CELANO, Tommaso di (Thomasius comes Celani, Albe et Molisii, Thomas comes Celanensis, Thomasius de Celano)
Figlio minore del nobile abruzzese Pietro conte di Celano, nacque probabilmente intorno al 1180; la madre, di cui ignoriamo il nome, apparteneva alla famiglia comitale dei Palearia. Nel 1194 (oppure verso il 1201), il C. sposò Giuditta, figlia di Ruggero, ultimo conte normanno di Molise, il quale riuscì a mantenere la propria posizione nei confronti degli invasori tedeschi fino al 1196.
Nel 1210, anno in cui il C. è ricordato per la prima volta, già collaborava attivamente a sostenere la politica del padre. Per suo incarico si recò, probabilmente all'inizio del nov. 1210, insieme al conte Dipoldo di Acerra, dalle parti di Rieti per scortare l'imperatore Ottone IV nel Regno, attraverso la Marsica e la Val di Roveto. In un diploma imperialedel gennaio 1211, emanato a Capua a favore del vescovato di Schwerin, il C. figura come testimone con il titolo di conte di Celano.
Dopo la morte del padre avvenuta nel 1212 e il contemporaneo fallimento della politica siciliana di Ottone IV causato dalla candidatura al trono tedesco di Federico II, il C., insieme col fratello Riccardo, cercò di conservare alla sua famiglia il possesso della Marca d'Ancona, concessa da Ottone nel 1211 al conte Pietro a suggello della loro alleanza. I due fratelli si opposero validamente ad Aldobrandino d'Este investito della Marca da papa Innocenzo III, il quale si vide così costretto a scomunicarli nel maggio del 1214. Forte di questa condanna Aldobrandino d'Este l'anno successivo riuscì a cacciare dalle Marche il Celano.
Neanche dopo la morte di Aldobrandino nello stesso 1215 - provocata, secondo voci che circolavano, addirittura dal veleno propinatogli dal C. -, quest'ultimo riprese la lotta per il possesso della Marca d'Ancona; si preoccupò invece di ampliare la sua signoria nel Molise e nella Marsica. In conseguenza i rapporti con il papa migliorarono: Onorio III nel 1218 chiese due volte il suo intervento, la prima per ottenere la nomina del monaco cassinese Giovanni di San Liberatore ad abate di San Vincenzo al Volturno; la seconda per superare l'opposizione del capitolo di Sant'Eusanio Forconese contro la concessione di un beneficio al nipote di un familiare pontificio.
Tuttavia negli anni che precedettero il ritorno di Federico II nel Regno di Sicilia la politica di consolidamento della signoria creata dal padre, che il C. aveva perseguito con tanto impegno, subì parecchi contraccolpi. Tra i vari motivi furono le controversie esplose tra i figli del conte Pietro.
Il temporaneo condominio nella contea di Celano sembra non aver soddisfatto nessuno dei fratelli. Alla fine il C. riuscì a cacciare il fratello Riccardo dalla contea, ma quest'ultimo, che poté conservare solo Tocco, si rivolse al re come supremo signore feudale. Questa lite all'interno della potente famiglia al confine con lo Stato della Chiesa attirò anche l'attenzione della Curia. Il cardinale Tommaso di Capua ammonì i fratelli a riconciliarsi e si adoperò personalmente a trovare una mediazione. Quando poi, contro le sue aspettative, anche il re fu coinvolto nella controversia, gli propose di accettare le proposte del C. per evitare che egli si ribellasse apertamente. Anche il papa intervenne due volte presso Federico II a favore del Celano.
Tuttavia all'incoronazione imperiale di Federico II nel novembre del 1220 a Roma fu presente, con molti altri conti del Regno, solo Riccardo per portare i suoi doni all'imperatore, per prestargli l'omaggio e per presentargli personalmente le sue lagnanze contro il fratello, il quale, come aveva già annunciato il cardinale Tommaso di Capua, aveva mandato solo un figlio, per chiedere la grazia dell'imperatore e il riconoscimento del suo, cioè della sua posizione giuridica nell'ambito dei feudi della sua famiglia. Ma la missione fallì. Federico II, a quanto pare, decise di contestare al C. i diritti su Celano e Albe.
Infatti, le prime misure prese dall'imperatore dopo il suo ritorno nel Regno fecero vedere chiaramente che egli era deciso ad annullare l'alienazione dei castelli e delle città dominanti le vie di comunicazione nella parte settentrionale del Regno e non era disposto a tollerare le nuove signorie feudali create da nobili famiglie dopo la morte del padre. La decisione di contestare al C. i suoi diritti preparò dunque lo scontro immediato. Concentrando nelle proprie mani le contee di Albe, Celano e Molise e controllando anche la contea di Sangro dominata dal cognato Rainaldo di Anversa, il C. costituiva uno degli ostacoli maggiori alla realizzazione del modello di dominio diretto della monarchia esposto dall'imperatore nel corso della Dieta di Capua e che infatti poté essere attuato pienamente solo dopo la distruzione della signoria del Celano.
Dopo essere stati respinti dall'imperatore il C. e la moglie Giuditta, consapevoli dell'inevitabilità del conflitto, si ritirarono separatamente nei castelli molisani di Roccamandolfi e Rocca di Boiano, per aspettare le mosse successive di Federico II. Questi, all'inizio del 1221, alla testa di un contingente di truppe, si presentò davanti a Boiano: la costrinse alla resa, ma non riuscì ad espugnare il castello dove si era asserragliata Giuditta. Con un attacco di sorpresa contro i baroni molisani passati dalla parte dell'imperatore, il C. poté riconquistare Boiano, bruciare la città, liberare la moglie e condurla sana e salva a Roccamandolfi. Mentre un giustiziere imperiale, Teodino da Pescolanciano, sin dal 1221 era impegnato nel Molise a revocare le infeudazioni, il conte Tommaso di Acerra, maestro giustiziere di Puglia e di Terra di Lavoro, per incarico dell'imperatore mosse contro il C. assediandolo nella sua ultima roccaforte di Roccamandolfi; alla fine del 1221 seguaci del C. resistevano ancora solo nella Marsica, a Torre di Celano e a Ovindoli.
Nel febbraio 1222 Federico II si presentò personalmente davanti a Roccamandolfi, ma i disordini saraceni in Sicilia lo costrinsero dopo breve tempo ad abbandonare il campo, lasciando il comando della guerra contro il C. al conte Tommaso di Acerra. Poco dopo la partenza dell'imperatore, il C. riuscì a fuggire nottetempo da Roccamandolfi. Con l'aiuto del cognato Rainaldo di Anversa raccolse nuove forze e poté costituirsi una nuova base operativa a Ovindoli, da dove riconquistò Celano. L'esercito imperiale impegnato nell'assedio di Torre di Celano fu disperso sotto la violenza degli attacchi del Celano. Con devastazioni e saccheggi il C. dette la dimostrazione del suo potere nella Marsica. Ma questi successi gli procurarono solo breve sollievo. Le truppe imperiali disponibili nel nord del Regno si concentrarono ben presto sotto il comando di Tommaso di Acerra, dell'abate Stefano di Montecassino, e dell'arcivescovo Rainaldo (II) di Capua, deceduto poi nel corso della campagna, e spostarono il teatro della guerra dal Molise alla Marsica, accerchiando il C. a Celano. Giuditta di Molise, che insieme al figlio resisteva ancora a Roccamandolfi, fu costretta alla resa da Tommaso di Acerra. Tuttavia non si prospettava imminente la caduta di Celano, quando Federico II, dopo i colloqui con il papa e i cardinali a Ferentino, nel marzo 1223 tornò nel Regno e si recò personalmente da Sora davanti a Celano. Il suo tentativo di indurre con l'aiuto della contessa Giuditta il C. alla resa fallì, nonostante l'imperatore, preoccupato della persistenza dei disordini in Sicilia, fosse certamente sin da allora disposto a pagare un prezzo politico per la pacificazione della parte settentrionale del Regno. Tuttavia, poco dopo la partenza dell'imperatore, i rappresentanti imperiali, tra i quali anche il gran maestro dell'Ordine teutonico Hermann von Salza, riuscirono, pare anche con l'assistenza della Curia, a trattare nei giorni immediatamente precedenti il 25 apr. 1223 un accordo che fu accettato da ambedue le parti e garantito dal papa e dai cardinali.
L'accordo prevedeva che il C. consegnasse all'imperatore Celano, Serra di Celano, Ovindoli e San Potito, conservando però per sé e i suoi eredi la contea di Molise. Con il conferimento del giustizierato nel territorio della contea, Federico II, il quale tuttavia si riservò il diritto di poter radere al suolo castelli e di conservare per sé fino al ritorno del C. Rocca di Boiano, concesse al C. l'alta giurisdizione con solo pochi limiti. L'accordo non toccava però la questione di una eventuale restituzione delle contee di Albe e di Celano. Anche ai seguaci del C., in particolare al cognato Rainaldo di Anversa, dovevano essere restituiti i feudi e i diritti. Il C. si impegnò a vivere per tre anni in esilio e a partecipare alla prossima spedizione di re Giovanni di Gerusalemme in Terrasanta. Il C. e Rainaldo di Anversa davano ognuno un figlio in ostaggio, che furono affidati alle cure di Hermann von Salza.
Dopo la conclusione dell'accordo il C. fu accompagnato da un cardinale a Roma, insieme con la moglie, i figli e il seguito. Dapprima si trattenne p er un certo tempo in Campagna presso il cognato Giovanni di Ceccano e poi si recò, nell'agosto, a Perugia, ma non in Lombardia o in Toscana come era previsto nel caso che non si fosse realizzata la spedizione in Terrasanta. Dopo la partenza del C. il giustiziere della Magna Curia Enrico di Morra fece distruggere, senza esplicita istruzione dell'imperatore, non solo il castello ma anche la città di Celano. La contessa Giuditta fu reintegrata nei suoi diritti sulla contea di Molise.
Verso la fine del 1223 il C. fu invitato da Enrico di Morra a presentarsi davanti al tribunale della Magna Curia, probabilmente perché il suo soggiorno in Campagna e nello Stato della Chiesa in genere aveva fatto sorgere il sospetto che egli stesse macchinando ancora ai danni dell'imperatore. Ma il C. non ottemperò all'invito, offrendo così a Federico II il pretesto per revocare alla Corona la contea di Molise e per incarcerare gli ostaggi, tra i quali un figlio del Celano.
Benché sin dal 1226 Onorio III prima e Gregorio IX poi rimproverassero più volte a Federico II la violazione dell'accordo del 1223 - fu addirittura uno dei punti con cui Gregorio IX giustificò la scomunica dell'imperatore nel 1227 e la condanna della sua politica successiva -, i papi non riuscirono ad indurre l'imperatore a venire ad un accordo con il Celano. Questi continuò dunque a vivere, come uno degli esponenti più in vista dell'opposizione nobiliare siciliana, nella parte meridionale dello Stato della Chiesa o a Roma, pronto a riprendere la lotta appena si fosse offerta l'occasione. Quando Gregorio IX nel novembre 1228 si accinse a contrastare gli attacchi di Rainaldo di Spoleto contro lo Stato della Chiesa, il C., su richiesta del papa, raccolse un esercito di 500 cavalieri nella Campagna meridionale. In occasione dell'invasione del Regno da parte delle truppe pontificie, il C., insieme ad un altro esule, il conte di Fondi Ruggero d'Aquila, comandò il contingente che sotto la guida del legato pontificio Pandolfo d'Anagni, il 15 gennaio, via Ceprano, penetrò in Terra di Lavoro e con una vittoria inaspettata davanti a Montecassino dette un colpo decisivo alle posizioni difensive del giustiziere della Magna Curia Enrico di Morra. Ma quando nel settembre 1229 Federico II, di ritorno dalla Terrasanta, si presentò davanti a Capua, il C., insieme con il re Giovanni di Brionne e il legato Pelagio d'Albano si ritirò nello Stato della Chiesa passando da Alife e Teano. Nulla comunque si sa del ruolo personale del C. durante questa campagna, ma è molto probabile che per breve tempo abbia esercitato di nuovo i suoi diritti nella contea di Molise.Durante le trattative di pace di San Germano e di Ceprano Gregorio IX chiese di dare nuova validità all'accordo del 1223 a favore del C., ma incontrò la più tenace resistenza dell'imperatore, cosicché egli si vide indotto a ripetere esplicitamente la richiesta, quando il 28 agosto 1230, da Anagni, fece personalmente le sue congratulazioni a Federico II per la pace conclusa. Mentre al conte Ruggero di Fondi nei mesi successivi fu restituita la sua contea, l'imperatore, nonostante gli appelli pontifici, rifiutò di riammettere il C. nei suoi diritti, anche se non sappiamo quali fossero precisamente le argomentazioni giuridiche che gli permettevano di sostenere questa posizione anche nei confronti del papa. Il C., che doveva dunque accingersi ad un esilio più lungo del previsto, negli anni successivi acquistò beni ad Alatri, un indizio che egli anche ora soggiornava prevalentemente nella Campagna meridionale.
Quando Federico II, scomunicato nuovamente da Gregorio IX, fece occupare nel 1240 lo Stato della Chiesa, il C. nel giugno assunse il comando di una schiera di 200 cavalieri messa insieme dal papa, per soccorrere gli Spoletini nella lotta contro le truppe imperiali. Ma già prima che la città si sottomettesse all'imperatore nel giugno del 1241 il C. era tornato a Roma. Nel maggio 1241 era presente, nella chiesa di S. Clemente, a un'udienza del cardinale Raniero Capocci.
Dopo la deposizione di Federico II, il pontefice Innocenzo IV nel luglio dell'anno 1247 rinnovò al C., alla moglie Giuditta e al figlio Ruggero il beneficio della particolare protezione apostolica e restituì loro anche i feudi e i possedimenti perduti. Ma solo dopo la morte dell'imperatore fu possibile al C. rivedere ancora una volta i propri feudi. Anche se mancano notizie dirette locali a proposito, la deposizione di un testimone nel 1276 ci informa che il C. nel 1251, nei mesi precedenti l'arrivo di re Corrado alla fine di quell'anno, cercò di impadronirsi del castello di Ocre nella contea di Albe, riuscendo infatti a cacciarne Gualtieri di Ocre, che più tardi divenne cancelliere di Corrado IV e di Manfredi.
Il C. morì tra il 1251 e il 1254. La moglie Giuditta è ricordata l'ultima volta nel 1247.
Dopo il ritorno di Federico II nel Regno di Sicilia, il C. fu l'esponente dell'alta nobiltà che più di ogni altro si rese conto della minaccia mortale per le proprie posizioni di potere costituita dal nuovo programma politico dell'imperatore e che trasformò questa consapevolezza in un'opposizione radicale. Benché indebolito dalle discordie familiari, accettò la sfida lanciatagli resistendo per molti anni eroicamente alla monarchia sempre più forte. Visto che ogni forma di sottomissione equivaleva ad una totale rinuncia alla sua posizione, fu anche disposto ad accettare un esilio che sarebbe durato quasi trent'anni. Il suo ritorno nel 1251 dimostra infatti che egli non aveva mai rinunciato all'eredità e all'autonomia politica creata dal padre Pietro.
Dei figli, Ruggero ereditò le contee di Albe, Celano e Molise, nelle quali governò per breve tempo nel periodo tra la morte di Corrado IV nel 1254 e la restaurazione della dominazione sveva nelle parti settentrionali del Regno ad opera di Manfredi. Con Carlo I d'Angiò tornò nei suoi feudi, ma nel gennaio 1270 dovette restituire definitivamente al re Molise e Albe, venendo contemporaneamente infeudato della contea di Celano che tenne fino alla sua morte avvenuta nel 1282. Un altro figlio del C. di nome Rao era fidanzato con una nobile di Alatri; ma la validità del fidanzamento fu contestata nel gennaio del 1251 dal vescovo di Alatri.
Di Riccardo, fratello del C., si hanno notizie solo per il periodo compreso negli anni tra il 1212 e 1220. Fu erede del padre nella contea di Celano, che tuttavia dovette dividere a quanto sembra con il C., e nella signoria di Tocco Caudio. Combatté inizialmente con il fratello per il possesso della Marca d'Ancona, per cui fu scomunicato dal papa nel 1214, ma ben presto la questione dell'eredità di Celano dovette dividere i due fratelli. Dopo essere stato cacciato dal C. da Celano, si rivolse direttamente a Federico II in occasione della sua incoronazione imperiale a Roma nel novembre del 1220 e ottenne con doni e la sottomissione spontanea la grazia dell'imperatore. Non si sa tuttavia se Federico II gli restituisse i suoi diritti comitali, visto che dopo il 1220 non si hanno più sue notizie.
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