GOZZADINI, Tommaso (Tommasino)
Il nome del G. compare di frequente, anche nella forma abbreviata Masino, nei documenti - per lo più atti notarili - conservati negli archivi bolognesi già a partire dal penultimo decennio del XIII secolo; pertanto, secondo lo Zaccagnini, al quale si devono finora le indagini biografiche più accurate sul G., è ragionevole fissare la sua data di nascita intorno al 1260. Considerando, inoltre, che dal penultimo decennio del secolo XIII fino a tutto il secondo decennio del secolo XIV sono centinaia nei Memoriali gli atti da lui rogati, si può dedurre che il G. esercitò la professione di notaio per circa quarant'anni. Da uno dei più antichi documenti, risalente all'anno 1296, in cui il G. figura come testimone, apprendiamo che il padre fu un certo Giacomino figlio di Minacio ("Maxinus quondam domini Iacobini Minacij de Goçadinis", cit. in Zaccagnini, 1912, p. 136). Il nome della madre, "domina Cristiana filia quondam Ugolini", è registrato in un documento più tardo, datato 21 ott. 1307. Il medesimo documento attesta che il G. aveva un fratello di nome Minacio, il quale, nell'agosto del 1311, si unì in matrimonio con Pellegrina di Bongiovanni de' Zovenzoni: la loro dimora si trovava in prossimità "capelle Sancti Michailis de Lebroseto" (cit. in Zaccagnini, 1915, p. 332). In una dichiarazione sottoscritta dal G. in data 23 sett. 1307 egli risultava sposato con Margherita, figlia di Donusdeo della Stipa, vedova da oltre un anno di Angelello Angelelli; sempre da questo documento si apprende che il G., secondo le leggi del tempo, doveva restituire a Bonfante, padre del defunto Angelello, la somma di 119 libbre di bolognini come risarcimento della dote di Margherita; tuttavia, gli Angelelli rifiutarono tale somma che, con generosità, vollero lasciare alla vedova.
Nulla di preciso si sa invece sulla formazione giuridica del G. che doveva avviarlo alla carriera di notaio. A partire dal 1295 il G. ricoprì importanti incarichi pubblici per conto di diversi podestà, come è attestato da numerosi documenti. Nel giugno del 1310 era addetto in qualità di notaio alla compilazione dei Memoriali, ufficio che mantenne per tutto il secondo semestre di quell'anno, fino al febbraio del 1311.
Il G. fece parte più volte, in qualità di anziano, del governo della Repubblica: il suo nome figura nel febbraio del 1307, nel maggio del 1319 e ancora vi è registrato nel gennaio del 1329. Oltre questa data non si hanno più notizie sulla sua attività, per cui la sua morte si può datare a dopo il 1329.
I dati biografici fin qui esaminati, che hanno consentito di ricostruire con una certa precisione l'identità storica del G., riconducono a una figura di un certo rilievo che, grazie anche all'esercizio della professione di notaio, ebbe l'opportunità di stringere contatti con esponenti illustri dell'ambiente culturale bolognese, ma sempre riconducibili a un ambito ben delimitato, quale quello giuridico e civile: nulla, quindi, che lasci trapelare più specifici interessi letterari. Eppure il nome di Tommaso Gozzadini, sebbene mai accompagnato dalla qualifica di notaio, risulta attestato nell'explicit di numerosi manoscritti che ci trasmettono uno dei testi più interessanti delle nostre origini e che è stato considerato anonimo fino al secolo scorso: il Fiore di virtù. Si deve a Carlo Frati il merito di avere sgombrato il campo da tutta una serie di attribuzioni indebite del Fiore, individuando nella didascalia del manoscritto Gaddiano 115 della Biblioteca Laurenziana di Firenze: "fratris Thome de Gozadinis de Bononia, ordinis sancti Benedicti" l'indicazione del nome dell'autore (Frati, 1893, pp. 250 s.); né tale attestazione è isolata, perché viene confermata da altri manoscritti, tra i quali uno dei più antichi e autorevoli, il codice G.2.8.4 della Biblioteca Bertoliana di Vicenza portato alla luce dall'abate Andrea Capparozzo già nel 1872, dove si legge: "Qui è finito questo libro chi s'apella Flore de vitij e de vertu composto da fra Thomaxe da lo spedale de alternixi" (Frati, 1911, p. 313).
L'identificazione del G. con il frate Tommaso Gozzadini autore del Fiore presenterebbe tuttavia, secondo il parere di Cesare Segre, gravi difficoltà, sia perché mancano notizie sulla vita religiosa del G., sia perché - e sarebbe quest'ultima la riserva maggiore - l'explicit si trova "non al termine del Fiore di virtù vero e proprio, ma dopo i testi che gli furono aggregati […] che è improbabile appartengano all'autore del Fiore di virtù" (in La prosa del Duecento, p. 883). Circa il primo punto si può obiettare, sostenendo con alcune correzioni le ragioni già avanzate a suo tempo dallo Zaccagnini (1915, pp. 383 s.), che nulla potrebbe avere impedito al G., una volta abbandonati gli impegni politici dopo il 1329 e forse rimasto vedovo, di ritirarsi nella quiete di un monastero benedettino, attendendo agli studi e dedicandosi alla stesura della sua opera. L'ostacolo principale, anche se non inconciliabile con la proposta di identificazione del G. con l'autore del Fiore, proviene piuttosto dalla datazione del trattato, che risulterebbe composto, secondo le argomentazioni di M. Corti, in "un lasso breve di tempo che si estende fra il 1313 e il 1323", e comunque non oltre il 1323, terminus ante quem che corrisponde all'anno della canonizzazione di Tommaso d'Aquino il quale, invece, nelle citazioni del Fiore di virtù viene ricordato semplicemente come "fra Tomaso" (Le fonti del "Fiore di virtù", p. 120). Non si può escludere che la stesura del trattato sia stata intrapresa dal G. proprio in quel giro di anni e che dopo il 1329, nella tranquillità della vita monastica, egli l'abbia portata a termine o anche solo trascritta prima di morire. Per quanto riguarda la seconda e più consistente obiezione sollevata da Segre, va osservato che se l'attribuzione del Fiore di virtù al Tommaso Gozzadini dell'Ordine benedettino risulta certamente dal codice Gaddiano 115, essa viene però al contempo confermata da altri codici che difficilmente dipendono da quest'ultimo e che non presentano la medesima aggregazione di testi; pertanto, anche se non si intende avanzare conclusioni affrettate su una materia filologica complessa, l'attribuzione del Fiore di virtù al G. sembrerebbe tutt'altro che insostenibile.
Venendo all'esame dell'opera, va detto che il Fiore di virtù si configura come una compilazione didattica in un volgare di chiara ascendenza bolognese e solo successivamente toscanizzato. Il Fiore di virtù ha avuto una larghissima diffusione nel corso del Trecento e fino a tutto il Quattrocento, come testimoniano i più di settanta manoscritti e le numerosissime stampe quattrocentesche. L'opera, in conformità con la tradizione dei "fiori", suddivide la materia in 35 capitoli dedicati alternativamente a una virtù e al suo vizio opposto. Alla definizione del vizio o della virtù corrispondente segue un episodio moralizzato tratto dalla zoologia dei bestiari concluso da una serie di massime e da un racconto esemplificativo di impianto novellistico. Il modello principale di questo schema viene offerto all'autore dalla Summa theologiae di s. Tommaso. Gli esempi animali sono ricavati principalmente dal De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico; mentre le massime e le sentenze spaziano da Aristotele a Seneca, dalla Bibbia al De regimine principum di Egidio Romano (Egidio Colonna), attingendo contemporaneamente al Liber philosophorum moralium antiquorum, alla Summa vitiorum di Guglielmo da Peraldo e ai trattati di Albertano da Brescia. L'indicazione fornita da Maria Corti per cui nel Fiore sarebbero preminenti le citazioni tratte dal mondo antico e dalla cultura giuridica rispetto a quella cristiana, insieme con il dato che il nome del notaio bolognese Pietro Boattieri, con il quale il G. fu molto probabilmente in contatto, è presente in una serie di Dicerie volgari aggiunte al Fiore di virtù, sembrerebbe portare, con le dovute cautele, nella direzione sopra prospettata. Un altro dato interessante, che torna utile anche ai fini della datazione del trattato, riguarda l'accoglienza che l'autore ha riservato alla cultura in volgare e in modo particolare alla canzone guinizzelliana Al cor gentil e al Convivio dantesco, entrambi citati esplicitamente proprio all'inizio e alla fine nel testo.
La fortuna del Fiore di virtù, oltre che dai numerosi manoscritti e stampe, è testimoniata dalle traduzioni che furono compiute in diverse lingue, nonché dalla presenza dell'opera come fonte di testi successivi: riconducibili al Fiore di virtù sono i bestiari di Franco Sacchetti e di Leonardo da Vinci, così come è risultato evidente il debito contratto con il Fiore dall'Acerba di Francesco Stabili (Cecco d'Ascoli). Va considerato, infine, un rifacimento del Fiore di virtù il Ristorato, poema in terzine del bolognese Ristoro Canigiani.
Manca un'edizione moderna del Fiore di virtù; Maria Corti, che ne aveva intrapreso l'edizione critica, ha fornito alcune anticipazioni in diversi saggi, mettendo a disposizione dei curatori del volume ricciardiano dedicato alla prosa del Duecento i primi sostanziosi contributi al riguardo (La prosa del Duecento, a cura di C. Segre - M. Marti, Milano-Napoli 1959, pp. 883-899, 1107-1109). L'unica trascrizione completa, ma del tutto inattendibile, del Fiore di virtù è quella di G. Ulrich alla fine dell'Ottocento (Fiore di virtù: versione tosco-veneta del Gaddiano 115 della Laurenziana, a cura di G. Ulrich, Leipzig 1890).
Fonti e Bibl.: M. Sarti - M. Fattorini, De claris Archigymnasii Bononiensis professoribus, I, Bologna 1769, p. 242; P. Fanfani, Di due codicetti italiani, in La Gioventù, IX (1866), pp. 558-567; A. Capparozzo, Fiore di virtù, codice membranaceo del secolo XIV esistente nella Biblioteca comunale Bertoliana di Vicenza, Vicenza 1872; F. Zambrini, Le opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV, Bologna 1884, pp. 411-414, 704, 710, 1013, 1045; Appendice, pp. 55 s.; G. Ulrich, Il codice bertoliano del Fiore di virtù, Zurigo 1891; C. Frati, Ricerche sul "Fiore di virtù", in Studi di filologia romanza, VI (1893), 1, pp. 247-447; G. Ulrich, Fiore di virtù: saggi di versione, Leipzig 1895; H. Varnhagen, Die Quellen der Bestiar-Abschnitte in Fiore di virtù, in Raccolta di studi critici dedicata ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 515-538; C. Frati, Dicerie volgari del sec. XIV, aggiunte in fine del "Fior di virtù", estr. da Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze 1911; G. Bertoni, Note sulle "Dicerie volgari" aggiunte al "Fiore di virtù", in Giorn. stor. della letteratura italiana, LIX (1912), pp. 173-175; G. Zaccagnini, Per la storia letteraria del Duecento, in Il libro e la stampa, VI (1912), 1, pp. 136-138; C. Frati, "Fiore de parlare" o "Somma d'arengare", in Giorn. stor. della letteratura italiana, LXI (1913), pp. 30 s.; G. Zaccagnini, Scrittori bolognesi di trattati morali e storici. T. G., ibid., LXVI (1915), 3, pp. 330-334; G. Bertoni, Il Duecento, Milano 1930, pp. 345 s.; C. Battisti, Appunti sul "Fiore di virtù", in Bull. dell'Archivio paleografico italiano, n.s., II-III (1956-57), 1, pp. 77-91; M. Corti, Il mito di un codice. Laur. Gadd. 115 ("Fiore di virtù"), in Studi in onore di Angelo Monteverdi, Modena 1959, pp. 185-197; Id., Le fonti del "Fiore di virtù" e la teoria della "nobiltà" nel Duecento, in Giorn. stor. della letteratura italiana, CXXXVI (1959), pp. 1-82; Id., Emiliano e veneto nel "Fiore di virtù", in Studi di filologia italiana, XVIII (1960), pp. 29-68; A.E. Quaglio, Il Fiore di virtù, in La letteratura italiana. Storia e testi, I, Bari 1970, pp. 304-306; A.M. Costantini - M.L. Camuffo, Il Fiore di virtù: una nuova fonte per l'Acerba, in Riv. di letteratura italiana, VI (1988), pp. 247-258.