MEZZO, Tommaso
MEZZO (de Mezo, Medio, Medium), Tommaso. – Figlio di Marino di Tommaso, discendente da una famiglia veneziana patrizia influente nella vita politica e culturale della città, dovette nascere a Venezia intorno al 1447.
Membri della famiglia del M. erano stati senatori, ambasciatori, podestà, condottieri: Bernardo di Giacomo fu senatore del corpo della Giunta nel 1432; Luca di Francesco fu podestà e capitano di Belluno nel 1446; Viviano fu signore di notte nel 1468; Giacomo di Giovanni, cancelliere e senatore, fu nominato nel 1470 ambasciatore della Repubblica in Persia e in seguito presso la Curia pontificia e nel 1484 provveditore dell’Esercito nella guerra contro Ferrara.
Il nome del M. non compare in alcun documento pubblico; egli, infatti, all’impegno politico sembra aver preferito quello culturale: il M., come ricordato da Foscarini, collezionava codici e godeva dell’amicizia e della familiarità degli uomini più dotti del tempo in Venezia e fuori, tra cui Ermolao Barbaro, Giovanni Pico della Mirandola e il letterato feltrino Giovan Battista Scita.
Le epistole scambiate con Pico, riferibili secondo Garin al 1483, illustrano le relazioni e l’attività di letterato del M., orientata alla composizione di commedie in latino. I testi venivano inviati agli amici per giudizi e suggerimenti, che potevano diventare esortazioni, forse anche proposte. Il M. in una di queste epistole accenna a una «fabula» che non osava far conoscere e che infine inviò, convinto dalle esortazioni di Scita: «Quod ad licentiam argumenti attinet, si deliquisse nos existimas quia eam ad te misimus, habes non solum cui succenseas, sed in quem etiam […] si opus est, animadvertas. Vadem: enim habes Scytham tuum qui mihi suasor atque impulsor eius mittende fuit» (ed. Garin, pp. 584 s.). Pico in una epistola, che sembra una risposta a questa, nomina un testo preciso: «Dum Epirotam tuam legerem» e ne dà un giudizio favorevole perché il M. ha saputo infondere ai suoi personaggi quello spirito mordace e acuto che è una peculiarità del suo carattere (Ioannis Pici Mirandulae… epistulae, cc. 22v-23). Dallo scambio epistolare intercorso fra il M. e Pico emergono indicazioni su una seconda commedia: «Comoediae novae quam mihi polliceris» (ibid.).
Della produzione del M. è giunta solo una commedia in latino, l’Epirota, dedicata a Barbaro. L’opera, una volta diffusa, fu oggetto di giudizio da parte dello stesso Pico, come detto, e di letterati tedeschi del Cinquecento come Peter Gunther e Johannes Kneller, interessati al lavoro del M., che fu esaminato alla luce delle poetiche classiche.
Scritta per gioco in un momento di riposo, l’Epirota si propone come novità, perché struttura e trama abbandonano la tradizione medievale per ispirarsi agli antichi. Infatti, anche se manca una divisione in atti e scene e il dialogo è interrotto dai nomi dei personaggi che si avvicendano sulla scena presupponendo diversi cambiamenti di luogo come nel teatro quattrocentesco, la disposizione della materia già annuncia queste divisioni e la stessa trama è di imitazione classica: la vecchia Panfila ama il giovane Clitifone a sua volta innamorato corrisposto di Antifile, fanciulla dell’Epiro arrivata per caso a Siracusa dopo la morte del padre e qui accolta da uno zio di Clitifone. Il matrimonio non può essere celebrato perché la giovane è senza famiglia e senza dote. Sarà l’arrivo dello zio Epirota, che finalmente riconoscerà la fanciulla e la doterà riccamente, l’elemento risolutore della vicenda. La vecchia Panfila sposerà l’Epirota e così vivrà nella stessa casa dell’amato giovane.
Personaggi e situazioni sono ripresi dal teatro classico, ma va evidenziato come nella trama principale si innestino episodi non necessari allo svolgimento dell’azione e come proprio questi sembrano interessare l’autore: le scene iniziali in cui la vecchia Panfila si trucca per nascondere i segni dell’età (scena 1); i commenti della serva e dell’obstetrix (scena 2); il colloquio tra Panfila ed Egio che sotto sua dettatura scrive il messaggio amoroso per Clitifone (scena 4); oppure ancora la lite tra meretrici (scena 6); le frottole del ciarlatano che cerca di vendere le sue erbe agli sciocchi creduloni (scena 8); il patto tra il citaredo e l’oste che alla fine è beffato (scena 11). Queste scene non scavano nella psicologia dei personaggi, ma definiscono un ambiente e piacciono per la vivacità, per il gusto dell’osservazione, per la sottile e bonaria ambiguità di talune situazioni.
L’Epirota riscosse un certo successo testimoniato da quattro stampe: una veneziana del 1483 per i tipi di Bernardino Celeri (Indice generale degli incunaboli [= IGI], IV, 6331) e tre edizioni tedesche del 1516 a Oppenheim, 1517 a Lipsia e del 1547 a Magonza.
Dopo un lungo periodo di apparente oblio, si è rinnovato l’interesse per il M. grazie agli studi sul teatro del Quattrocento sviluppati da autori quali Sanesi, Apollonio, Perosa, Staüble; tuttavia il giudizio non è sempre stato benevolo per la frammentarietà della trama dell’Epirota e la prevalenza di figure secondarie rispetto a quelle principali.
Tali studi hanno comunque contribuito ad approfondire le analisi e a mettere in luce come la commedia assume un suo ruolo nello sviluppo del teatro: essa ha perso gli elementi legati alla novellistica medievale; nella trama e nella struttura si ispira a Plauto e Terenzio e introduce elementi tratti dalla realtà che troveranno nella produzione del secolo successivo ampio svolgimento, diventando segno di rinnovamento. E così l’Epirota è stata nuovamente edita con traduzione in alcune lingue moderne: in tedesco (Thomae Medii Fabella Epirota, a cura di L. Braun, München 1974); in italiano (Il teatro umanistico veneto. La commedia, a cura di G. Gentilini, Ravenna 1983); in inglese (G.R. Grund, Humanist comedies, Cambridge, MA, 2005).
Non risultano altre notizie consistenti sul M., del quale si ignorano la data e il luogo di morte.
Fonti e Bibl.: Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. it., cl. VII, 927 (=8596): M. Barbaro, Genealogie delle famiglie patrizie venete, c. 68r; cl. VII, 17 (=8306): G.A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, cc. 60v, 66v; Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Balla d’oro, reg. 164-III, c. 145; Ibid., Segretario alle Voci, Serie mista, reg. 5, c. 43; Padova, Biblioteca universitaria, Mss., 137: G.P. Gasperi, Catalogo della biblioteca veneta ossia Degli scrittori veneziani…, I, cc. 145 s.; Reggio Emilia, Biblioteca municipale, Vari, E.160: Thome Meij patritij Ven. Fabella Epirotae; Ioannis Pici Mirandulae,… epistulae…, Venetiis 1529, cc. 18-23; A.E. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, Venezia 1853, p. 608; E. Barbaro, Epistolario, a cura di V. Branca, Firenze 1942, ad ind.; Thomas Medius Ioanni Pico Mirandulano Salutem, a cura di E. Garin, in La Rinascita, XXVIII (1942), pp. 584-586; M. Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia 1854, p. 81; I. Sanesi, La commedia, I, Milano 1911, pp. 118-122; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, I, Firenze 1938, p. 274; M.T. Herrick, Italian comedy in the Renaissance, Urbana, IL, 1960, p. 23; A. Perosa, Teatro umanistico, Milano 1965, pp. 36 s.; A. Staüble, La commedia umanistica del Quattrocento, Firenze 1968, pp. 106-110; G. Gentilini, Appunti su T. M. e la sua commedia «Epirota», in Atti dell’Istituto veneto di lettere scienze ed arti, cl. di scienze morali lettere ed arti, CXXIV (1970-71), pp. 231-248; Id., La commedia umanistica a Venezia, ibid., CXXXIX (1980-81), pp. 196-198; G. Padoan, La commedia rinascimentale a Venezia…, in Storia della cultura veneta, 3, III, Venezia 1981, pp. 387 s.
G. Gentilini