DE VIO, Tommaso (Tommaso Gaetano, Caetano)
Nacque intorno al 20 febbr. 1469 a Gaeta (prov. di Latina), quarto e ultimo figlio di Francesco e Isabella de Sieri. Al battesimo ricevette il nome di Giacomo. Nel 1484 entrò nel convento domenicano di Gaeta, che apparteneva alla congregazione lombarda, dove assunse il nome di Tommaso. Dopo una breve permanenza a Napoli, per motivi di studio, l'8 apr. 1485 venne avviato al monastero di Bologna, dove figura nel 1488 come studens artium. Il 4 dicembre dello stesso anno gli venne concesso di tornare al monastero di Gaeta per trascorrervi il periodo di convalescenza da una malattia. Al compimento del ventiduesimo anno d'età venne ordinato sacerdote e il 24 maggio 1491 si iscrisse nel registro di studio di S. Agostino a Padova, nello Studio generale della provincia lombarda. A Padova venne quindi assunto come lector artium e nel 1492 nominato magister studentium pro tertio anno grazie ad una delibera del capitolo generale di Como. Il 21 genn. 1493 gli venne affidato, sempre a S. Agostino, in qualità di baccalaureus, il compito ad legendum sententias pro gradu et forma magistri pro tertio anno Padue.
In concomitanza con questa attività di insegnamento egli scrisse il suo commento alle Sententiae (Parigi, Bibl. nationale, ms. Lat. 3076). Il 19 marzo 1493 venne accolto all'interno dell'università come baccalaureato, su indicazione della facoltà di teologia, e ottenne una dispensa super dilatione temporis in cursu lecturae (G. Brotto-G. Zonta, La facoltà teologica dell'università di Padova, I, Padova 1922, p. 198). Dopo una brillante discussione con Pico della Mirandola, tenuta di fronte a un pubblico particolarmente rappresentativo durante il capitolo generale a Ferrara (Pentecoste 1494), Tommaso Gaetano, come risulta sempre più spesso chiamato nei documenti, ottenne il titolo di magister theologiae.
Nell'anno di corso 1494-95 il D. tenne la cattedra di metafisica che prima di lui aveva occupato il suo maestro Valentino da Perugia, il quale aveva ricevuto una nuova carica all'interno dell'Ordine. Come teologo domenicano, continuatore della tradizione tomistica, il D. si trovava a dover affrontare due avversari: da una parte la metafisica scotistica sostenuta dal francescano Antonio Trombetta, che dal 1469 insegnava con successo a Padova; dall'altra la tradizione averroista, sostenuta da Nicoletto Vernia. Il confronto con queste due correnti influenzò anche in seguito sensibilmente il pensiero filosofico del D. ed ebbe come risultato un intenso studio della filosofia aristotelica, testimoniato dai commenti degli anni seguenti, come pure il tentativo di risistematizzare il pensiero di s. Tommaso ricorrendo al dettato Aristotele. Il risultato dell'insegnamento di metafisica a Padova è il commento Inlibrum de ente et essentia D. Thomae Aquinatis, stampato a Venezia nel 1496 e poi di nuovo, in un'edizione riveduta e migliorata, a Pavia nel 1498.
All'attività di docente a Padova, dove il 7 ott. 1494 il D. assunse anche la responsabilità di regens studentium a S. Agostino, seguirono, dal 1495, due anni di viaggi. Sappiamo da testimonianze certe che egli fu a Verona, Bressanone, Bergamo, Brescia e Mantova. Questi viaggi non segnarono tuttavia una pausa nel suo lavoro filosofico. I commenti In reliquum libri secundi (lect. 3-14) peri hermeneias e In libros Posteriorum Analyticorum Aristotelicos additamenta sono proprio di questi anni. Su iniziativa di Ludovico il Moro il D. insegnò teologia a Pavia tra il 1497 e il 1499. La protezione di Ludovico è testimoniata anche dal suo interessamento per una migliore ospitalità da offrire al professore. Al D. venne chiesto espressamente, come professore di teologia, di interpretare testi di s. Tommaso. È qui che egli cominciò a lavorare alla sua opera più famosa, il commento alla Summa theologiae di s. Tommaso, il cui primo tomo apparve a Venezia nel 1508. Tuttavia egli continuò ad approfondire l'esame della filosofia di Aristotele, che restò per lui sempre in primo piano. I commenti In Isagogen Porphyrii, In Predicamenta Aristotelis, De nominum analogia, come pure il breve opuscolo De infinitate primi motoris, furono scritti in questo periodo. I primi biografi ricordano la composizione di altri commenti che tuttavia non sono apparsi in stampa né sono stati ritrovati tra i manoscritti.
Alla fine del 1499 il D. si stabilì nel monastero di S. Maria delle Grazie a Milano. Qui egli si occupò in primo luogo di problemi di etica sociale ed economica, come mostrano le Quaestiones che verranno in seguito pubblicate tra gli Opuscula. Tuttavia solo un trattato filosofico De subiecto naturalis philosophiae fu portato a termine a Milano. I commenti In primam partem Summae d. Thomae Aquinatis e In tres libros Aristotelis de anima vennero completati solo molto più tardi a Roma nel 1507 o addirittura nel 1509.
Il 1º giugno 1501 il D. fu chiamato da V. Bandelli ad occupare la carica di procuratore dell'Ordine presso la Curia al posto del fiorentino Francesco Mei, morto il 28 nov. 1500. Questo incarico era stato sollecitato dal cardinale protettore dell'Ordine, Oliviero Carafa, che nel maggio 1501 ne aveva imposto la designazione al capitolo generale, da lui stesso presieduto. In qualità di procuratore dell'Ordine il D. doveva tra l'altro predicare la prima domenica di quaresima e la prima d'avvento durante la messa a S. Pietro o nella cappella Sistina. Conosciamo cinque di queste prediche, tenute davanti ad Alessandro VI e Giulio II, pubblicate più tardi negli Opuscula. In questo periodo il D. ricevette vari quesiti da circoli dell'Ordine, ma anche dalla Curia papale, alle quali rispose sotto forma di Quaestiones, parte delle quali sono conservate negli Opuscula. La sua produzione filosofica e teologica dovette tuttavia cedere, nonostante la chiamata alla Sapienza come professore di filosofia e teologia testimoniataci dai biografi più tardi, davanti ai suoi compiti all'interno dell'Ordine. Nel frattempo, nel 1507 egli concluse il suo commento In primam partem Summae theologiae, che apparve a Venezia nel 1508.
Nel 1505 aveva pubblicato, insieme con una nuova edizione del De ente et essentia, quattro dei suoi commenti aristotelici scritti in precedenza e il trattato De nominum analogia (1498). Un certo numero di Responsiones et quaestiones vennero pubblicate per la prima volta nel 1506 a Venezia. Questa sua collezione di Tractatus, Quaestiones e Orationes, meglio nota col titolo di Opuscula, verrà ripubblicata più volte durante la sua vita e ogni volta con aggiunte.
Sempre grazie alla protezione del cardinale Carafa, il 20 ag. 1507 il D. fu nominato vicario generale dell'Ordine succedendo a Jean Clérée, che aveva occupato il posto del magister solo per breve tempo. Il 1º sett. 1507 assunse la direzione degli affari dell'Ordine (cfr. la pubblicazione del Register literarum del De Meyer [1935] per gli anni 1507-13;non possediamo invece il registro per gli anni successivi). La sua nomina a vicario generale fu resa nota insieme con la convocazione del capitolo generale indetto per la Pentecoste del 1508 a Roma. Il 10 giugno 1508 il D. venne eletto magister generalis. Grazie ancora all'aiuto del cardinale protettore furono superate le difficoltà causate da opposizioni interne all'Ordine stesso e delle quali danno notizia i primi biografi. Le dediche dei commenti alle Summae, degli Opuscula e del suo commento al De anima (Venezia 1510) sono una testimonianza della gratitudine del D. verso il protettore.
Nell'assumere la guida dell'Ordine, egli si poneva tre obiettivi essenziali: sostenere gli studi, la vita communis e la coesione interna dell'Ordine. Le sue disposizioni e i suoi criteri nel concedere dispense erano subordinati a questi scopi. Nella politica interna all'Ordine la riforma non era fine a se stessa, ma veniva sostenuta nella misura in cui poteva portare giovamento agli obiettivi primari del De Vio. Egli era disposto a concedere dispense generose a sostegno degli studi, ma subordinava l'assegnazione dei titoli al conseguimento di un livello di conoscenze teologiche sempre più alto ed era pronto addirittura ad annullare tali titoli qualora fossero stati ottenuti in modo irregolare. Sullo stesso piano degli studi si svolgeva la vita communis, che implicava la rinuncia alla proprietà privata a vantaggio del convento: in tal modo il religioso, sollevato dalle preoccupazioni materiali, avrebbe potuto dedicarsi maggiormente allo studio e all'attività scientifica.
Il problema della coesione interna era molto sentito nell'Ordine a causa della consueta divisione tra conventuali e congregazioni riformate. Il D. sosteneva, sia pure con cautela, la corrente riformatrice dell'Ordine, poiché questa era la più disponibile per il raggiungimento dei suoi scopi. Il suo appoggio si arrestava naturalmente di fronte all'insorgere di rischi per l'unità dell'Ordine nel suo complesso. In questi frangenti tuttavia egli riusciva a moderare in modo notevole i vicari dell'Ordine. Una potenziale causa di divisione era fornita soprattutto dai visionari, che pretendevano di avere particolari rivelazioni e che avevano dalla loro un certo numero di sostenitori. Il partito dei piagnoni, accesi seguaci del Savonarola, e quello degli arrabbiati ne erano solo l'esempio più noto. Quando questo potenziale disgregatore, legato alla presunta legittimità della visione stessa, non poteva essere messo da parte, come nel caso della suora terziaria spagnola Maria de Santo Domingo, il D. cercava quanto meno di neutralizzarne gli effetti con una rigorosa politica di trasferimenti e sostituzioni. A conservare l'unità dell'Ordine miravano anche i suoi sforzi per aumentare l'autorità del suo governo interno. Quando lo riteneva indispensabile egli si richiamava a bolle e brevi papali. Non voleva però un centralismo rigido. Era disposto a delegare le responsabilità, non solo, ma la sua vigilante presenza favoriva la scelta di abili provinciali. Il suo grande progetto, la creazione di un corpus unitario di regole dell'Ordine fondato su un largo consenso e ottenuto attraverso la semplificazione, la sistematizzazione e l'adattamento delle regole in relazione alle esigenze del tempo, non poteva ormai più essere portato a termine. Tuttavia l'impegno esercitato all'inizio della sua guida dell'Ordine nell'eliminare molti ordinamenti sfuggiti al Bandelli, che aveva occupato quella carica con un eccessivo slancio di euforia per la riforma, servì comunque a una maggiore trasparenza dell'amministrazione.
Oltre alla grande responsabilità della guida dell'Ordine il D. nel 1511 si vide inserito in posizioni sempre più di primo piano nella politica della Chiesa. Il 16 maggio cinque cardinali indissero un concilio a Pisa per il 1º settembre. Questa dichiarazione, proveniente da Milano, e alle cui spalle erano il re di Francia e l'imperatore, colse di sorpresa Giulio II a Ravenna. Il papa tornò in fretta a Roma e il 19 settembre indisse un concilio in Laterano per il 19 aprile dell'anno seguente. Il 6 sett. 1511 il D. inviò una lettera circolare nella quale vietava ai confratelli di partecipare al concilio di Pisa, come pure di dare appoggio all'iniziativa. Egli inoltre inviò subito numerosi domenicani nel convento di S. Caterina di Pisa per mobilitare l'opposizione al concilio. Il trattato Auctoritas papae et conciliisive Ecclesiae comparata, terminato nell'ottobre, nel quale si confutavano con argomenti teologici le tesi dei conciliaristi, poté essere pubblicato a Roma già il mese seguente. Il concilio, trasferitosi da Pisa a Milano, mandò lo scritto del D. all'università di Parigi per ottenere una condanna che era favorita esplicitamente dallo stesso re di Francia. All'inizio del 1512 apparve nella capitale francese uno scritto polemico di J. Almain: Libellus de auctoritateEcclesiae seu sacrorumconciliorum eamrepraesentantium, al quale il D. replicò nello stesso anno con la sua Apologia tractatus decomparata auctoritate papae et concilii (edita a Roma nel 1512 e a Colonia nel 1514).
Nel frattempo, il 3 maggio 1512, sia pure con qualche ritardo, si apriva il concilio in Laterano. Il 16 maggio, all'inizio della seconda seduta, il D. tenne un discorso nel quale accompagnò all'espressione delle posizioni della Curia un appello per una sostanziale riforma della Chiesa (il discorso fu pubblicato a Roma nello stesso anno e quindi inserito tra gli Opuscula). Come generale dell'Ordine e portavoce di principi stranieri (una delegazione del duca Giorgio di Sassonia gli aveva affidato, il 19 febbr. 1513, il compito di rappresentarlo al concilio) e soprattutto come esperto nei lavori delle commissioni, il D. fu spesso chiamato in causa attivamente nel concilio. La morte di Giulio II (20/121 febbr. 1513) e l'elezione di Giovanni de' Medici (Leone X) non provocarono sostanziali cambiamenti.
Sappiamo di almeno due casi di conflitto con la maggioranza del concilio: il D., in collaborazione con il generale agostiniano Egidio da Viterbo, tentò di bloccare una proposta del concilio che avrebbe potuto mettere in pericolo l'indipendenza dell'Ordine, ma non poté reagire se non con un non placet al decreto dell'ottava seduta Apostolici regiminis (19dic. 1513), che non solo condannava le teorie averroiste sull'anima umana, ma voleva addirittura obbligare i professori di filosofia ad accettare le posizioni definite dalla Chiesa. Nella seduta del 16 marzo 1517, con cui si chiuse il concilio, venne approvata la proposta di una nuova crociata contro i Turchi: il D. entrò a far parte di una commissione composta di otto membri. Non abbiano notizia di un particolare impegno durante le prediche e le processioni per la crociata cominciate nel marzo 1518: egli dovette assumere però ripetutamente incarichi diplomatici come legato della Curia nell'ambito del progetto.
Nonostante i numerosi incarichi che gli vennero affidati durante il generalato, il D. riuscì a portare avanti il suo lavoro di commento alla Summa. Il 29 dic. 1511 terminava il commento In primam partem secundae, pubblicato a Venezia nel 1514, e il 26 febbr. 1517 il commento In secundam partem secundae, pubblicato sempre a Venezia nel 1518.
Pochi mesi dopo la chiusura del quinto concilio laterano, il 1º luglio 1517, il D. fu eletto cardinale.
Questa nomina, insieme con altre trentuno, fu un evento di grande significato, poiché il S. Collegio, in seguito al tentato omicidio per avvelenamento del cardinale Alfonso Petrucci (in cui erano coinvolti altri quattro cardinali), aveva raggiunto il livello più basso del suo prestigio. La chiamata di un teologo di assoluta integrità come il generale domenicano (e questo discorso valeva anche per il generale degli agostiniani Egidio da Viterbo, nominato cardinale insieme con il D.) serviva a risollevare la reputazione del massimo Collegio ecclesiastico.
Nello stesso tempo fu proposta una proroga del generalato del D. fino al successivo capitolo generale. Il 6 luglio gli fu conferito il titolo della chiesa di S. Sisto; egli continuò tuttavia ad essere ancora indicato spesso come cardinale della Minerva. Il 26 settembre gli venne confermata da Viterbo l'autorizzazione, concessagli dal papa prima della sua partenza da Roma, ad occupare il palazzo della chiesa di S. Maria in via Lata, la domus Faciana.
Nel concistoro dell'8 febbr. 1518 gli fu affidata l'amministrazione dell'arcidiocesi di Palermo, rimasta vacante dopo la morte di Francesco Ramolino; lo stesso giorno seguì la nomina ufficiale. Il 26 apr. 1518 il D. fu chiamato a sostituire il cardinale A. Farnese (il futuro Paolo III) come legato della S. Sede presso l'imperatore Massimiliano e Cristiano II di Danimarca. Il 5 maggio il cardinale, munito dell'istruzione del 28 marzo che era stata pensata per il Farnese, lasciò Roma. Prima della partenza era stato autorizzato da Leone X a farsi sostituire da un vicario alla guida dell'Ordine fino al prossimo capitolo generale. Il 7 luglio il D. venne accolto dall'imperatore ad Augusta. Il 1º agosto, nel corso di una splendida cerimonia, fu concesso il cappello cardinalizio al principe elettore e arcivescovo di Magonza Alberto di Brandeburgo, e nello stesso giorno vennero consegnati all'imperatore la spada benedetta e l'elmo, simboli del suo ruolo di guida nella guerra santa contro i Turchi. Il 5 agosto il D., davanti alla Dieta, tenne un discorso volto a guadagnare l'appoggio dei principi tedeschi al progetto di crociata del papa.
Le lunghe discussioni, durate tutto agosto e la prima metà di settembre, non bastarono a raggiungere il risultato auspicato e il 20 settembre, alla chiusura della Dieta, il D. dovette accontentarsi di una risposta che rimandava tutto alla Dieta seguente.
Durante i dibattiti della Dieta, il D. si trovò ad affrontare la questione dell'eremitano agostiniano Lutero. Il 7 agosto Lutero aveva ricevuto a Wittenberg la citazione di recarsi a Roma. Nei contatti tra il principe elettore Federico di Sassonia, di cui Lutero era suddito, ed il legato venne stabilito che il D. si interessasse per far procedere la causa giacente a Roma fin dall'inizio dell'anno. Due scritti del papa del 23 agosto e dell'11 settembre lo autorizzarono ad occuparsi con piena autonomia del problema Lutero. Il D. aveva promesso al principe elettore un trattamento "paterno e non accusatorio" ("paterne non iudicialiter"). La generosa disponibilità di Roma e del suo legato va vista in relazione al grande peso politico del principe di Sassonia sia per il contributo finanziario dell'Impero nell'impresa contro i Turchi, sia per la successione imperiale, che era già stata discussa nella Dieta di Augusta. Il D. si era preparato intensamente all'incontro con Lutero fin dalla chiusura della Dieta, come testimoniano le numerose Quaestiones nelle quali prendeva in esame e criticava le opinioni di Lutero (anche queste pubblicate poi negli Opuscula).
L'incontro avvenne in tre giornate consecutive (12-14 ottobre) ad Augusta. La premessa per un accomodamento della questione era una ritrattazione almeno parziale, per la quale il D. si limitò a due punti, che condensavano verità irrinunciabili per la Chiesa di Roma: la dottrina del thesaurus Ecclesiae e quella relativa al valore dei sacramenti indipendente dalle disposizioni di chi li riceve. Sotto il profilo teologico l'incontro fallì, dato che Lutero vedeva nel D. solo l'avversario tomista e non il plenipotenziario della Chiesa; dal punto di vista diplomatico fu pure uno scacco: Lutero infatti, appoggiato ad Augusta da un'influente cerchia di umanisti e da importanti consiglieri presso la corte di Sassonia, poteva permettersi di rifiutare un atto di obbedienza al legato papale.
Ulteriori tentativi del D. per superare il conflitto, fatti mediante pressioni sul principe elettore (lettera a Federico del 27 ottobre ed evasiva risposta del principe della metà di dicembre), vennero del tutto bloccati dall'acuta crisi di successione al vertice dell'Impero apertasi dopo la morte di Massimiliano (12 genn. 1519).
Il principe di Sassonia era, insieme al principe di Brandeburgo, il candidato ideale all'Impero, o quanto meno la sua parola poteva influire su una candidatura francese. In ogni caso bisognava evitare l'elezione del re di Spagna Carlo per salvaguardare lo spazio diplomatico della Curia in Italia e l'equilibrio delle forze in Europa, premesse indispensabili per mantenere la pace in Occidente e deviare il potenziale bellico europeo contro i Turchi.
Nonostante i numerosi tentativi francesi di togliere l'incarico al D., venne affidata a lui la massima responsabilità nel difendere gli interessi della Curia durante i preparativi per la scelta dell'imperatore (brevi del 23 gennaio e del 12 febbr. 1519). D'altra parte Roma aggiunse al piccolo gruppo della Curia, formato dal D., dal nunzio Marino Ascanio Caracciolo e da C. Miltiz, inviato per un atto dimostrativo al principe di Sassonia (per la consegna della Rosa benedetta il 3 sett. 1518), Roberto Latino Orsini, arcivescovo di Reggio, ritenuto esplicitamente filo-francese. Ma, né il discorso tenuto a Oberwesel il 31 marzo 1519 davanti ai tre principi elettori ecclesiastici e al principe elettore del Palatinato, né le iniziative che partirono da Coblenza nei mesi di aprile e maggio a favore del candidato francese, permisero di assicurare gli interessi del papa. Nella prima metà di giugno Roma rinunciò definitivamente ad opporsi all'elezione di Carlo di Spagna. Il 24 giugno questa decisione venne comunicata agli elettori che ratificarono l'elezione di Carlo il 28. Il 5 settembre il D., di ritorno dalla sua missione di legato in Germania, venne accolto in concistoro da Leone X.
La mutazione avvenuta nel panorama politico dopo l'elezione di Carlo V ebbe immediate conseguenze per il De Vio. Sotto le pressioni spagnole, il papa si vide costretto a proporgli le dimissioni dall'arcivescovato. Queste vennero accettate il 19 dicembre, ma già il 13 aprile gli era stata assegnata la diocesi della sua città natale. La nomina del candidato spagnolo all'arcidiocesi di Palermo, Jean Carandolet, consigliere presso la reggente dei Paesi Bassi Margherita, venne accompagnata da una pensione di 1.500 ducati a favore del D., il cui pagamento regolare non si sarebbe tuttavia realizzato, come quello della pensione di 1.000 ducati sulle entrate del vescovato di Plock (affidatagli il 26 sett. 1522 e confermata il 26 nov. 1523).
Il papa Leone X dispensò il D. dalla partecipazione ai concistori, eccettuati quelli di maggiore importanza. D'ora in poi il pensiero teologico del D. si arricchì dell'esegesi biblica. Questo nuovo orientamento era stato favorito anche dall'incontro con Lutero. Il trattato in cui esaminava la critica di Lutero al primato papale, De divina institutione pontificatus Romani pontificis super totam Ecclesiam a Christo in Petro (Romae-Mediolani-Coloniae 1521), fu il primo risultato rappresentativo del suo lavoro teologico, sempre più improntato all'esegesi. Già nel suo commento alla Pars tertia della Summa theologiae, comprensivo delle Quaestiones complementari, finito il 19 dic. 1520 e pubblicato a Venezia nel 1523, egli tenne maggior conto dei dati dell'esegesi.
Fin dall'inizio del 1520 riprese il processo contro Lutero, questa volta all'interno dello stesso concistoro. Il D. operò in diverse commissioni, che avevano il compito di raccogliere le affermazioni eretiche presenti nei suoi scritti. Tuttavia il suo tentativo di far incriminare solo le affermazioni palesemente eretiche, contro una tendenza radicale che non lasciava spazio a differenziazioni, non riuscì ad imporsi. Il fautore delle posizioni oltranzistiche era Johannes Eck, chiamato a consulto da Ingolstadt. In quattro concistori, dal 20 maggio al 1º giugno, si decise una volta per tutte sul problema di Lutero. Anche in quest'occasione il D. che, a causa di una malattia, poté partecipare solo a due sedute, non riuscì a far passare la sua proposta di una censura differenziata. Un anno dopo, tuttavia, egli poté finalmente esprimere chiaramente le proprie idee. Invitato da Leone X a esporre le ragioni teologiche della condanna di Lutero - un sintomo del fatto che negli ambienti romani questa condanna era stata oggetto di critiche - il D. colse l'occasione per scegliere solo cinque delle quarantuno frasi condannate nella bolla Exsurge Domine per mostrarne gli evidenti caratteri di eresia. Il trattato verrà in seguito inserito tra gli Opuscula.
Nel conclave che seguì alla morte di Leone X, il 1º dic. 1521, si poté imporre l'elezione del cardinale Adriano di Utrecht, vescovo di Tortosa, sostenuta dal De Vio. Il neoeletto, che aveva preso il nome di Adriano VI, entrò a Roma solo otto mesi dopo la sua elezione, il 9 genn. 1523. Nel nuovo clima che si respirava nella città il D. ebbe diverse opportunità di formulare le sue proposte di riforma. L'8 maggio 1523 Adriano VI lo nominò legato presso Luigi II re di Ungheria e Boemia, per ottenere un'azione militare concentrata contro i Turchi. Il 1º luglio 1523 il legato, fornito di sussidi, lasciò Roma. Dalla biografia del suo segretario G. B. Flavio veniamo a sapere che a sostenere presso il papa la sua nomina a legato erano stati probabilmente gli oppositori delle sue idee di riforma, i quali desideravano tenerlo lontano da Roma. Durante le trattative con la Polonia, l'Ungheria e l'Austria, tenute a Wiener Neustadt, a proposito di una spedizione contro i Turchi per la primavera seguente, il D. ricevette (si era ormai nell'ottobre 1523) la notizia della morte di Adriano, avvenuta il 14 settembre. La morte del papa toglieva ogni legittimazione alla sua missione. Solo il 18 genn. 1524 il nuovo pontefice Clemente VII, Giulio de' Medici, eletto il 18 novembre, rese nota la sua decisione di richiamare a Roma il legato. A giugno troviamo il D. ancora in Ungheria e solo il 26 dello stesso mese Clemente VII gli consentì di tornare a Gaeta senza passare per Roma, per evitare il caldo e la peste. Sappiamo poi che il D. fu a Roma nell'autunno di quello stesso anno.
Il frutto letterario della sua legazione sono due libri che ebbero grande diffusione nel XVI secolo: la Summula peccatorum, un manualetto in ordine alfabetico per i confessori, e gli Ientacula Novi Testamenti literalis expositio, che spiegano sessantaquattro passi scelti del NuovoTestamento, una sorta di primi "elementi" di esegesi.
Il D. dedicò gli anni seguenti esclusivamente a tradurre e commentare quasi tutti i libri dell'Antico e Nuovo Testamento. Quest'opera esegetica si apre con un commento ai Salmi, finito nel 1527 e pubblicato nel 1530 a Roma e Venezia. Nel maggio del 1527 il D. visse in pieno l'esperienza terribile del sacco di Roma. Venne preso prigioniero e dovette versare 5.000 ducati per riscattare se stesso, i suoi fedeli e un gran numero di fuggiaschi. In giugno ritornò nella diocesi di Gaeta. Una serie di disposizioni papali gli facilitò il lavoro organizzativo, migliorò le sue entrate e lo dispensò dai tributi, consentendogli un più facile rimborso del denaro preso in prestito. Da questi ordini del papa veniamo a sapere che il 30 giugno 1527 gli era stato affidato il monastero di S. Giovanni di Piro, nella diocesi di Policastro, e che aveva assunto l'ufficio di governatore di Sezze. Durante il suo soggiorno a Gaeta, fino all'autunno 1529, il D. portò a termine il commento a tutti i libri del Nuovo Testamento, eccettol'Apocalisse, che non commentò poiché non se ne poteva ricavare un'interpretazione letterale. All'inizio dell'ottobre 1529 era di nuovo a Roma. I suoi commenti al Nuovo Testamento erano pronti per la stampa già nei due anni seguenti, a Venezia. Contemporaneamente egli intraprese l'opera di commento ai libri dell'Antico Testamento, eccetto il Cantico dei cantici per gli stessi motivi che lo avevano indotto a tralasciare l'Apocalisse.
La morte lo colpì proprio mentre stava cominciando a lavorare ai libri dei Profeti. Lo scopo del suo lavoro esegetico era quello di tirar fuori dal testo l'interpretazione letterale. In un'ottica critica nei confronti dei riformatori - ma anche verso i Padri - egli faceva notare che solo il senso letterale può legittimare la dottrina della Chiesa. Per questo motivo chiese l'aiuto di studiosi ebrei per il commento dei libri veterotestamentari. Se le interpretazioni metaforiche, figurate o per tropi, possono essere utili ad arricchire l'edificazione spirituale, esse non danno tuttavia una base solida e affidabile alla dottrina. Il suo esame imparziale del patrimonio esegetico gli provocò critiche non indifferenti anche all'interno dell'Ordine.
Clemente VII chiese più volte al D. pareri di carattere teologico. La sua critica alla dottrina eucaristica di Zwingli - De erroribus contingentibus in Eucharistiae sacramento (1525) - fu scritta come istruzione per il nunzio. Chiamato a dare un giudizio sulla richiesta di separazione di Enrico VIII d'Inghilterra egli rispose con il De coniugio regis Angliae cum relicta fratris sui (1530) per poi ribadire ulteriormente la sua posizione in una lettera aperta scritta quattro anni dopo. In occasione dei tentativi di accordo con i protestanti da tenersi alla Dieta di Augusta del 1530 egli presentò un documento in cui venivano proposte concessioni tali da non toccare la sostanza della fede cristiana. Le affermazioni dottrinali presentate dai protestanti ad Augusta (Confessio Augustana) e l'apologia scritta da Melantone (1531) furono per lui una nuova occasione di confronto con i punti fondamentali della critica e della dottrina protestanti: De sacrificio missae (Roma 1531), Adversus Lutheranos tractatus (ibid. 1531), che si occupava di comunione dei laici, confessione e venerazione dei santi, De fide et operibus (ibid. 1532).Il 23 ott. 1531 Clemente VII lo nominò cardinale protettore dei domenicani. Alcune delle Responsiones tramandateci negli Opuscula mostrano che il D. anche in vecchiaia era tenuto in altissima considerazione per i suoi pareri di argomento teologico e sulla cura d'anime. L'11 febbr. 1534 gli venne conferito il titolo cardinalizio di S. Prassede, anche se tutti i documenti che possediamo continuano a collegare il suo nome al titolo di S. Sisto. Il segretario e biografo del D., Flavio, racconta di un improvviso indebolimento fisico del cardinale avvenuto nell'estate del 1534. Il 28 luglio ricevette il permesso di fare testamento per provvedere ai suoi collaboratori e sostenere le istituzioni sociali. Il 9 agosto chiese i sacramenti. La morte avvenne a Roma il 10 ag. 1534.
Secondo il suo desiderio fu seppellito senza solennità davanti alla chiesa di S. Maria sopra Minerva. Nel 1666 i suoi resti mortali vennero spostati nella sacrestia dentro un'austera cassetta di legno. Nel quarto centenario della sua morte essi furono infine seppelliti nella chiesa poco lontano dall'entrata, dove una lastra del pavimento ricorda il defunto.
La famiglia De Vio apparteneva alla classe più agiata di Gaeta. Abbiamo copia (Roma, Arch. gen. OP, AAA, I, ff. 221 s.) di privilegi reali concessi a suo padre e ai suoi fratelli. Oltre alla grandezza intellettuale anche questo retroterra familiare deve aver formato il carattere del D. che viene descritto come un uomo ricco di forza morale e allo stesso tempo discreto e raffinato. Le sue frequenti malattie ci fanno pensare ad una costituzione fisica piuttosto debole. I più antichi biografi parlano di un uomo di piccola corporatura, dal volto scuro ma nobile e dotato di incredibile memoria unita a grande forza intellettuale, incline all'ira che tuttavia seppe sempre controllare. Non seguiva il ciceronianismo alla moda tra gli umanisti ("sermone sucinctus et brevis ita ut laconicus diceretur": D'Olmeda, in Laurent, 1934-35, p. 495). Lo stile sobrio della sua prosa lo troviamo anche nei documenti del maestro generale (si veda l'introduzione agli Acta capitulorum del 1508 in Monumenta Ordinis fratrum praed. histor., IX [1901], p. 81). Il suo modus scribendi, libero dagli eccessi retorici e semplicemente diretto all'esattezza scientifica, fu spesso criticato (cfr. per es. B. M. Canus, De locis theologicis Salamanticae 1563, p. 218). Tuttavia gli umanisti suoi contemporanei apprezzarono la grande concretezza delle sue argomentazioni anche negli scritti di controversia teologica (cfr. D. Erasmo, Epistolario, Oxonii 1912, IV, p. 560).
L'enorme produttività della sua opera di studioso fu possibile solo grazie ad un rigoroso programma di lavoro giornaliero ed ad una fortissima disciplina interiore. Neppure le situazioni più difficili, come la prigionia durante il sacco di Roma del 1527, ne ostacolarono la produzione scientifica. La sua totale dedizione allo studio, la sua pretesa mancanza di senso artistico (Fonseca, in Laurent, 1934-35, p. 491), la sua austerità nel vestire e nel vivere, confermata anche dalla richiesta di una sepoltura semplicissinia, il suo "incredibile senso di giustizia" e il suo disprezzo per i doni (Alberti, ibid., p. 474) gli causarono il rimprovero di essere arrogante e del tutto privo di socievolezza (Flavio, ibid., p. 463; D'Olmeda, ibid., pp. 495-505).
Il D'Olmeda (ibid., pp. 494 s.) riassume le cause dell'opposizione all'elezione del D. a generale dell'Ordine, affermando che gli sarebbero mancati "morum gravitas" e "exterioris hominis prestantia". Tuttavia seppe presto acquistarsi autorità, dosando con cura la forza e la flessibilità nelle situazioni che non potevano essere risolte. La sua cura principale fu il sostegno degli studi nell'Ordine. La costituzione di uno Studium generale a Salamanca, Siviglia, Cordova e Lisbona si deve a lui; le scuole di Salamanca e Siviglia divennero poi centri di formazione per i missionari diretti verso il Nuovo Mondo. Il D. sostenne sempre questa nuova attività dell'Ordine. Le critiche dei domenicani agli abusi e alle violenze dei "conquistadores" furono da lui sostenute. Per il D. il mantenimento di un alto livello scientifico-culturale era una prerogativa essenziale per la vita dell'Ordine (vedi l'introduzione agli Atti del capitolo del suo generalato). A questo scopo egli non si peritava di far riesaminare, o addirittura cancellare, titoli già acquisiti: saggiava la competenza dei confessori e dispensava gli studenti dal digiuno. L'ideale di povertà e di sollievo da ogni preoccupazione materiale ad esso legato assumevano in questo contesto un peso particolare. La sua lotta contro le tendenze scismatiche sostenute dai visionari e dalla loro propaganda (si oppose all'elezione di un piagnone ad uffici dell'Ordine) non gli impedì di sfruttare a suo vantaggio le qualità della congregazione riformata di S. Marco. Nicolaus von Schoenburg, scolaro del Savonarola e priore di S. Marco, doctor in utroque iure, divenne suo procuratore. Nel 1512 egli fu nominato vicario delle province di Sassonia e Teutonia, con pieni poteri. Sotto la pressione dei Burgundi divenne urgente una nuova divisione delle province dell'Ordine nella Germania settentrionale, Paesi Bassi e Francia (bolla papale del 2 luglio 1515). Il D. riuscì a sfruttare questa pressione politica a vantaggio delle sue aspettative di riforma.
Nella dedica della sua Secunda secundae a Leone X rilevò che in occasione della sua promozione al cardinalato non avevano influito né protezioni né qualsiasi genere di promessa. In realtà, all'inizio del cardinalato, il D. dimostrò di possedere più qualità organizzative che non capacità diplomatiche; egli venne tuttavia incaricato molto presto di una missione diplomatica di grande difficoltà. Era nella natura delle cose che non ottenesse un particolare successo, e questo non dipese certo da una sua mancanza di abilità. Inoltre il compito fu reso più difficile dalla morte dell'imperatore. Egli dovette difendere gli interessi della Curia nella scelta del nuovo eletto. Non sono conservati i suoi rapporti a Roma e perciò non possiamo ricostruire un quadro completo delle sue capacità diplomatiche. Il D. cardinale non si conquistò particolare simpatia in ambito imperiale. Gli interessi della Curia, pur non essendo limitati alla sola Italia, bensì estesi a tutta l'Europa, non potevano concordare con quelli dei principi elettori. A rendere le cose più difficili contribuirono le incertezze della Curia e le difficoltà di carattere disciplinare all'interno del gruppo guidato dal D. (Flavio, in Laurent, p. 476). Allo scacco diplomatico si accompagnò una sconfitta personale: egli dovette accettare lo scambio della ricca diocesi di Palermo con quella molto più modesta della sua città natale, Gaeta.
L'era della riforma sotto Adriano VI sembrava dover conferire al D. un ruolo di primo piano come consigliere (si veda il suo parere in Concilium Tridentinum, XII, pp. 31-39). Ma la nuova legazione lo allontanò presto da Roma. I rapporti con Clemente VII sembrano essere stati piuttosto freddi: infatti il D. venne chiamato a dare il suo parere solo sulla questione protestante. Un'eccezione è rappresentata dalla causa di divorzio del re d'Inghilterra Enrico VIII. In questo affare il D. con argomenti tratti dalla Bibbia e dal diritto naturale sosteneva la possibilità di una dispensa che avrebbe permesso la bigamia. Tuttavia di fatto le sue argomentazioni restarono inutilizzabili e non poterono offrire alcun ausilio decisionale nella difficile situazione del Papato.
Già come procuratore dell'Ordine il D. dovette confrontarsi con una richiesta di Giulio II riguardante la simonia nelle elezioni del papa. Nella sua risposta del 26 dic. 1503 criticava di per se stessa la vendita di cariche ecclesiastiche e affermava che tale procedura non poteva essere giustificata dalle buone intenzioni. Anche la concessione di benefici ecclesiastici a questo scopo venne condannata (la risposta del D. è negli Opuscula). Dopo il suo scritto contro il concilio di Pisa (1511) e il suo discorso al concilio laterano (1512) il D. fu considerato come curialista dichiarato. Prove della Sacra Scrittura e della tradizione vennero messe in campo contro le pretese dei conciliaristi. Ma il suo sforzo chiaramente apologetico non gli impedì argomentazioni differenziate: distinse infatti tra l'"essenza del papato" e il "papa in quanto figura storica". L'unione delle due realtà avveniva tramite il voto, dunque con un atto che si collocava nella storia. Solo nel caso di eresia e non in altre occasioni, il concilio poteva sciogliere questo legame. Tuttavia la carica papale restava sempre superiore ad ogni concilio. Questa differenziazione gli costò critiche da parte del settore più rigidamente curialista. Nel confronto con Lutero il D. ebbe occasione di esprimersi un'altra volta sull'istituto dell'ufficio pontificale, dapprima in un trattato dopo la lettura degli Acta Augustana di Lutero, quindi nel più ampio scritto De divina institutione pontificatus (1521). Contro Lutero, che faceva di Pietro una "persona parabolica", il D. insistette sull'interpretazione letterale delle affermazioni della Bibbia. In base a queste Pietro aveva ottenuto personalmente il potere delle chiavi. Non c'erano tuttavia prove esegetiche del passaggio di quest'autorità da Pietro al vescovo di Roma. Il richiamo alla leggenda del Quo vadis? e alla morte di Pietro come vescovo di Roma restavano basi semplicemente storiche - e tra l'altro discutibili anche da questo punto di vista - di una legittimazione in verità molto debole.
Nonostante le esperienze negative con la persona di Lutero durante l'incontro di Augusta del 1518, il D. restò nel confronto teologico sempre attento ai problemi concreti e solo raramente si lasciò sfuggire dei passaggi velati di ironia. In nessun caso troviamo un tratto personale, ovvero un'allusione pungente. Nella condanna di Lutero, il D. voleva evidenziare solo le espressioni indiscutibilmente eretiche, che anche un'interpretazione benevola non consentiva di giudicare accettabili, ma non riuscì ad imporre questa sua linea. Quando nel 1530 si sondò la possibilità di una riconciliazione, egli apparve disposto al compromesso su quei punti in cui non veniva toccata la sostanza della fede, come per es. nel caso del calice ai laici (comunione sotto le due specie) e del matrimonio degli ecclesiastici.
Egli d'altra parte considerava utopistico il progetto di un concilio come foro di consenso (si veda l'istruzione per Umberto Gambara del 19 dic. 1530 in Concilium Tridentinum, IV, 1, Friburgi in Br. 1904, pp. LII-LV). Già in occasione della preparazione all'incontro di Augusta aveva colto il nucleo della posizione luterana: la dipendenza del valore dei sacramenti dalla convinzione di fede del singolo cristiano. Anche il suo ultimo scritto contro la dottrina dei riformatori, De fide et operibus, del 1532, si pone criticamente nei confronti della sopravvalutazione del rapporto di fede personale. La differenza tra la fede infusa come grazia concessa da Dio e la credulitas come la convinzione personale dell'uomo inteso come soggetto storico, che proprio per questo resta fallibile, è il fondamento della sua argomentazione critica.
Fin dalla sua permanenza a Milano il D. fu sempre sommerso da richieste di carattere teologico-morale, nelle quali il problema fondamentale era il rapporto tra le necessità situazionali (sia nell'ambito strettamente ecclesiastico, sia in quello secolare) e i principi della fede cristiana. Questo vasto spettro di problemi di teologia morale si rifletteva in un gran numero di responsi dati sotto forma di Quaestiones (si veda la collezione di Quaestiones sui problemi della costituzione e sostegno dei Monti di pietà, sull'elemosina, la sessualità, il matrimonio, la proprietà privata, raccolte negli Opuscula). Il commento della Secunda secundae gli offrì l'occasione di trattare questi problemi di vita quotidiana su un piano più generale. Quello che è sorprendente è come egli sia riuscito a far trapelare fattori concreti e situazionali nella discussione di principi teorici. Allo stesso tempo egli mostra una notevole indipendenza dalle opiniones e auctoritates comuni, come pure dal diritto positivo, autorità che spesso dovevano arretrare di fronte alle argomentazioni giusnaturalistiche o del diritto consuetudinario. Decisamente legata alla prassi concreta è la Summula peccatorum, un pratico manualetto per i confessori ordinato alfabeticamente, che tuttavia, rispetto ad altre opere dello stesso genere, assume spesso il carattere di uno speculum virtutis, per la sua continua esortazione alla virtù. Lo stretto legame alla concretezza e il parere di esperti lo rendevano flessibile riguardo alla questione della tradizionale proibizione degli interessi. Inoltre l'alto valore delle argomentazioni legate al diritto naturale lo rendeva un duro critico della prassi di sfruttamento dei "conquistadores" nel Nuovo Mondo, anticipando le critiche del suo confratello Vitoria.
Il merito del D. è quello di aver messo al centro del dibattito filosofico la teologia e la metafisica tomiste e di averle difese di fronte alle critiche degli scotisti e degli averroisti. Questo suo intento riuscì solo grazie al richiamo all'autorità di Aristotele. Il suo intenso studio del filosofo greco trova eco nei suoi commenti. Il risultato di sistematizzazione nell'esposizione della metafisica tomista, che egli portò a termine grazie al recupero di Aristotele, venne spesso considerato in età moderna una alterazione e semplificazione della dottrina dell'essere di s. Tommaso (tra gli altri Gilson, 1953 e 1955; Klubertanz, 1960; Koester, 1960; McCanless, 1968). Anche la sua rigida costruzione della teoria dell'analogia, che fu molto esaltata (il riferimento è alla analogia proportionalitatis), non lo ha difeso da critiche consimili (cfr. E. Iserloh-B. Hallensleben, 1981, p. 539). Già tra i contemporanei la sua presa di posizione sulla questione, all'epoca molto rovente, della mortalità dell'anima gli suscitò diverse critiche. Il richiamo ad Aristotele lo portò alla differenziazione tra filosofia e teologia, anticipando così i tempi moderni circa la distinzione tra scienza e fede. L'immortalità dell'anima era per il D. un punto fermo della fede cristiana, ma egli non vedeva la possibilità di dare una prova valida filosoficamente di questa verità di fede (De anima, III, 2). La differenza tra verità di fede e verità dimostrabili filosoficamente viene chiamata in causa oltre che su questo argomento anche su altri, come la Trinità e la preveggenza divina (cfr. Opera omnia in S. Scripturam, V, p. 58; IV, p. 228).
Già nell'ultima parte del suo lavoro principale, il commento alla Summa theologiae di Tommaso d'Aquino, venne trattato con grande impegno il problema della testimonianza biblica. Il D. dedicò l'ultima parte della sua vita pressoché esclusivamente alla traduzione e al commento di quasi tutti gli scritti biblici. Nel trattare il Nuovo Testamento utilizzò l'edizione greca curata da Erasmo e per l'Antico si affidò a studiosi ebrei. Il suo impegno fu quello di evidenziare il significato letterale, poiché solo questo era veramente decisivo come fondamento della dottrina della Chiesa. I passaggi biblici che si potevano spiegare solo allegoricamente (per esempio l'interpretazione morale della storia della creazione) o quei passi e libri di dubbia canonicità - a questo punto si riferisce a s. Girolamo - devono essere scartati come base per affermazioni dottrinali. Nella sua interpretazione il D. non aveva paura di arrivare ad un risultato che apparisse "a torrente doctorum sacrorum alienus" (prefazione al commento del Pentateuco). Egli insomma prendeva alla lettera le richieste della sua Chiesa di richiamarsi tanto alla Scrittura quanto alla tradizione. Le critiche non si fecero attendere e aumentarono a causa della posizione sempre più controriformistica dalla Chiesa di Roma. Nel 1534 Ambrogio Catharinus, confratello del D. conosciuto più tardi come delatore davanti all'Inquisizione romana, pubblicò a Parigi le sue Annotationes in excerpta quedam de commentariis reverendissimi cardinalis Caietani S. Sixti dogmata, che ripubblicherà con ampliamenti otto anni dopo. La facoltà di teologia di Parigi censurava il 9 ag. 1534 i commenti alla Sacra Scrittura del D. come pure la sua Risposta a una prima censura del 1533. Su richiesta di Pio V alcuni passaggi del commento alla terza parte della Summa, che discutevano il materiale biblico e non si adattavano più al nuovo clima controriformistico, vennero cancellati nell'EditioPiana. Il padre della ricerca storico-critica, R. Simon, difese il D. dai suoi detrattori. Possiamo vedere in lui, per le sue abili distinzioni e per l'esame imparziale della tradizione, uno dei primi teologi vicini alle idee della via media. Tuttavia una ricerca su questo punto non è stata ancora attuata.
Opere: Filosofia: In opusculum s. Thomae de ente et essentia commentarius [1493-94], Venetiis 1496; ed. migliorata, Papiae 1498; ed. a cura di M. H. Laurent, Taurini 1934; traduzioni a cura di L. Kendzierski-F. C. Wade, in Medieval philosophical in translation, XIV, Milwaukee 1964; a cura di D. G. Bacca, in Collection filosofia, V, Caracas 1974. Prima ediz. dei seguenti quattro commenti ad Aristotele insieme al De ente et essentia e De nominum analogia, Venetiis 1505: Commentaria in reliquum libri secundi Peri hermeneias (a lectione III ad finem) [1496]; trad. inglese a cura di J. T. Oesterle, in Medieval philosophical text in translation, XI, Milwaukee 1962; In libros Posteriorum Analyticorum Aristotelicos additamenta [1496]; Commentaria in Isagogen Porphyrii ad praedicamenta Aristotelis [1497], ed. a cura di I. M. Marega, Romae 1934; Commentaria in Praedicamenta Aristotelis [1498], ed. a cura di M.-H. Laurent, Romae 1939; De nominum analogia [1498], Venetiis 1505; ed. insieme al De conceptu entis, a cura di N. Zammit, Romae 1934; 2 ed. a cura di H. Hering, Romae 1952; trad. inglese a cura di E. A. Bushinski-H. J. Coren, in Duquesne studies. Philosophical ser. IV, Pittsburgh 1953, 2 ed., ibid. 1959; trad. francese a cura di H.-M. Robillard, Montreal 1963 (per i commenti ad Aristotele non pervenutici cfr. F. von Gunten, 1969, p. 346); Commentaria in III ll. Aristotelis de anima [1509], Florentiae 1509; ed. a cura di I. Coquelle, I-II, Romae 1938-39; III, a cura di G. Picard-G. Pelland, Bruges-Paris 1965. Teologia: Commenti alla Summa theologiae: Tommaso d'Aquino: In Iam partem [1507], Venetiis 1508; In Iam-IIae [1511], Venetiis 1514; In IIam-IIae [1511], Venetiis 1518, 1522; In IIIam partem [1520], Venetiis 1523, Bononiae 1528; ed. integrali: editio Piana, IX-XI, Romae 1569-70 (con cancellature nella pars tertia); editio Patavina, 1698; editio Romae, 1773; editio Leonina, IV-XII, Romae 1888-1906; ristampa dell'ed. Venetiis 1596: Hildesheim-New York 1988; De comparatione auctoritatis pape et concilii [1511], Apologia de comparata auctoritate pape et concilii [1513], Romae 1513, Coloniae 1514; ed. a cura di J. V. Pollet, Romae 1936. De divina institutione pontificatus Romani pontificis, Romae-Mediolani-Coloniae Agrippinae 1521; ed. a cura di F. Lauchert, in Corpuscatholicorum, X, Münster 1925; Summula peccatorum [1523], Parisiis 1526, Coloniae 1529, Parisiis 1539, Lugduni 1551 etc.; Ientacula Novi Testamenti, ed. insieme alla Summula peccatorum, Romae 1525, Coloniae Agripp. 1526, Parisiis 1526, Lugduni 1529; numerose ristampe nel sec. XVI. Instructio nuntii circa errores libelli de cena domini sive de erroribus in eucharistiae sacramento [1525]; ed. a cura di F. von Gunten, Romae 1962; De sacrificio missae, Romae 1531; De communione... adversus Lutheranos tractatus, Romae 1531, insieme con il De sacrificio missae, Parisiis 1531. De fide et operibus, Romae 1532; insieme con De communione ... adversus Lutheranos, Venetiis 1534, 1536, Lugduni 1536. Tutti i trattati furono inseriti negli Opuscula. Esegesi: Liber Psalmorum ad verbum ex hebreo versorum [1527]-, Venetiis 1530. In quatuor Evangelia commentarii, Venetiis 1530, insieme con In Acta apostolorum commentarius, Romae 1532, Parisiis 1540, 1542, 1543, Tridini 1542, Lugduni 1556, 1558. Epistulae s. Pauli et aliorum apostolorum, Venetiis 1531, Romae 1532, Parisiis 1536, 1540, 1542, 1546, Lugduni 1556, 1558 (in parte insieme con gli Acta apostolorum). In Pentateuchum Mosis juxta sensum quam dicunt literalem commentarii, Romae 1531; ampliato: In omnes autenticos Veteri Testamenti historicales libros, Romae 1533, 1593, Parisiis 1546. In Librum Iob commentarii, Romae 1535 (insieme con Ad quosdam articolos nomine theologorum Parisiensium editos, De coniugio cum relicta fratris sententia, Oratio de vita Caietani autore I. B. Flavio). Parabolae Salomonis, Romae 1542, 1545, 1592, Lugduni 1545. Opera omnia quotquot in Sacrae Scripturae expositionem reperiuntur, 5 voll., Lugduni 1639; ristampa: Hildesheim-New York 1988.
Trattati filosofici e teologici, come pure le risposte a questioni di carattere teologico o di etica sociale, sono raccolti negli Opuscula, Venetiis 1506, Parisiis 1511, Venetiis, 1514 e 1517; ampliati con l'aggiunta di trattati sulle controversie teologiche e altre Quaestiones, s. l. 1529, Parisiis 1530, Venetiis 1531; in quattro parti, Lugduni 1541, 1551, 1552, 1554, Florentiae 1542, Venetiis 1542; nell'ed. Lugduni 1558 sotto il titolo: Opuscula omnia in tres distincta tomos; molte ulteriori ristampe; ultima: Antverpiae 1612; ristampa della ed. Lugduni 1587: Hildesheim-New York 1988; Estratti alcuni Opuscola oeconomico-socialia a cura di N. Zammit, Romae 1934; trad. inglese ovvero regesti dei trattati sulla Riforma in Caietan Responds. A reader in Reformation controversy, a cura di J. Wicks, Washington 1978.
Un elenco esauriente di tutti gli scritti, trattati e Quaestiones del D. si trova in M.-J. Congar, 1934-35, pp. 36-49 e J. F. Groner, 1951, pp. 66-73.
Fonti e Bibl.: Le più antiche biografie del D.: L. Alberti (1517), B. Spina (1518), G. B. Flavio (1535), A. Fonseca (1539), S. D'Olmeda (1558) furono pubblicate dal Laurent, 1934-35, pp. 444-503; V. M. Fontana, Sacrum theatrum dominicanum, Romae 1666, p. 346; Id., Monumenta dominicana breviter in synopsim collecta, Romae 1675; V. L. Seckendorf, Commentarius historicus et apologeticus de lutheranismo, I, Lipsiae 1694, pp. 60 s., 123; J. de Gersons, Opera omnia, a cura di E. Du Pin, II, Antverpiae 1706, pp. 876-1012; Bullarium Ordinis praedicatorum, IV, a cura di Th. Ripoll-A. Bremond, Romae 1732, pp. 248-526; I. D. Mansi, Sanctorum conciliorum et decretorum collectio nova, Suppl., V, Luccae 1751, pp. 408, 410; Arch. stor. ital., s. 3, XXIV-XXV (1876-77), pp. 18-21, 23, 369-72, 376 ss., 384 ss.; Memorie e docum. per la storia dell'Università di Pavia, I, Pavia 1878, pp. 189-91; M. Luther, Werke, I, Weimar 1883, pp. 319-324, 525-643; II, ibid. 1884, pp. 6-26, 28-33; M. Sanuto, Diarii, XXV-XXXVI, Venezia 1889-1893, ad Indices; W. Friedensburg, Aktenstücke über das Verhalten der römischen Kurie zur Refor-mation 1524 und 1531, in Quellen u. Forschungen aus ital. Arch. u. Bibl., III (1900), pp. 16 ss.; Acta capitolorum Generalium O. P., IV, 1501-1533, a cura di B. M. Reichert, in Monumenta Ord. fratrum praed. historica, IX (1901), pp. 20-81; I. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XXXII, Paris 1902, pp. 719-727, 842 s.; A. Schulte, Die römischen Verhandlungen über Luther 1520. Aus denAtti consistoriali 1517-23, in Quellen u. Forsch. aus ital. Arch. u. Bibl., VI (1904), pp. 32-52, 174 s.; Concil. Tridentinum, a cura d. Soc. Goerresiana, Diaria, Acta, Epistulae, Tractatus, IV, 1, Friburgi Br. 1904, pp. LII-LV; R. Steck, Die Akten des Jetzerprozesses, Quellen zur schweizer Geschichte, XXII, Basel 1904, pp. 612-618; Registrum litterarum Ioachimi Turriani 1487-1500, Vincentii Bandellii 1501-1506, Th. D. Caietani 1507-1513, a cura di B. Reichert, in Quellen und Forschungen zur Geschichte des Dominikanerordens in Deutschland, X (1914), pp. 152-165;M. Luther, Briefwechsel, I, Weimar 1930, pp. 188 ss.; M.-H. Laurent, Les premières biographies de Cajétan, in Revue thomiste, (Suppl.), n. s., XVII (1934-35), pp. 444-503; Id., Quelques documents des Archives Vaticanes (1517-1534), ibid., pp. 50- 148;G. Benelli, Di alcune lettere del Gaetano, in Arch. fr. praed., V (1935), pp. 363-375; Registrum litterarum fr. Th. D. Caietani O. P. magistri Ordinis 1508-1513, a cura di A. D. Meyer, in Monumenta Ord. fratr. praed. historica, XVII (1935); D. Erasmus, Opusepistularum, X, a cura di P. S. Allen, Oxonii 1941, pp. 66 ss.; Magistrorum ac procuratorum generalium O P. registra litterarum minora (1469-1523), a cura di G. Meersseman-D. Pflanzer, in Monumenta Ord. fratr. praed. historica, XXI (1947), pp. 47, 61, 71, 100, 113;S. L. Forte, The cardinal-protector of the Dominican Order, Rom 1959, pp. 24-28, 71 s.; J. Sadoleto, Opera omnia, I. Ridgewood 1964, pp. 44-47; Concilium Tridentinum, a cura d. Soc. Goerresiana, XII, 1, Friburgi Br. 1966, pp. 31-39, 206, 497-506; Conciliorum: oecumenicorum decreta, a cura di G. Alberigo, Bologna 1972, pp. 605 s.
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Per quanto riguarda le sue opere di filosofia e metafisica, cfr. C. Fabro, L'obscurcissement de l'esse dans l'école thomiste, in Revue thomiste, LVIII (1958), pp. 343-372; J. B. Reichmann, St. Thomas, Capreolus, Cajetan and the created person, in New Scholasticism, XXXIII (1959), pp. 202-230; J. Hegyi, Die Bedeutung des Seins bei den klassischen Kommentatoren des heiligen Thomas von Aquin. Capreolus, Silvester von Ferrara, Cajetan, Pullach 1959, pp. 107-153; M. D. Koster, Zur Metaphysik Cajetans. Ergeimisse jüngster Forschung., in Scholastik, XXXV (1960), pp. 537-551; G. P. Klubertanz, St. Thomas Aquinas on analogy. A textual analysis and systematic synthesis, Chicago 1960, pp. 6-17, 120-123; A. Poppi, Causalità e infinità nella scuola padovana dal 1480 al 1513, Padova 1960, pp. 170-185; L. Ferrari, "Abstractio Totius" and "Abstractio Totalis", in The Thomist, XXIV (1961), pp. 72-89; E. Gilson, Autour de Pomponazzi. Problématique de l'immortalité de l'âme en Italie au début du XVIe siècle, in Archives d'histoire doctrinale et litter. du moyen âge, XXXVI (1961), pp. 173-183; J. A. Cruz, Being as first known according to Cajetan. An explicitation of an implicit context in his Metaphysics, Rome 1961; F. R. Harrison, The Cajetan tradition of analogy, in Franziskanische Studien, XXIII (1963), pp. 197-204; L. Ferrari, A thomistic appraisal of T. D. Cajetan's "abstractio totalis", in Angelicum, XLII (1965), pp. 441-462; J. P. Reilly, Cajetan: essentialist or existentialist?, in New Scholasticism, XLI (1967), pp. 191-222; M. McCanless, Univocalism in Cajetan's Doctrine of Analogy, ibid., XLII (1968), pp. 18-47; C. Vasoli, La scienza della natura in Nicoletto Vernia. Studi sulla cultura del Rinascimento, Manduria 1968, pp. 241-256; J. P. Reilly, Cajetan's notion of existence. Studies in philosophy, IV, The Hague-Paris 1971; P. G. Kuntz, The analogy of degrees of being: a critique of Cajetan's analogy of names, in New Scholasticism, LVI (1982), pp. 51 -79; E. Forment Giralt, Persona y modo substancial, Barcelona 1983, ad Ind.; J. Belda Plans, Cayetano, y la controversia sobre la immortalidad del alma humana, in Scripta theologica, XVI (1984), pp. 417-422. Sulle opere di teologia, cfr. R. de Roover, Cardinal Cajetan on "cambium" or exchange dealings. Philosophy and Humanism. Renaissance essays in honor of P. O. Kristeller, a cura di E. P. Mahony, Leiden 1976, pp. 423-433; J. Wicks, Thomism between Renaissance and Reformation: the case of Cajetan, in Archiv f. Reformationsgeschichte, LXVIII (1977), pp. 9-32; A. Bodem, Zum Menschenbild von Kardinal Cajetan unter besonderer Berücksichtigung der Anschauungen des Kardinals Nikolaus von Kues, in Mitteilungen und Forschungsbeiträge der Cusanus-Gesellschaft, XIII (1978), pp. 353-363; M. G. Muzzarelli, Il Gaetano ed il Bariani: per una revisione della tematica sui Monti di pietà, in Riv. di storia e lett. religiosa, XVI (1980), pp. 3-19; B. Hallensleben, Kardinal Cajetans Traktat "De fide et operibus" (1532). Seine Auseinandersetzung mit der lutherischen Buß- und Rechtfertigungslehre, Münster 1980; J. A. Dominguez Asensio, Infalibilidad y "determinatio de fide" en la polémica antiluterana del cardenal Cayetano, in Archivo teologico granadino, XLIV (1981) pp. 5-61, 205-226; G. Ferraro, Il Paraclito, lo Spirito di verità, nel commento del Caietano al quarto Vangelo, in Angelicum, LIX (1982), pp. 117-152;D. Janz, Cajetan: a thomist reformer?, in Renaissance and Reformation, XVIII (1982), pp. 94-102;B. Hallensleben, "Das heißt eine neue Kirche bauen". Kardinal Cajetans Antwort auf die reformatorische Lehre von der Rechtfertigungsgewißheit, in Catholica, XXXIX (1985), pp. 217-239; Id., Communicatio. Anthropologie und Gnadenlehre bei T. D. Cajetan, Münster 1985; B. Lohse, Cajetan und Luther - Zur Begegnung von Thomismus und Reformation, in Kerygma und Dogma, XXXII (1986), pp. 150-169.