dal pontificato di Pio IX, e a seguito del suo incarico di ispettore delle pubbliche pitture (1858), fece parte di molte commissioni create per decidere di importanti interventi nelle chiese romane: per S. Paolo fuori le Mura, S. Maria sopra Minerva (1855), S. Lorenzo in Lucina (1857-58), S. Maria in Monticelli (1860-61), S. Lorenzo fuori le Mura (1862-69), S. Lucia del Gonfalone (1863-65), S. Nicola in Carcere (1865), S. Maria in Aquiro (1866), S. Maria in Trastevere (1870). In quest’ambito di attività si devono collocare anche le ispezioni nei territori dello Stato pontificio (Ricci, Restauri in «provincia» …), tra cui quella, testimoniata dalla relazione sottoscritta dal M. nel 1850, a Tuscania e a Viterbo (in particolare la cappella Mazzatosta e la Pietà di Sebastiano del Piombo), in cui emerge, ancora una volta, il contrasto con le posizioni di V. Camuccini.
Nell’ambito di una politica di restaurazione religiosa promossa dal neoeletto Leone XII, i gesuiti di S. Andrea al Quirinale videro nel M. l’ideale rappresentante di un’arte che meglio poteva adeguarsi a tale tendenza, e nel 1824 gli giunse la commissione di realizzare l’Apparizione della Vergine e delle ss. Agnese, Cecilia e Barbara a s. Stanislao Kostka. Consegnata alla fine dell’anno successivo, la tela fu sistemata sulla parete al di sopra della statua giacente del santo, realizzata in marmi policromi da P. Legros e posta nella stanza che Stanislao Kostka aveva occupato nel noviziato e dove era morto nel 1568. L’opera suscitò grande clamore, e se fu criticata dai classicisti, tra cui V. Camuccini, riscosse successo soprattutto presso i Tedeschi, che tuttavia non potevano condividere la scelta del M. di impiantare su un’opera «peruginesca» un colorito di fatto seicentesco, molto vicino al Domenichino, come pure seicentesco è il rapporto illusionistico tra l’apparizione nella tela e il corpo del defunto in marmo.
Dello stesso 1826 è il Transito di s. Gaetano per il conte Brancadoro di Fermo ricordato da Ovidi (p. 250; ubicazione ignota; uno studio è nella Pinacoteca comunale di Faenza, dove il M. riprende in controparte il gruppo della Vergine, sante e putti). L’opera testimonia dei rapporti intrattenuti dal M. con le Marche, e in particolare con il conte Luigi Bernetti di Fermo – nipote di Brancadoro e committente egli stesso del M. con un ritratto (GNAM); con il conte il M. fu legato da un rapporto di profonda amicizia durato fino alla sua morte nel 1852 – e con il pittore e mercante d’arte Fortunato Duranti di Montefortino, conosciuti fin dai primi anni romani. Nel Fondo Duranti della Biblioteca comunale di Fermo figurano diversi disegni del M., tra cui lo studio del maestro marchigiano in via Bocca del Leone a Roma, il ritratto proprio e quello del comune amico Baldeschi. Vi si conserva anche l’Ostracismo di Aristide (1806 circa), episodio tratto dalle Vite parallele di Plutarco che in ambito artistico romano godette a questa data di molta fortuna (Disegni di T. M., I, pp. 126-128).
Nel 1833 risulta in corso d’opera la S. Elena imperatrice per la colta principessa Elena Braniska, amica di Thorvaldsen e allieva dello stesso M. (dell’opera, oltre ad alcuni studi, si conserva il bozzetto a Faenza, Pinacoteca comunale), mentre alla fine del decennio si collocano la leonardesca Madonna del Rosario (GNAM) – commissionata da William Humble Ward, conte di Dudley, che non poté mai vederla, perché fu ultimata nel 1840, dopo la sua morte (Capitelli) – e la Principessa Guendalina sale al cielo con i suoi tre figli per Marcantonio Borghese. Il dipinto, scomparso ma citato da Ovidi (p. 281; cfr. un disegno in coll. priv.: Disegni di T. M., I, pp. 260 s.), fu concepito in forma di stele funeraria e si deve mettere in relazione con la fioritura di omaggi, per lo più letterari, determinata dalla morte della principessa, nata Talbot, cui si riconoscevano straordinarie virtù filantropiche e religiose. Degli anni Quaranta è Il distacco della Madre da Gesù, pure perduto, di cui si conserva un disegno (GNAM), misuratissimo nell’equilibrio della composizione.
Durante questo periodo il M., che non nascose mai di preferire la pratica disegnativa a quella propriamente pittorica, per la quale provava quasi un certo imbarazzo, vide crescere il proprio prestigio all’interno della Calcografia camerale, vera e propria roccaforte dell’elaborazione grafica dell’immagine del potere e insieme fucina dell’insegnamento del disegno. Qui si mettevano in atto i progetti decisi dalla Commissione artistica permanente – incisioni di traduzione – a opera dei più abili disegnatori del momento, che svolgevano anche un ruolo di guida e di insegnamento per i giovani allievi impegnati nelle imprese programmate.
Il M., che nel 1833 fu eletto membro della Commissione artistica, era già stato coinvolto in importanti imprese di traduzione: oltre al Giudizio michelangiolesco, consegnato nel 1826, si devono ricordare l’Eneide secondo la versione di A. Caro per tipi dell’editore romano Mariano Augusto De Romanis (1819-21), cui il M. aveva collaborato con il Laocoonte per uno dei frontalini inciso da P. Fontana (Maestà di Roma, p. 201); e le Georgiche tradotte da D. Strocchi (Prato, 1831), per le quali eseguì quattro disegni. Degli anni Venti sono due disegni destinati alla traduzione di opere di artisti contemporanei, cui il M. si sentì legato anche da affinità stilistica e spirituale: Il Cristo dall’opera che Thorvaldsen consegnò nel 1821 alla Vor Frue Kirke di Copenaghen (1825 circa, Copenaghen, Thorvaldsens Museum, inciso da G. Folo) e, più tardi, il già citato Martirio di Eudoro e Cimodacea da Tenerani. Data poi 1824 la richiesta di privativa del M. e di un gruppo di allievi per la pubblicazione in facsimile, mai giunta in porto, delle antichità dei Musei Vaticani e Capitolini da incidersi a contorno (Amadio). In particolare sotto la direzione di P. Mercuri, allievo del M., e a partire dal pontificato di Pio IX, il M. fu decisivo nell’ambito delle scelte della Calcografia, orientando il gusto del mercato romano. Diede avvio a un programma a lungo termine, centrato sullo studio, valorizzazione e tutela dell’opera raffaellesca e dei grandi maestri del Quattrocento. Promosse a tal fine diverse iniziative traduttive nelle quali fu impegnato, in buona sostanza, fino alla morte, coinvolgendo varie generazioni di allievi e saldando, anche in questo luogo, la poetica «purista» con la propria vocazione pedagogica: molti abili giovani si formarono sui grandi maestri del passato e collaborarono, a fianco del M., alle imprese di traduzione delle Stanze (al M. si deve l’accuratissimo disegno con la Battaglia di Ostia, dalla stanza dell’Incendio di Borgo, 1823-29 tradotto su rame da Fabri, successivo alla Giustificazione di Leone III dalla medesima stanza: entrambi Roma, Istituto nazionale per la grafica-calcografia) e delle Logge, della Farnesina e di villa Madama, degli ornati e degli affreschi della cappella Sistina, degli affreschi di Beato Angelico nella cappella Niccolina in Vaticano.
Attento conoscitore, fu punto di riferimento di expertises e valutazioni antiquarie per collezioni pubbliche e private, italiane e straniere (Scarpati, pp. 7-10), e venne coinvolto nel riordino delle più importanti collezioni nobiliari romane, nell’ambito delle quali privilegiò il recupero del Rinascimento.
Nel 1839 si data il Catalogo delle collezioni di quadri … spettanti al patrimonio del defunto marchese Alessandro Curti Lepri, stimati dal M.; mentre il 18 luglio 1840, in quanto consigliere della Commissione generale consultiva di belle arti, fu convocato presso la segreteria del Camerlengato per esaminare disegni di antichi maestri offerti in vendita dal commendatore Acqua (Disegni di T. M., I, p. 88). Sua fu anche la stima dei dipinti della collezione Colonna, che il principe Giovanni Andrea gli commissionò, insieme con Tenerani che curò la parte relativa alle sculture, nel 1848 per la creazione del fidecommesso (Fidecommesso artistico nella famiglia Colonna …, Roma 1891).
Nel 1842 A. Bianchini pubblicò nel foglio napoletano Lucifero (n. 27) un articolo sul Purismo nelle arti che comparve poi a Roma in opuscolo a se stante l’anno successivo. Lo sottoscrissero anche Overbeck, il M. e Tenerani.
Il breve scritto vide la luce in risposta alle accuse mosse ai cosiddetti puristi di «ricopiar la natura miseramente», di voler tornare «a bamboleggiare con Cimabue», di «biasimare non pure Correggio o Michelangelo, ma dalla Disputa in poi tutte le pitture di Raffaello»; e soprattutto, in un clima di patriottismo, di accogliere pedissequamente atteggiamenti giunti dalla Germania. Le idee puriste, si legge di contro nell’opuscolo, erano già diffuse almeno dagli anni Trenta, ben prima che i Tedeschi potessero giocare un ruolo significativo nella cultura italiana. I puristi credono poi in un’arte volta in ogni caso a un fine «che parli sempre all’anima»: per questo motivo non si può bandire Michelangelo o Raffaello o Correggio: in loro riconoscono sempre lo scopo di muovere i sentimenti, e di usare la bellezza esteriore come mezzo (lo scritto è riprodotto in Disegni di T. M., I, pp. 59-61; per le citazioni, p. 60).
Al culmine della sua fama il M., già membro della commissione istituita da Pio IX per la decorazione dei palazzi del Vaticano e del Quirinale, ricevette nel 1848 il prestigioso incarico di realizzare un affresco per la sala del palazzo del Quirinale, allora detta del Trono e oggi degli Ambasciatori. Il M., che interveniva in un contesto già caratterizzato dalla presenza della Natività di C. Maratti, si trovò per la prima volta a confrontarsi con una superficie vasta. Il dipinto con la Propagazione del cristianesimo fu realizzato tra il 1858 e il 1864, con l’aiuto dell’allievo L. Fontana. Il cartone, estremamente accurato in ogni particolare, fu esposto nello studio del M. e venduto nel 1866 all’Accademia di S. Luca, dove si trova ancora oggi.
Nell’estate del 1854 il M. fu colto da apoplessia. La malattia lo costrinse a trasferire il suo studio da palazzo Colonna a palazzo Doria (per la cappella del quale, nell’ambito dei lavori coordinati da A. Busiri Vici, aveva realizzato in quegli anni l’Incoronazione della Vergine), dove era anche la sua abitazione; dovette rinunciare all’insegnamento in S. Luca e rallentare moltissimo la sua produzione. Pochi, infatti, sarebbero stati gli episodi significativi da un punto di vista grafico e pittorico da qui alla morte. Tra il 1854 e il 1871 realizzò varie Madonne con Bambino e Sacre famiglie, oltre alla Mater Pueritatis per il principe Tommaso Corsini, dipinto ricordato da Ovidi (p. 90) e riprodotto da De Sanctis (tav. XIII) di cui si conserva solo il disegno (Faenza, Pinacoteca comunale): da esso emerge come il soggetto fosse stato realizzato secondo i canoni puristi e su un attento studio della pittura dei «primitivi», ciò che rende l’ambiente essenziale, e l’atmosfera sospesa e rarefatta.
Di questi anni è anche la Disfida di Barletta, dall’evidente allusione patriottica. Si tratta di un complesso di composizioni grafiche, molte delle quali (sedici) alla Pinacoteca comunale di Faenza, forse destinato a una traduzione in pittura che non avvenne mai.
La datazione di uno dei fogli al 1831 presuppone che il M. non tenne conto, se non altro in una fase iniziale, del testo di M. D’Azeglio, edito nel 1833, che rese definitivamente celebre il tema. Almeno per i primi studi, l’unica fonte possibile per il M. poté essere dunque solo il racconto di un anonimo che aveva assistito ai fatti, accaduti il 13 febbr. 1503, pubblicato a Napoli da Lazzaro Scoriggio nel 1663. Molteplici invece le fonti figurative: dalle battaglie di A. Tempesta a quelle di S. Rosa e del Borgognone (Jacques Courtois), ma anche la Battaglia di Anghiari di Leonardo. Dodici dei sedici fogli faentini furono pubblicati nel 1866 in riproduzione fotografica dall’allievo del M. G.B. Polenzani (Disegni di T. M., I, pp. 250-252; Marabotti Marabottini, 1989).
Verso il 1861 eseguì, utilizzando una composizione di tono popolare derivata genericamente da Raffaello, la Madonna con Bambino, s. Lorenzo e le anime del purgatorio per la cappella della Madonna della Misericordia al Verano, edificata nel 1859 da V. Vespignani. Della pala esistono a Faenza, nella Pinacoteca comunale e nella Galleria comunale di arte moderna, due bozzetti, uno ad acquerello e uno a olio, oltre a un disegno quadrettato e alcuni studi alla GNAM, e altri cinque studi in collezione privata (Disegni di T. M., I, pp. 282-284).
Alla prestigiosa nomina di ispettore delle pubbliche pitture e direttore dello Studio del mosaico (1858) si affiancarono altri riconoscimenti: nel 1862 fu membro della commissione governativa per l’Esposizione di Londra e nel 1866 per quella di Dublino. Nel 1870 fece parte del comitato per l’Esposizione per il Culto cattolico, con la quale Roma si presentava ai nuovi regnanti: nella sede della mostra presso le terme di Diocleziano, fu reso tributo al M. esponendo in quel luogo michelangiolesco il grande disegno con il Giudizio, la fatica di una vita riveduta per l’occasione, insieme con altre sue opere (Rossi Scotti, pp. 47 s.).
Il M. morì a Roma il 12 genn. 1871.
Fonti e Bibl.: Notizie biografiche di Giuseppe Longhi, a cura di F. Longhena, Milano 1831, pp. 27 s., n. 2 (il testo si basa su un manoscritto dello stesso Longhi); G.B. Rossi Scotti, Il prof. T. M. e l’Accademia di belle arti di Perugia. Ricordi storici, Perugia 1871; G. De Sanctis, T. M. e il suo tempo, Roma 1900; E. Ovidi, T. M. e la sua scuola, Roma 1902; A.M. Corbo, T. M. e la scuola di S. Luca, in Commentari, XX (1969), 1, pp. 131-141; L. Capon Piperno, Disegni giovanili di M., in Quaderni sul neoclassico, 1978, n. 4, pp. 173-194; T. M. Disegni taccuini lettere nelle collezioni pubbliche di Forlì e Faenza (catal., Forlì), a cura di M. Manfrini Orlandi - A. Scarpini, Bologna 1981; Disegni di T. M. (catal.), a cura di S. Susinno, Roma 1982, I-II; M.A. Scarpati, L’Ottocento di T. M.: collezioni acquisizioni restauri, ibid., I, pp. 1-15; Faenza negli anni di T. M. (catal., Faenza), a cura di A. Colombi Ferretti, Bologna 1983; A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Milano 1988, pp. 234 n. 8, 352; A. Marabotti Marabottini, in Memoria storica e attualità tra rivoluzione e restaurazione. Bozzetti e modelli dalla fine del XVIII alla metà del XIX secolo, a cura di C. Bon Valsassina, Foligno 1989, p. 110; S. Gnisci, in La pittura in Italia. L’Ottocento, II, pp. 920 s.; Museo dell’Accademia di belle arti di Perugia. Dipinti, a cura di C. Zappia, Perugia 1995, ad ind.; C. Zappia, L’Accademia e le sue collezioni, ibid., pp. 30-36; E. Parlato, T. M. e le «pitture antiche» di Viterbo, Tuscania e Vallerano, in Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte, LIII (1998), pp. 247-272; Da Lille a Roma. Jean-Baptiste Wicar e l’Italia. Disegni dell’Accademia di belle arti di Perugia e del Museo di Lille (catal.), a cura di M.T. Caracciolo, Perugia 2002, pp. 168, 173 s. nn. 78-79, 225; Maestà di Roma da Napoleone all’Unità d’Italia, universale ed eterna capitale delle arti (catal., Roma), a cura di F. Mazzocca et al., Milano 2003, ad ind.; A. Marabotti Marabottini, Aspetti della fortuna e sfortuna di Perugino nella pittura e nella teoria artistica dal Cinquecento all’Ottocento, in Perugino il divin pittore (catal., Perugia), a cura di V. Garibaldi - F.F. Mancini, Milano 2004, pp. 398 s.; A.C. Manni, Restauri in Umbria. Questioni e metodi nella prima metà dell’Ottocento, Città di Castello 2005, ad ind.; Arte in Umbria nell’Ottocento (catal. Foligno-Perugia ecc.), a cura di F.F. Mancini - C. Zappia, Cinisello Balsamo 2006, p. 100 n. 1; E. Parlato, Carl Friedrich von Rumohr e T. M. in una lettera del 1820 …, ibid., pp. 83-87; S. Ricci, Da Roma a Perugia, da Perugia all’Europa. T. M., gli artisti tedeschi e i puristi italiani alla scoperta dell’Umbria santa, ibid., pp. 88-99; S. Amadio, Carlo Baldeschi, Jean-Baptiste Wicar, T. M. e alcuni disegni di fra’ Bartolomeo, in Les Cahiers d’histoire de l’art, 2007, n. 5, pp. 73 s., 76; G. Capitelli, in Nel segno di Ingres. Luigi Mussini e l’Accademia in Europa nell’Ottocento (catal., Siena), a cura di C. Sisi - E. Spalletti, Cinisello Balsamo 2007, p. 102; S. Ricci, T. M. a Gubbio. Disegni e dipinti inediti dalla collezione dei conti della Porta, in Studi di storia dell’arte, 2007, n. 18, pp. 303-314; Id., Restauri in «provincia»: i sopralluoghi di T. M. nei territori dello Stato pontificio, in Restauri pittorici e allestimenti museali a Roma tra Settecento e Ottocento, a cura di S. Rinaldi, Firenze 2007, pp. 99-121; S. Grandesso, in Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura (catal., Forlì), a cura di S. Androsov et al., Cinisello Balsamo 2009, pp. 163 s., 321 s.; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIV, p. 573.
M.G. Sarti