DI SOMMA, Tommaso
Nacque a Napoli il 2 marzo 1737 da Gennaro Maria principe di Colle e Maria Spinelli dei marchesi di Fuscaldo; secondogenito, ereditò il feudo di Circello e il relativo titolo marchionale col quale è noto alla storia. Compì i suoi studi al collegio dei nobili: studi alquanto sommari, a giudicare dall'abissale ignoranza unanimamente attestatagli. Nel 1757 fu ammesso nella reale compagnia delle guardie del corpo ed è probabilmente alla sua lunga appartenenza a questo particolare entourage del giovanissimo sovrano Ferdinando - dopo la partenza di re Carlo - che vanno fatti risalire la stretta amicizia e il rapporto di vicendevole dipendenza che legò per tutta la vita re e cortigiano.
In tale rapporto, di assoluta fedeltà e totale devozione da parte del D., si riassumono la brillante carriera e tutta la vita politica di questo personaggio spesso descritto come buono e fedele, inetto e ignorante. In effetti la sua forza fu soprattutto nel rapporto privilegiato col re, la piena corrispondenza delle sue qualità alle regali esigenze - essenzialmente quella di essere esonerato da ogni incombenza politica - e l'identità delle loro concezioni politiche. Benché sembri fuori luogo parlare qui di concezioni politiche o cultura ancien regime - come verranno definite successivamente -: ci troviamo dinanzi a un'assenza di cultura tale da rendere impossibile qualsiasi definizione e catalogazione (si veda la bella descrizione che dell'incolta corte tracciò l'imperatore Giuseppe II in visita a Napoli, edita dal Corti, Appendice).
L'ascesa del D. ai vertici dell'esercito, della diplomazia e del governo - oltre che della corte - iniziò relativamente tardi ma fu folgorante. Pur avendo scarsa disposizione per la carriera militare, egli pervenne ai gradi più elevati. Nominato tenente colonnello e subito dopo colonnello del reggimento "Messapia" alla fine del 1772, fu promosso brigadiere generale nel 1776 (era allora ministro a Coperiaglien), generale comandante la guardia del corpo e maresciallo di campo nel 1797 e infine tenente generale nel 1818 (ma con anzianità pregressa di almeno venti anni). Nel frattempo aveva iniziato una non meno brillante carriera diplomatica: nominato da B. Tanucci, il 10 ott. 1775, ministro a Copenaghen, già il 14 genn. 1777 veniva promosso alla prestigiosa sede di Vienna, ove rimase fino al 1786 (nel 1785 l'imperatore lo portò seco a Mantova per compiacere Ferdinando IV). Nel marzo 1786 venne nominato ambasciatore a Parigi. In quell'anno sposò Cristina Ruffo dei principi di Scilla, vedova di Giuseppe Piccolomini principe di Villareale e duca di Arnalfi, "moglie indotta", secondo il Colletta (III, p. 10), ma dotata, e "au plus haut degrée", di "esprit d'intrigue" (come riferiva, nel 1805, il diplomatico francese E. Lefebvre: cfr. Auriol, II, p. 338).
In effetti il D. non rivelò neppure doti diplomatiche. Apprese quanto bastava la lingua francese e poche altre nozioni essenziali alla bisogna. Le prime due missioni non sembrano aver lasciato traccia se non quella, negativa, di aver astutamente fatto fallire, probabilmente per gelosia, da Vienna, le trattative russe del marchese di Gallo. A Parigi, ove il D. giunse nell'ottobre del 1786, era in pieno svolgimento la seconda missione Brissac (agente francese della regina di Napoli e probabilmente di G. Acton), il cui scopo era di vanificare i tentativi francesi di conciliazione ispano-napoletana. Apparentemente il D. riuscì a neutralizzare il Brissac e a ingraziarsi Maria Antonietta, inizialmente a lui ostile. Fu, tra i diplomatici accreditati a Parigi, uno dei più esattamente informati delle vicende politiche nella fase prerivoluzionaria. La Rivoluzione sconvolse la quieta routine del cortigiano improvvisato diplomatico. Fu tempestivo ed accuratissimo, ma incolore narratore delle tumultuose giornate rivoluzionarie. Si rivelò totalmente privo degli strumenti atti ad analizzare eventi estranei alla sua concezione del mondo. Nella rivoluzione vide essenzialmente l'opera del duca d'Orléans (in odio al quale, molti anni dopo, si oppose al matrimonio del figlio di quello, Luigi Filippo con Maria Amelia di Borbone-Napoli). Nel frattempo il segretario dell'ambasciata napoletana Luigi Pio inviava dispacci sempre più infiammati di passione rivoluzionaria e infine si licenziò inneggiando pubblicamente alla Rivoluzione (cfr. A. Cutolo, Da diplomatico a giacobino. La vita di L. Pio..., in Rass. stor. del Risorgimento, XXII [1935], 2, pp. 403-07). Pur ricusando di rappresentare il suo re nella Francia rivoluzionaria, il D. vi si trattenne ancora nella speranza di essere utile alla famiglia reale. Partì nell'estate del 1790, inseguito da una "quantità di fogli ingiuriosi ed incendiari" (che però il Nuzzo non specifica: La monarchia..., pp. 196 s.), alla volta di Vienna ove erano convenuti i suoi sovrani in occasione dell'incoronazione imperiale e delle duplici nozze tra Borboni di Napoli e Asburgo. Non tornò più nella capitale della Rivoluzione (rimase ambasciatore titolare sino al marzo 1793). Forse aspirò a una nuova nomina a Vienna, se così possiamo interpretare il rifiuto comunicato dall'imperatrice Maria Teresa figlia dei reali di Napoli (ne parla Maria Carolina in una lettera dell'aprile 1795; cfr. Correspondance..., I, p. 285).
Risiedette nei Paesi Bassi, principalmente a Breda, e fu attento e critico osservatore della politica estera napoletana, contro la quale diresse la fronda di diplomatici regnicoli. Influenzò in particolare il suo collega a Londra, Fabrizio Ruffo principe di Castelcicala, allora alle prime armi e frondista per ragioni squisitamente personali oltre che politiche. Fu forse a Napoli in questo periodo, poiché la convenzione anglo-napoletana firmata a Napoli il 12 luglio 793 reca la sua firma (in quell'atto non risulta investito di incarichi diplomatici; stranamente gli è attribuito anche il titolo di principe del Colle: cfr. Salemi). Lo stesso D. venne poi nominato alla legazione di Londra nel settembre del 1793 e poté così portare avanti la propria politica anglofila, compatibilmente e non con la situazione del Regno. Indifferente alla grande lezione politica ed economica offertagli dalla Gran Bretagna, comprese tuttavia che la solidità politico-economica e la forza marittima britannica ne facevano indiscutibilmente l'alleato più adatto alle esigenze del momento. Secondo P. Pieri (Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, in Arch. stor. per le prov. napoletane, n. s., XII [1926], pp. 22 e 33), il D. manifestò poi, tra 1799 e 1800, "sfiducia nella sincerità dell'amicizia inglese" e consigliò l'alleanza russa. Per ragioni non accertate chiese nel 1800 il pensionamento: fu nominato consigliere di Stato con ducati 6.700 di pensione e l'autorizzazione a risiedere in Inghilterra.
Dal suo ritiro inglese venne poi richiamato, in circostanze non chiare, nel 1804 per assumere la segreteria degli Esteri. Comunque il suo ritorno, nel 1805, suscitò le vivaci opposizioni della regina e della Francia, ufficialmente per la stessa ragione: la sua anglofilia. La regina per protesta si ritirò a Castellammare. Napoleone per bocca di Talleyrand tuonò contro il D., anglofilo al punto di aver voluto risiedere in Inghilterra anche dopo la fine della sua missione diplomatica ("il y a acheté des terres considerables"!), senza dimenticare il suo attaccamento ai Borboni di Francia (Auriol, II, pp. 309 s.), e minacciò veti. Il D., probabilmente meno estraneo alla propria nomina di quanto credessero a Napoli, aveva dei progetti ben precisi che prima di lasciare l'Inghilterra discusse col segretario agli Esteri H. Phipps (primo conte di Mulgrave). Appena a Napoli si dedicò con grande energia alla realizzazione di tale politica, pur rimanendo la sua posizione ufficiale ancora indefinita. Il 10 settembre firmava un accordo col ministro D. P. Tatiščev, in virtù del quale le truppe russe sarebbero sbarcate nel Regno immediatamente dopo la partenza dei Francesi. I Britannici promisero altrettanto. Agli inizi di ottobre veniva ratificato il trattato di neutralità che nel frattempo l'ambasciatore a Parigi, marchese di Gallo, lasciato senza istruzioni dal D., era stato praticamente costretto a firmare il 21 settembre. Contemporaneamente il D. avvisava Russi e Britannici che il trattato con la Francia era da considerarsi come nullo e non avvenuto in quanto sottoscritto in stato di costrizione. In novembre i Francesi abbandonavano, giusta il trattato di neutralità, il territorio napoletano, e subito sbarcavano Russi e Britannici. Ben presto la notizia della sconfitta di Austerlitz convinceva gli Anglo-Russi a sgombrare precipitosamente il Regno, abbandonandolo alla vendetta di Napoleone. Il D., che dirigeva la politica estera pur senza rivestire alcun incarico - mentre T. Firrao, principe di Liuzzi, risultava incaricato degli Esteri -, aveva puntato tutto sulla difesa anglorussa del Regno: aveva violato trattati e aveva sottoscritto con gli alleati accordi onerosissimi. Non aveva previsto la violazione dei patti e l'indecorosa fuga degli alleati: i Russi si imbarcarono per Corfù, i Britannici per Messina, mentre Napoleone decretava, il 27 dic. 1805, che la dinastia napoletana aveva cessato di regnare.
Il D., nominato maggiordomo di settimana agli inizi di gennaio 1806, segui i sovrani in fuga in Sicilia. Deteneva allora, oltre agli Esteri, anche la segreteria della Guerra e della Marina, ma ne venne ben presto esonerato ("le bon Circello en étant absolument incapable": Maria Carolina a Damas, dicembre 1807: cfr. Damas, II, p. 390). Si era già riconciliato con la regina, e anzi ne divenne segretario nel 1808. C. Di Somma accenna alla concessione al D. da parte della regina di "qualche provvisorio vicariato nel suo alquanto eclettico regime coniugale" (Di Somma-Bandini, p. 3), ma non ne precisa l'epoca.
La nutrita corrispondenza della regina testimonia che i suoi rapporti col D., pur contrassegnati da alti e bassi resi inevitabili dal carattere di Maria Carolina, furono sempre strettissimi. Probabilmente la regina fu tra le poche persone che avessero compreso il carattere del D.: già nel 1800 aveva scritto a Marzio Mastrilli marchese di Gallo: "II a toujours su se cacher derrière les autres et j'ai été assez béte pour le servir et me préter à ses caprices" (Correspondance, II, p. 136). Certo è che nel caos che caratterizzò la vita politica siciliana, tra complotti e congiure, il D. riuscì sempre a mantenere le posizioni acquisite e la fiducia dei suoi sovrani. Tentò di persuadere la regina, convinta che la Gran Bretagna volesse annettersi la Sicilia, che l'alleanza britannica era essenziale per il denaro erogato e per la protezione militare concessa. Dovette contemporaneamente subirne gli insulti e difendere lei e i suoi colpi di testa di fronte agli irritatissimi protettori britannici. Fu universalmente biasimato e altrettanto universalmente assolto quale esecutore ignaro o prestanome di e per misure politiche e militari di cui si riteneva nulla sapesse né comprendesse. Così, pure svolgendo in tutto il periodo un ruolo di primo piano in veste sia di membro del governo sia di consigliere di Stato ed esponente di primissimo piano della corte, non venne mai giudicato responsabile in prima persona della politica perseguita. Rafforzò così quell'immagine di ministro fedele, inetto e facile da gabbare o utilizzare, uomo del re che tutto sommato non dava fastidio a nessuno.
Fu questa immagine tranquillizzante che egli seppe costruirsi con grande astuzia ad assicurargli il ruolo di uomo del re in governi che, soprattutto durante la Restaurazione, raramente videro il partito di corte prevalere. In mancanza di spiegazioni più serie, si pensò di motivare semplicisticamente la sua longevità politica con il tenace desiderio di ricoprire una carica governativa. Per il ministro inglese Drummond "As Minister of Foreign Affairs nobody was more foreign to affairs than Circello" (Acton, p. 552). Così il Blanch (II, p. 73): "di poco acume e scarso di conoscenze positive, era lodevole per il carattere, perché probo in tutte le manifestazioni della vita e tanto fermo da diventare schiavo dei suoi doveri fino alle più gravi conseguenze. Leale servitore del re ...".
In tutta la sua carriera il D. dimostrò grande capacità di conquistare e mantenere posizioni di primo piano, e altrettanto di danneggiare i rivali, dando sempre l'impressione di essere estraneo alla propria fortuna e all'altrui disgrazia. Ben raramente venne ritenuto responsabile delle azioni proprie o di quelle di alleati meno prudenti, come il principe di Canosa. Dal 1806 in poi fu l'uomo di fiducia del re e, più propriamente, il principale esponente dell'assolutismo di corte. Purtuttavia raramente poté esercitare il potere secondo le "vedute" sue e del re, data la debolezza del monarca nei confronti delle potenze protettrici (prima la Gran Bretagna e poi l'Austria). Seppe, comunque, adattarsi o meglio mimetizzarsi, pur rimanendo sempre se stesso, donde l'abbaglio di Blanch e di molti altri. Nel periodo siciliano riuscì anche a essere ben accetto ad ambedue i sovrani (dopo la morte di Ferdinando I, Francesco 1 confermerà il D. nella carica di segretario della regina di felice memoria per riconoscimento dei servigi resi al padre!). Dovette frapporre la sua persona tra la regina e il re - che aveva delegato il potere al figlio Francesco nominato vicario - e l'alleato britannico. Anche quando il sovrano fu costretto a licenziare il governo in carica e nominarne uno composto da soli siciliani (312), il D., pur perdendo l'incarico ministeriale, in quanto consigliere di Stato e investito di importanti funzioni a corte mantenne una posizione chiave soprattutto in politica estera.
Maestro nell'arte dell'inganno, riuscì, nel 1814, a persuadere lord W. Bentinck della sincerità dei sentimenti costituzionali e della ferma intenzione di regnare secondo la costituzione di re Ferdinando. L'accettazione, da parte dell'inglese, del D. nell'inverosimile ruolo di garante di sentimenti e intenti costituzionali illustra sufficientemente le doti di mimetizzazione del Di Somma.
Ritornò col suo re a Napoli, nel 1815, naturalmente ministro e segretario di Stato per gli Affari esteri. Istituzionalmente gli competeva un ruolo primario nella compagine governativa, ma la politica ultrareazionaria del partito di corte e la debolezza della posizione del monarca, e del D. stesso portarono ben presto a un intervento moderatore austriaco. Il focoso e incauto interprete di quella politica, il principe di Canosa, dovette essere licenziato. Il D. ne uscì, al solito, indenne. Assunse temporaneamente e solo nominalmente anche il dicastero della Polizia: in effetti non se ne occupò mai. L. de' Medici ebbe la conduzione effettiva della politica governativa. Il D. dispiegò grande energia quando Murat venne catturato a Pizzo. Insieme col ministro britannico a Napoli W. A. Court elaborò il progetto di accantonare d'un solo colpo la costituzione siciliana antica e quella nuova, la spina che più affliggeva il re e il Di Somma. Per legittimare il proprio assenso il governo britannico dovette ingannare deliberatamente il Parlamento. Anche in questa occasione lo si disse succube di A. Court. E succube dell'austriacante ministro britannico lo dirà anche il Maturi (La politica estera), che tra influssi acourtiani e predominanza medicea sembra minimizzare eccessivamente il ruolo del D. nella politica estera del quinquennio. Un nuovo trattato commerciale con la Gran Bretagna diede spunto a rinnovate accuse di anglofilia nei suoi confronti. Ministro degli Esteri di nome e di fatto, rappresentò nel governo la politica reazionaria della corte apparentemente immobile ma pur sempre vigile. Tito Manzi, a Napoli nel 1816, sembra avesse ben compreso il personaggio. Avvisava Mettemich: il fanatismo politico del D. "est égale à son ignorance, qui est au delà de toute expression. Sous ce rapport il est le ministre plus dangéreux du Roi. C'est comme une mèche continuellement allumée àcotè d'un magazin de poudre" (N. Nada, Il Regno di Napoli nell'età della Restaurazione secondo i giudizi di Tito Manzi, in Rass. stor. del Risorgimento, XLVIII [1961], p. 642).
Il concordato del 1818 dovette costituire una eccezione, nei rapporti intraministeriali e col re. Ferdinando I, deciso a concludere, fece appello al Medici, esautorando il D., che "tutto d'un pezzo" non avrebbe mai acconsentito a firmare quel concordato (Maturi, Concordato, p. 122). Fu uno di quei rarissimi esempi di perentorio esercizio dell'autorità regia, di testardaggine e impuntature, così ben descritti dal Metternich. Ciò che importa rilevare, ai fini di una corretta lettura della biografia politica del re e dei suoi uomini, è che molto raramente atti politici del sovrano emanarono dalla sua mente e dalla sua penna: quando necessario egli si limitava a copiare pedissequamente il testo prescelto.
Il 6 luglio 1820, allorché il Consiglio deliberò la concessione della costituzione di Spagna, il D. "si cavò gli occhiali ed estatico disse: di tutto ciò non sapeva niente" e rimase "sorpreso e dispiacciuto di sentirsi dimesso senza suo concorso" (Memorie del duca di Gallo, a cura di B. Moreno, in Arch. storico per le prov. napoletane, XIII [1888], p. 413 n.).
Le vicende che seguirono la concessione della costituzione, fino all'occupazione austriaca, illustrano ampiamente, nella ricca documentazione conservata nell'Archivio Borbone e altrove, la vera tempra del Di Somma. L'"estatico" vegliardo provvide quel giorno stesso, prima o dopo la riunione in questione, a inviare all'estero dispacci in cui comunicava che ogni atto del re era da considerarsi come nullo e non avvenuto perché compiuto sotto costrizione e invocando l'intervento austriaco. Dopo di che il D. provvide ad amministrare il re e la sua paura: a questo raccomandava "di limitare il Suo carteggio allo stato di Sua preziosa salute senza punto parlare della quiete"che ormai regna nel paese: "Il non parlare, né in bene, né in male, accrediterà sempre più presso le Potenze ... che Vostra Maestà è nello stato di pura forza, e che il Suo silenzio maggiormente lo spiega" (Archivio Borbone 212, cc.725v-726r: normalmente il re copiava quanto gli prescriveva il D., ma l'unica lettera "autogestita" non aveva soddisfatto Metternich). Tutta l'attività regia era concentrata nelle mani del Di Somma. Suo tramite col mondo esterno, e mentore, fu il reazionario ambasciatore francese a Roma, duca di Blacas, il quale gli trasmetteva le istruzioni del Metternich. A Napoli i diplomatici stranieri si rivolgevano a lui come portavoce ufficiale del re. Tutte le complesse manovre prima per garantire la sicurezza del re (a partire dalla presenza della flotta britannica) poi quelle, non riuscite, per assicurarne la partenza senza il consenso del Parlamento, lo videro attore principale. Il D. riceveva inoltre in visione dal re tutta la corrispondenza diplomatica del governo costituzionale, che egli provvedeva a comunicare in copia alle potenze ostili.
Ancor prima che le truppe austriache invadessero il Regno, il D. fu nominato da Lubiana capo del governo ed egli poté, ad occupazione avvenuta (marzo 1821), per un breve periodo, governare lo Stato secondo i suoi principi. Invocava per i carbonari l'esempio "più efficace..., quello della morte ... i morti sono quelli che non parlano più, né possono turbare la quiete dei viventi" (Cingari, p. 16). Naturalmente il compito principale della repressione, e la responsabilità per il regime extralegale che venne instaurato in quella felice saga dell'assolutismo, ricadde sul principe di Canosa, sicché quando la protesta alleata si fece perentoria, fu questi a dover fare le valige accompagnato dalle lagrime e dalla solidarietà del re e del Di Somma. Ma era giunta anche la sua ora, e non perché gli ripugnasse presiedere un nuovo governo con elementi moderati quali il Medici e il Tommasi, come reclamavano gli alleati. Dal complesso gioco delle parti il D. uscì perdente. Il re dovette chiamare a sostituirlo il cavaliere Alvaro Ruffo, inetto e servile ambasciatore a Vienna. Il D., nominato, agli inizi di giugno 1822, ministro di Stato e consigliere di Stato incaricato del portafogli degli Esteri, preferì dimettersi piuttosto che accettare l'umiliazione di una retrocessione. Ma il vecchio cortigiano non aveva alcuna intenzione di ritirarsi dalla scena politica: la sua posizione presso il re e nel partito di corte era sempre solida, e solo gli Austriaci potevano impedire il ritorno al potere del bellicoso vegliardo. Ancora dopo la morte di Ferdinando I, Ficquelmont annoverava, tra le forze antiaustriache, i "debris du parti Circello et Canosa, qui n'ont jamais cessé de posseder le fond" della fiducia del defunto sovrano (Moscati, II, p. 254).
Il D. morì "repentinamente" a Napoli il 28 marzo 1826.
Fonti e Bibl.: Per i dati biografici e le onorificenze, utili il necrologio pubblicato dal Giornale del Regno delle Due Sicilie il 10 maggio 1826 (la morte era stata annunziata il 30 marzo) e in sottordine, quelli forniti dal discendente C. Di Somma Circello nelle due opere cui collaborò: Correspondance inédite de Marie-Caroline reine de Naples et de Sicile avec la Marquis de Gallo, a cura di M.-H. Weil-C. Di Somma Circello, Paris 1911, ad Indicem (in vol. I), e C. Di Somma Circello-C. Bandini, Storia di due giornate della Rivoluzione francese (5-6 ott. 1789), Spoleto 1916 (pubblica i dispacci del D.); altre notizie fornite dallo stesso in M.-H. Weil, Joachim Murat ... La dernière année, Paris 1909-1910, V, pp. 495 ss. Ricchissimo il materiale archivistico sfruttato solo in minima parte, soprattutto per i dispacci diplomatici. Si veda per es. Arch. di Stato di Napoli, Archivio Borbone, I, a cura di J. Mazzoleni, Roma 1961, ad Indicem, per l'importante corrispondenza con i reali, con ministri e diplomatici (utilizzata da chi scrive solo per il nonimestre costituzionale e la fase immediatamente successiva) e la corrispondenza ufficiale di A. Court col D. nella British Library a Londra, Heytesbury Papers, Add. Mss. 41526. Uno spoglio sistematico di questo materiale potrebbe rivelare il vero ruolo del D. dietro i vari paraventi che lo nascondevano. Per i rapporti con Maria Carolina, cfr. inoltre E. C. C. Corti, Ich, eine Tochter Maria Theresias..., Muenchen 1950, ad Indicem e docc. pp. 773 s., 784; [J. A.] v. Helfert, Köngin Karolina ... im Kampf gegen die französische Weltherrschaft 1790-1814, Wien 1878, ad Indicem; R. de Damas, Mémoires, a cura di J. Rambaud, Paris 1912-14, I, pp. 386 (ove definisce il D. "un des hommes les moins capables et l'un des plus bornés qui existent"), 390; II, pp. 45, 368, 390. Per l'attività diplomatica: cfr. J. Flammermont, Rapport ... Les correspondances des agents diplomatiques étrangers en France avant la Revolution, in Nouvelles Archives des missions scientifiques et littéraires, VIII (1896), pp. 440 ss., 450 s. (i dispacci del D. sono "de la plus grande importance" sopratutto a partire dal 23 giugno 1789 in quanto tutti i dettagli sono esattissimi, ma egli rimane "à l'extérieur des choses"; segnala la pubblicazione dei dispacci del D. sulla presa della Bastiglia, a cura di M. Pellet, in Le Temps del 7 luglio 1892); Ch. Auriol, La France, l'Angleterre et Naples de 1803 à 1806, Paris 1904-05, I, pp. 653, 665; II, pp. 309 s., 338 s., 360 s., 367, 410, 422, 427 ss., 508, 517, 530, 535-41, 556-81, 588-93, 599-610, 646, 654 ss., 671-76, 683, 742-78, 809; B. Maresca, I due trattati stipulati dalla corte napoletana nel settembre 1805, in Arch. stor. per le prov. napolet., XII (1887), pp. 589-683 passim e docc. pp. 684-698; L. Salemi, I trattati antinapoleonici dell'Inghilterra con le Due Sicilie (1793-1812), Palermo 1937, pp. 22, 72, 87, 96, 103-08, 112 ss., 138 e n., docc. pp. 145 ss., 157-62, 171; e i numerosi studi di G. Nuzzo, Austria e governi d'Italia nel 1794, Roma 1940, ad Indicem; Id., La monarchia delle Due Sicilie tra Ancien Régime e rivoluzione, Napoli 1972, pp. 68, 124 n., 130, 132 s., 147-156, 196 s., 219, 243, 278 n., 289, 389 n., 393 n., 396, 415, 469; Id., L'ascesa di G. Acton al governo dello Stato, in Arch. stor. per le prov. napol., XCVIII (1980), pp. 468, 504-07, 514 n., 518 s., 522, 524; Id., L'ambasciata in Gran Bretagna di un legittimista napoletano [Castelcicala], in Studi in mem. di N. Cortese, Roma 1976, pp. 411-23, 430. Per il periodo siciliano cfr. G. Bianco, La Sicilia durante l'occupazione inglese (1806-1815), Palermo 1902, ad Indicem; J. Rosselli, Lord William Bentinck & The British occupation of Sicily, 1811-1814, Cambridge 1956, ad Indicem; A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Torino 1965, ad Indicem. Per il periodo della Restaurazione: W. Maturi, Il Congresso di Vienna e la Restaurazione dei Borboni a Napoli, in Riv. stor. ital., s. 5, III (1938), 4, pp. 32-72; V (1939), pp. 1-62; Id., La politica estera napoletana dal 1815 al 1820, ibid., pp. 226-72 passim; Id., Il Concordato del 1818 tra la S. Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929, ad Indicem; Diplomatic relations between the United States and the Kingdom of the Two Sicilies..., a cura di M. R. Marraro, I, 1816-1850, New York 1951, pp. 93-164; V. Giura, Russia, Stati Uniti d'America e Regno di Napoli nell'età del Risorgimento, Napoli 1967, ad Indicem (squarci di attività diplomatica del Di Somma). Per il periodo costituzionale cfr. Atti del Parlamento delle Due Sicilie, 1820-21, a cura di A. Alberti, Bologna 1931, ad Indicem. Per l'ultima fase: Il Regno delle Due Sicilie e l'Austria. Documenti..., I-II, a cura di R. Moscati, Napoli 1937, ad Indicem e I, pp. XIX, XXII n., XLII; G. Cingari, Mezzogiorno e Risorgimento. La Restaurazione a Napoli dal 1821 al 1830, Bari 1970, ad Indicem. Per le opinioni dei contemporanei cfr. L. Blanch, Scritti storici, a cura di B. Croce, Bari 1945, I-II, ad Indicem; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, a cura di N. Cortese, Napoli 1957, ad Indicem; W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, ad Indicem; cfr. inoltre A. Simoni, Le origini del Risorgimento politico dell'Italia meridionale, Messina-Roma 1925, I, pp. 343-46, 356-63, 373-76; H. Acton, The Bourbons of Naples (1734-1825), London 1956, ad Indicem.