ELISIO, Tommaso
Nacque a Napoli intorno al 1487. Nominato spesso come "Elysius, de Elisio, Eligio", non è da confondersi con Tommaso Elisio soprannominato l'Illirico dell'Ordine dei frati minori.
L'E. prese i voti dell'Ordine domenicano nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore nei primi anni del Cinquecento. Il 24 maggio 1520 fu assegnato come studente in teologia nel medesimo convento, ove trascorse verosimilmente i primi anni di sacerdozio. Iniziò presto la carriera di docente in uno degli Studi della provincia religiosa cui apparteneva e ancora giovane partecipò in qualità di baccelliere della provincia napoletana al capitolo generale dell'Ordine svoltosi a Roma nel maggio 1532.
Rivesti la carica di priore di S. Domenico Maggiore almeno due volte negli anni 1536-37 e 1544-46. Negli anni 1557-58 fu priore dell'altro grande convento napoletano di S. Pietro Martire e per un periodo fu anche reggente dello Studio generale di S. Domenico Maggiore. Infine entrò a far parte del Collegio dei teologi dell'università di Napoli, ove ricoprì per due volte l'ufficio di vicecancelliere, la più prestigiosa carica di questa corporazione accademica e l'unica a poter conferire nel Regno la laurea in teologia.
Morì a ottantaquattro anni in una data compresa tra il 18 maggio 1571 e il 18 genn. 1572.
Negli anni in cui l'E. visse la Chiesa attraversava un periodo di profonda crisi. Erano gli anni dell'espansione protestante e dei primi tentativi di riforma della Chiesa che sarebbero poi sfociati nel concilio di Trento. La vita e le opere del teologo napoletano furono particolarmente influenzate da questi problemi, a cui egli seppe dare delle risposte talvolta originali e innovative.
Se la sua formazione scolastica lo portava a vedere nell'eresia un male da combattere, anche con estremi rimedi, ribadendo con zelo i principali punti del dogma cattolico e della disciplina ecclesiastica, d'altro canto egli non si limitò alla difesa delle dottrine cattoliche, ma espresse con linguaggio franco e talvolta pungente la necessità di avviare una riforma dell'istituzione ecclesiastica e della vita religiosa.
Sulla riforma ecclesiastica l'E. non aveva solo nozioni teoriche: egli infatti fece parte delle commissioni diocesane istituite nel 1557-58 dal domenicano Giulio Pavesi, futuro arcivescovo di Sorrento, il primo a Napoli ad aver dato l'avvio nel Cinquecento a un'effettiva azione di riforma.
L'E. diede alle stampe solo due volumi e per giunta negli ultimi anni della sua lunga vita: il Piorum clypeus adversus recentiorum haereticorum pravitatem, stampato a Venezia nel 1563, e i Christianae religionis arcana (D. e G. B. Guerra), editi ugualmente a Venezia nel 1569. L'E. fu autore di altre opere di cui si sono perse le tracce e di un opuscolo intitolato Declaratio christianae reformationis religiosorum utriusque sexus, attualmente conservato nell'Archivio segreto Vaticano (Concilio 2, ff. 35-61v).
Senza dubbio il Piorum clypeus è tra queste opere la più interessante. Molto più tardi essa trovò posto nell'Index librorum prohibitorum di Sisto V del 1590 con la formula: "quamdiu ex supra dictarum regularum ratione non corrigatur" molto probabilmente a ragione del linguaggio esplicito e mordace dell'autore. Nel Piorum clypeus sono raccolti gli aspetti salienti del pensiero del teologo napoletano. Convinto come tutti i riformatori dell'epoca che il cardine della riforma dovesse essere un episcopato rinnovato, l'E. dedicò a questo tema pagine fortemente polemiche. Sulla residenza dei vescovi egli era convinto che fosse prescrizione di diritto divino. Cristo, egli afferma, ha incaricato Pietro e in lui tutti i vescovi, di cui era allora l'immagine, di governare personalmente il gregge affidatogli. La figura del vicario non ha senso inoltre poiché o esso è un incapace, motivo per cui va messo da parte, oppure èidoneo a fare ciò che è di competenza del vescovo, ma allora, paradossalmente, sarebbe sufficiente un solo vescovo nel mondo intero: il papa, cui spetterebbe il compito di fornire i vicari alle varie chiese.
Sempre su questo tema l'E. ritiene che le infrazioni alla residenza più gravide di conseguenze derivano dalla commistione tra carica cardinalizia e carica vescovile. L'ufficio dei cardinali deve essere unicamente quello di assistere il papa mentre quello dei vescovi di risiedere nella loro Chiesa. I cardinali devono perciò vivere con altri proventi e non "ex beneficiis", e per permettere ciò il papa può mantenerli direttamente imponendo all'occorrenza delle tasse a loro favore.
Un'altra delle cause che secondo l'E. alimentavano l'inosservanza dell'obbligo di residenza e l'abuso del cumulo dei benefici era l'istituzione dei vescovi titolari. Nel paragrafo dedicato alla questione, "De episcopis titularibus. An sint veri episcopi?", sono raccolte tutte le critiche e perplessità che questa figura dei titolari aveva suscitato negli ambienti ecclesiastici.
L'E. distingue i vescovi titolari in legittimi, ovverosia quelli che prima di esserne privati avevano già contratto il rapporto sponsale con la propria Chiesa, e in illegittimi, cioè quei vescovi che nell'atto della loro consacrazione non entrarono in possesso né della Chiesa né di parte di essa perché sita in luoghi "remotissimi". Quest'ultimi per l'E. non hanno diritto alla giurisdizione e sono perciò del tutto assimilabili ai semplici preti. D'altro canto il teologo napoletano fa notare come il malcostume dei titolari non sia attribuibile al pontefice, visto che creare i vescovi non ènecessariamente pertinente alla fede, ma in realtà si tratta di una cattiva consuetudine da estirpare.
Nel Piorum clypeus vanno inoltre segnalate alcune significative aperture dell'E. nel campo della teologia dommatica. Molto audace per i tempi è, ad esempio, la sua tesi sulla salvezza di coloro che abitano le terre recentemente scoperte. Per l'E. èinverosimile che tra tanti milioni di uomini che non hanno ricevuto il verbo, non ve ne sia alcuno in grado di fare ciò che èin suo potere, ossia che manchi del libero arbitrio, l'unica condizione posta da Dio affinché gli uomini ricevano la grazia, e quindi la salvazione. A proposito dei bambini morti senza battesimo, adotta la tesi più avanzata, già proposta da J. de Gerson e da T. De Vio: i bambini si salvano, in questo caso, grazie al desiderio dei genitori (o dei loro sostituti) e alla fede della Chiesa.
Anche nella sua seconda opera, i Christianae religionis arcana, di carattere prevalentemente teologico, l'E. non perde l'occasione di ribadire la sua posizione sull'argomento che gli sta più a cuore, la riforma della Chiesa e la lotta contro l'ipocrisia regnante tra molti ecclesiastici.
Oltre a questo aspetto i Christianae religionis arcana si pongono all'attenzione per gli argomenti sostenuti dall'E. su delicate questioni di dommatica, quale ad esempio la concezione della Vergine Maria. Il teologo napoletano anticipa in qualche modo la posizione presa in seguito dalla Chiesa con la proclamazione del dogma dell'Immacolata Concezione nel 1854. L'E. sottolinea, infatti, a più riprese, l'identità della concezione di Cristo e Maria e perciò l'assenza del peccato originale per grazia speciale e particolare privilegio nella Vergine fin dalla sua nascita. Posizione questa che non mancherà di suscitare polemiche anche in seguito, nel sec. XVII, come nel caso del religioso spagnolo Pedro de Alva y Astorga, autore dell'opera Sol veritatis, posta poi all'Indice, nella quale l'E. viene accusato di sostenere ragioni non convalidate dalla lettura del Vangelo e delle Sacre Scritture e soprattutto di disonorare Cristo facendo la Vergine eguale a lui, pura creatura dal concepimento per virtù dello Spirito Santo.
Alla riforma degli Ordini maschili e dei conventi femminili l'E. dedicò numerosi cenni nei suoi volumi a stampa ma soprattutto la Declaratio christianae reformationis religiosorum utriusque sexus, rimasto inedito.
L'opuscolo, suddiviso in cinque capitoli, fa parte di una miscellanea contenente documenti vari. Una parte di questi riguarda esclusivamente i domenicani, l'altro i cistercensi. I documenti, il più consistente dei quali è proprio l'opuscolo dell'E., pur non essendo datati, si riferiscono quasi tutti a un lasso di tempo che va dal pontificato di Paolo IV a quello di Gregorio XIII.
La Declaratio christianae reformationis rappresenta un'interessante testimonianza del clima che in Italia accompagnò la riforma dei conventi. L'analisi da cui procede il progetto di riforma auspicato da E. si fonda da un lato sulla denuncia del desolante stato in cui versavano numerosi conventi maschili e femminili per mancanza di vera vocazione, dall'altro sul fatto che l'autorità ecclesiastica non aveva difficoltà a ricorrere, nella riforma di questi conventi, a metodi autoritari che né le Scritture, né la teologia, né la legge canonica a suo parere giustificavano.
Premesso ciò, l'E. sostiene che il papa e i prelati hanno il dovere di eliminare gli abusi, ma che non possono imporre a loro piacimento l'osservanza che ritengono pertinente. La ragione fondamentale dalla quale bisogna partire è secondo l'E., il rispetto dell'intenzione che il religioso aveva al momento di prendere i voti. In tal senso vanno considerate anche le condizioni tiranniche di vita esistenti nei conventi, la giovane età dei novizi, le pressioni esercitate dagli ambienti familiari che molto spesso minano alla base la validità stessa del voto, cioè la cognitio.
Si rendeva indispensabile a questo punto, secondo l'E., esperire vie nuove, partendo proprio dal disagio di tante vocazioni sbagliate. Le proposte avanzate dal teologo napoletano sono di un certo rilievo, tenuto conto del fatto che egli apparteneva ad un Ordine di origine medievale che in materia si aggiornerà solo in epoca relativamente recente: un noviziato molto più prolungato e meno formalistico, il rinvio della professione ad un'età più matura, maggiore libertà circa i vincoli che legano reciprocamente il religioso e l'Ordine, un impegno definitivo e irreversibile non generalizzato.
Fonti e Bibl.: Napoli, Arch. stor. diocesano, S. Visita, A. Carafa, ff. 7rv; Monumenta Ordinis fratrum praedicatorum historica, IX, a cura di B. M. Reichert, Romae 1901, p. 244; XXI, a cura di G. Meersseman-D. Planzer, ibid. 1947, p. 90; A. Miraeus, Bibliotheca ecclesiastica, Antverpiae 1639, p. 75; T. Valle, Breve compendio de gli più illustri padri… ch'ha prodotto la provincia del Regno di Napoli, Napoli 1651, p. 253; P. De Alva y Astorga, Sol veritatis, Madrid 1660, pp. 83 ss.; N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 1674, p. 296; F. Ambrosio de Altamura, Bibliothecae domenicanae, Romae 1677, p. 324; V. G. Lavazzuoli, Catal. degli uomini illustri figli del real monistero di S. Domenico Maggiore…, Napoli 1777, p. 27; C. Minieri Riccio, Memorie storiche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Napoli 1844, p. 118; H. Jedin, Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica, Brescia 1950, p. 59; H. Reusch, Die Indices librorum prohibitorum des sechzehnten Jahrhunderts, Tübingen 1886-Nieuwkoop 1961, p. 518; G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina dei poteri nella Chiesa universale, Roma 1964, pp. 128 ss., 147 s., 154; M. Miele, La Riforma dei conventi nel Cinquecento, in Memorie domenicane, Pistoia 1972, pp. 76-113; J. Quétif-J. Echard, Scriptores Ordinis praedicatorum, p. 212; Dictionn. de théol. cathol., IV, pp. 2328 s.