MARINO, Tommaso
MARINO (De Marini, De Marinis, Marini), Tommaso. – Nacque presumibilmente a Genova intorno al 1475 da Luchino di Giovanni e da Clara (o Claretta) Spinola. Il padre era uomo facoltoso e, nel 1499, era stato incaricato di un’ambasceria presso il duca di Milano Ludovico il Moro. Nel 1509 Luchino ottenne, insieme con Giuliano Giustiniani, la cittadinanza milanese. Il M. fu primo di quattro figli (a lui seguirono Barbara, Maria e Giovanni, nato nel 1486 circa e morto nel 1546); mancano altre notizie sui suoi primi anni di vita e sulla formazione, che comunque dovette essere analoga a quella di molti giovani del ceto mercantile-nobiliare genovese.
I rapporti intrattenuti dal padre a Milano furono all’origine della scelta di mandarvi sin dal 1518 il figlio minore Giovanni, per svolgervi attività d’investimento, mentre il M. rimase a Genova. A parte l’acquisto di terreni, poco o nulla si conosce dell’attività di quegli anni. Il primo prestito di cui si abbia menzione risale al novembre 1528 e attesta l’inserimento dei Marino nei circuiti finanziari genovesi legati al mondo ispano-imperiale. In quella data, i due fratelli stipularono un asiento a Genova per fornire 55.000 ducati all’imperatore Carlo V, garantiti dalle entrate dello Stato di Milano e da una licencia di saca per 15.000 ducati dai Regni iberici. Si trattava di un passo importante, tuttavia non privo di rischi, come dimostrò il fatto che nel 1530, avendo sottoscritto un accordo per prestare all’imperatore 113.000 ducati, i Marino si trovarono impossibilitati a raccogliere l’intera somma, così che dovettero intervenire in loro soccorso importanti banchieri come Giovanni Battista Usodimare, Johann Welser e Ansaldo Grimaldi. Due anni dopo i due fratelli furono in grado di stipulare, sempre a Genova, un nuovo asiento di 20.000 ducati.
Il conflitto franco-asburgico per il controllo della penisola italiana costituì lo scenario nel quale prosperarono le attività dei fratelli Marino, così come di tutto il mondo finanziario genovese, chiamato a fornire ingenti risorse ai ministri ispano-imperiali in cambio di alti tassi d’interesse e della cessione di entrate nei territori italiani e nei Regni iberici di Carlo V. In particolare i Marino parteciparono a diversi contratti per finanziare l’esercito imperiale in Lombardia: per esempio, nell’aprile 1536, l’ambasciatore imperiale a Genova Gómez Suárez de Figueroa negoziò con il M. un prestito di 25.000 scudi, di cui 15.000 da versare alla stipula e il resto in due rate entro la fine del mese successivo, in cambio della corresponsione di un interesse del 22%.
La residenza di Giovanni a Milano risultò strategica per gli interessi dei Marino. Egli, che operava per conto proprio e a nome del fratello maggiore, nella seconda metà degli anni Trenta del Cinquecento effettuò acquisti di entrate e feudi della Camera, nonché di terreni nel territorio cremonese. Inoltre, nel marzo 1537, i due fratelli ottennero la ferma del sale per gli anni 1540-48 in cambio del versamento di 55.000 scudi in settanta giorni. In realtà, essendo venuta a mancare la ratifica imperiale delle clausole di rimborso sulle entrate spagnole, versarono solo 36.000 scudi. Le continue e gravi necessità finanziarie imperiali non impedirono comunque che i Marino proseguissero la loro attività: per esempio, nel gennaio 1544, il governatore dello Stato di Milano, Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, chiese loro di fornire gli oltre 206.000 scudi necessari alle spese per le guarnigioni, dando in garanzia il gettito di diversi dazi delle città di Milano, Cremona, Lodi e Pavia, del censo del sale e del mensuale, una nuova tassa straordinaria imposta nello Stato di Milano per il mantenimento dell’esercito. I Marino si occuparono anche di forniture militari, secondo uno dei tratti tipici delle compagnie finanziarie del tempo, in cui l’esercizio del credito s’integrava in vario modo e a diversi livelli con la pratica della mercatura. La gravità della situazione in cui versavano le finanze camerali nel 1544 obbligò il governatore a rinnovare con quattro anni d’anticipo l’appalto della ferma del sale ai Marino per il periodo 1550-58 in cambio del versamento di 50.000 scudi.
Un altro ambito d’investimento fu quello della terra e della compravendita di feudi e diritti camerali. Nel 1540 Giovanni acquistò alcuni terreni a Ozeno, area in cui si concentravano i beni dell’abbazia di Morimondo e, quattro anni dopo, ottenne in affitto per nove anni – con un canone di 2300 scudi annui – l’intero patrimonio fondiario della commenda dell’abbazia di Morimondo, valutato in 400.000 pertiche di buone terre. Inoltre, nel gennaio 1545, i due fratelli acquistarono i feudi camerali di Casalmaggiore, con titolo marchionale, e di Castelleone nel Cremonese (peraltro in seguito riscattati dalla Camera). Nello stesso anno Giovanni ottenne la carica di commissario generale del mensuale. Morì però nel dicembre 1546 e il M., che si trasferì di lì a poco a Milano, ne ereditò i crediti per circa 800.000 lire imperiali verso la Camera milanese e l’affitto dei beni della mensa abbaziale di Morimondo, che si sarebbe trasformato nel 1554 in livello perpetuo, con relativa ratifica papale.
Negli anni successivi, durante il governo milanese di Ferrante Gonzaga (1546-54) e dei suoi immediati successori, il M. fu senza dubbio il principale punto di riferimento per le esigenze finanziarie ispano-imperiali, al punto da essere nominato, nel marzo 1552, membro di «cappa corta» del Senato, la più alta istanza giudiziaria e amministrativa dello Stato di Milano.
Poco noti e meritevoli di approfondimento sono inoltre gli stretti rapporti intrattenuti dal M. con la Curia papale e la Camera apostolica. Non è noto quando siano iniziati, tuttavia con un atto notarile del 4 marzo 1551, il M. ottenne per un triennio, in società con il mercante senese Marco Antonio Pannilini, l’importantissimo incarico di depositario generale della Camera apostolica, impegnandosi a prestare a quest’ultima 100.000 scudi nell’arco di dieci mesi e altri 16.000 mensili nel corso di un anno. L’enorme sforzo finanziario della S. Sede a causa della guerra di Parma non consentì di restituire al M. e a Pannilini quanto pattuito nel contratto; perciò, nel corso del 1552, dovettero essere loro assegnate numerose entrate: dai proventi di un prestito forzoso di 80.000 scudi a 6000 scudi in luoghi del Monte giulio-anconitano, dalle decime e le mezze annate imposte al clero romano alle decime sugli ecclesiastici dello Stato di Milano.
Il coinvolgimento nella finanza e nella fiscalità papale di un importante mercante-banchiere genovese come il M. non deve sorprendere, se lo si colloca nel contesto del crescente interesse che la piazza romana e il volume di affari legati alla Camera apostolica presentavano per i gruppi bancari genovesi a metà Cinquecento. Il fatto che un esponente di punta della finanza privata genovese riuscisse ad acquisire la Depositeria generale è indicativo dei progressi fatti nella conquista di nuovi spazi nella vita economica così come nella gestione finanziaria e fiscale dello Stato della Chiesa e della S. Sede. D’altra parte il fatto stesso che l’acquisizione della Depositeria generale avvenisse in società con un mercante senese era motivata dall’esigenza del M. – che non risulta essersi mosso da Milano – di disporre di una longa manus esperta nella piazza finanziaria romana e di un tramite affidabile con le compagnie bancarie fiorentine e toscane che avevano svolto, fino a pochi anni prima, la parte del leone nelle finanze papali.
Giulio III, nell’aprile 1554, rinnovò al solo M. e per un periodo di cinque anni la nomina a depositario generale in cambio del versamento immediato di 30.000 scudi romani da dieci giulii da rimborsare in tre anni senza interessi (mentre per tutti i denari da lui anticipati avrebbe ricavato un 12% annuo). L’accordo prevedeva che al M. fosse assegnata una serie di cespiti della Camera apostolica: i censi di S. Pietro, il sussidio triennale degli ebrei, la quarta parte delle entrate delle Congregazioni regolari, le composizioni e le condanne dei malefici di Roma, le decime sui benefici dello Stato ecclesiastico e ogni altra entrata che la Camera o il tesoriere generale avesse deciso di versargli, per un ammontare complessivo di almeno 200.000 scudi annui. Da parte sua, il M. s’obbligò a pagare mensilmente al tesoriere generale 16.000 scudi.
Il ruolo ricoperto dal M. nei confronti delle finanze papali era assolutamente strategico e dimostra la consistenza delle sue attività. Egli sfruttò anche le opportunità d’investimento offerte dal debito pubblico pontificio. Nel 1555, per esempio, acquistò 920 luoghi del Monte novennale per ben 92.000 scudi, quasi la metà dei 187.000 scudi dell’emissione.
L’importanza acquisita dal M. a Roma è testimoniata dal fatto che anche l’antiasburgico papa Paolo IV non esitò a ricorrere ai suoi servizi finanziari. Negli ultimi mesi del 1555 il pontefice emanò un motu proprio in cui riconosceva che, nel corso della sua gestione della Depositeria, il M. non aveva esitato a effettuare «de suis proprijs pecunijs notabilium summarum solutiones» (Arch. di Stato di Roma, Notai segretari e cancellieri della Camera apostolica, vol. 452, c. 448), oltre a prestare 15.000 scudi alla Camera e a svolgere un ruolo nell’erezione del Monte novennale. Di conseguenza il papa stabilì di rinnovare al M. e ai suoi eredi l’affidamento della Depositeria generale sino al 1564 compreso. I buoni rapporti di Paolo IV con il M. erano tali che, nel 1558, si diffuse la notizia della conclusione di un accordo matrimoniale tra il primogenito del M. e una pronipote del papa, figlia del conte di Montorio Giovanni Carafa, che avrebbe ricevuto come dote una rendita di 4000 scudi annui, più una «sopradote» di 50.000 scudi da parte dello sposo; a completare il quadro il papa avrebbe conferito il cappello cardinalizio al M. stesso, ormai vedovo, o al suo secondogenito.
Solo i colossali crediti vantati dal M. verso la Camera apostolica possono spiegare la benevolenza di un papa, passato alla storia per i suoi furori antispagnoli, nei riguardi di uno dei principali finanziatori dei sovrani asburgici sulla piazza di Milano. Ciò dovrebbe indurre a un’attenta revisione critica delle attività del M. alla luce della constatazione che non erano circoscritte al meglio conosciuto triangolo costituito da Genova, Milano e dalla corte imperiale (poi da quella spagnola), ma erano sapientemente e spregiudicatamente orientate verso una realtà finanziaria, come quella romana, contraddistinta da notevole complessità. Basti pensare che nel marzo 1559, essendosi constatata l’insolvenza della Camera apostolica nel rimborso di un ingente debito, furono assegnati al M., oltre a 4000 ducati al mese per un semestre, una lunga e significativa serie di entrate fiscali: il sussidio triennale, i residui della Tesoreria di Camerino, le taxae maleficiorum di Roma, la metà del gettito dei quindenni; la metà del ricavato dai quindenni antichi di Spagna, Portogallo e altre province, nonché la metà di tutti gli spogli e sedi vacanti presenti e futuri di Spagna e Portogallo.
La congiuntura politica e finanziaria di cui aveva beneficiato il M. sembra chiudersi dal 1560. Da un lato la fine del conflitto franco-asburgico e dall’altro l’ascesa al soglio papale di Pio IV de’ Medici segnarono, in modo diverso, le sue fortune. Proprio nel 1560 egli rinunciò alla Depositeria della Camera apostolica, con quattro anni di anticipo sulla scadenza del contratto. Inoltre l’avversione di Pio IV verso tutti coloro che avevano goduto del favore del suo predecessore si spinse al punto di far processare il M. e il socio Pannilini, i quali, nonostante i cospicui crediti vantati verso la S. Sede, furono condannati a pagare 62.000 ducati di multa per la loro gestione della Depositeria. Sul versante milanese, per giunta, il pontefice – nel quadro del riassetto degli equilibri ecclesiastici – promosse la resignazione da parte del commendatario Innocenzo Del Monte dei beni della mensa abbaziale di Morimondo all’ospedale Maggiore di Milano (1561). Ne seguì una lunga causa intentata dal M., al termine della quale, nel 1565-66, fu annullata la concessione del livello perpetuo da lui goduto.
Forse anche i massicci investimenti nella costruzione del palazzo Marino a Milano, intrapresa dal 1557, e nell’acquisto di feudi nel Mezzogiorno contribuirono a indebolire la situazione finanziaria del M., che nel corso del 1560 comprò dal duca di Sessa, Gonzalo Fernández de Córdoba, all’epoca governatore di Milano, le terre calabresi di Terranova, con annesso titolo ducale concessogli da Filippo II, Gerace e Gioia e la baronia di San Giorgio. Inoltre acquistò da Cesare Gonzaga il feudo di Campobasso. Per motivi non ancora chiari, legati alla reale natura di tali operazioni, gli esborsi si rivelarono insostenibili, al punto che nel 1566 Terranova fu ceduta in pegno a Niccolò Grimaldi.
Negli anni successivi il M. fu alle prese con continue richieste di rimborsi da parte dei numerosi creditori, pur potendo contare sul sostanziale appoggio della corte di Madrid e delle autorità milanesi.
Il M. morì a Milano il 9 maggio 1572.
In data imprecisata il M. aveva sposato Bettina Doria (che morì nel 1558), dalla quale ebbe cinque figli: Bartolomea, Clara, Niccolò, Andrea (nato nel 1549) e Virginia. La prima figlia si monacò a Genova, Clara sposò il conte Manfredo Tornielli e Virginia andò in sposa a Ercole Pio di Savoia, signore di Sassuolo (1560) e quindi in seconde nozze a Martino de Leyva (1572). Il figlio maggiore Niccolò sposò Luisa de Lugo Herrera, figlia di Luis, adelantado delle Canarie, che egli uccise, pare per gelosia, nel dicembre 1564 per poi darsi alla fuga. In seguito a tale drammatica vicenda il M. fu protagonista di un’aspra contesa giudiziaria per la custodia della nipote Porzia contro la nonna materna, la nobildonna Beatriz de Noroña. Essendosi egli rifiutato di consegnare la nipote alle autorità, gli fu intimato di ottemperare alle disposizioni regie sotto pena del pagamento di 100.000 ducati. L’eredità del M. si frantumò rapidamente sotto i colpi delle richieste dei creditori e, da ultimo, della Camera milanese.
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