CALOIRO (Caloira, Caloria), Tommaso
Nacque a Messina intorno al 1302 (come ha stabilito il suo più attendibile studioso, il Lo Parco) da una famiglia sulla condizione della quale per il secolo XIV non abbiamo alcuna notizia, ma che annoverò in seguito personalità di fama locale, come i cartografi Placido e Giovambattista nel XVII e l'avvocato Alberto nel XVIII secolo; ad altra famiglia sembra invece essere appartenuto il più illustre Caio Ponzio Caloria. Ebbe almeno due fratelli, Pellegrino e Giacomo, sulle cui vicende sappiamo pochissimo; del tutto sconosciuti ci sono i genitori, i quali, tuttavia, dovevano godere di una discreta condizione sociale se, dopo aver fatto impartire al C. la prima istruzione elementare, lo indirizzarono poi agli studi di diritto nella pubblica scuola giuridica di Messina, che rilasciava il titolo propedeutico ai corsi universitari.
La fama ed il ricordo del C. sono interamente affidati alla amicizia col Petraca, il quale dedicò all'amico poeta alcune lettere delle Familiari:non ventitrè, come dimostrò nel secolo scorso il Fracassetti e neanche nove come risulta dall'edizione del Rossi (Firenze 1933), bensì soltanto quattro, I, 2; 7; 8; 12. In seguito a questa drastica riduzione molte delle vicende biografiche del C., ritenute prima sicure, risultano arbitrarie e inesatte, sicché oggi possiamo indicare solo le linee generali della vita del letterato siciliano.
Conseguito il baccellierato, il C. intorno al 1319 si recò allo Studio di Bologna, che il continuo stato di guerra tra la Sicilia aragonese e il continente angioino rendeva preferibile a quello di Napoli. Nella città emiliana il giovane certamente si unì in brigata con gli studenti siciliani che in quegli anni incominciavano ad affluirvi in massa e seguì i corsi dei più illustri giuristi dell'epoca: Pietro de' Cerniti, Iacopo Bottrigari, Tommaso de' Formaglini e altri. Nel 1321, però, in seguito alla decapitazione dello studente Iacopo di Valenza, per un reato che certamente non richiedeva tanta severità, gli altri discepoli con alcuni professori si recarono per protesta a Imola e passarono poi allo Studio di Siena. Il C. sicuramente si unì ai suoi compagni e probabilmente, nella nuova università, poté meglio apprendere la lingua toscana, indispensabile per la attività poetica che aveva dovuto già intraprendere. Nell'ottobre del 1322 il Comune di Bologna, grazie a sostanziose concessioni, riuscì a richiamare gli studenti che ritornarono in massa. Nello Studio petroniano il C. fece amicizia col Petrarca, che aveva incominciato a seguire i corsi alla fine del 1320. A Bologna il Petrarca incominciò ad apprezzare la lirica in volgare, forse guidato e incoraggiato dal C., che in seguito ricordò nei vv. 58-64 del Trionfod'Amore ("E, poi convien che 'l mio dolor distingua, / volsimi a' nostri, e vidi 'l bon Tomasso, / ch'ornò Bologna ed or Messina impingua. / O fugace dolcezza! o viver lasso! / Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi, / senza 'l qual non sapea movere un passo? / Dove se' or, che meco eri pur dianzi?"). Il C. certamente continuò a poetare in questo periodo, ma degli scritti bolognesi non ci è giunto nulla. Verso la fine del 1324 o all'inizio del 1325 il giovane messinese, terminato il corso di studi, ritornò in patria proprio quando ricominciava a divampare la guerra del Vespro.
Tra i disagi il C. non abbandonò gli studi e l'attività letteraria, ma la fama e la gloria tanto ambite non giunsero. Il C. se ne lamentò col Petrarca, il quale prima (Fam.I, 2) cercò di confortarlo, poi, viste inutili le sue parole, ridimensionò garbatamente il valore dell'amico (Fam.I, 8). Seguì un periodo di crisi durante il quale il C. quasi certamente si dedicò all'attività forense. Il Lo Parco ha creduto di trovare la storia di questo abbandono e poi del rinnovato ardore poetico in tre sonetti del Canzoniere (VII, XXV e XXVI). L'affermazione non è del tutto convincente, ma comunque proprio intorno al 1330 il C. scrisse un sonetto (che si può leggere in Lo Parco, p. 132), indirizzato al cantore di Laura, che si salvò dalla perdita di tutto il resto della produzione del poeta messinese grazie al sonetto di risposta del Petrarca con il quale è stato tramandato dai codici. Una lirica è troppo poca cosa per poter dare un giudizio sul C., tuttavia sembra che egli, fortemente influenzato dai modi petrarcheschi, avesse una buona anche se non troppo originale vena. Per quante ricerche siano state fatte a più riprese da molti eruditi antichi e moderni, pare che ormai non sia possibile aggiungere altro a quest'unico sonetto pervenuto fino a noi.
Il C. non si limitò soltanto all'attività poetica, ma si interessò anche degli studi di filosofia che intorno a quegli anni si coltivavano a Messina in una scuola tenuta da un "vecchio dialettico". Il C. certamente, si rese conto della inadeguatezza delle tesi del maestro e chiese il giudizio del Petrarca, il quale con due lettere (Fam.I, 7;12) pose in evidenza le deficienze e l'arretratezza della scuola filosofica messinese.
Per il periodo seguente della vita del C. non possediamo alcuna notizia e semplici congetture sono quelle del Lo Parco che lo vorrebbe politicamente impegnato al fianco di Federico III prima e di Pietro II poi. Si può invece fissare la data di morte tra il luglio e l'agosto del 1341.
La notizia giunse al Petrarca mentre si trovava a Parma: il poeta scrisse subito due lettere consolatorie ai fratelli dell'amico, Pellegrino (Fam.IV, 10)e Giacomo (Fam.IV, 11), che rivelano un sincero e profondo dolore. Nella lettera indirizzata a Pellegrino, poi, inserì un epitaffio che ne richiama un altro letto dal poeta aretino a S. Maria in Trastevere a Roma nell'aprile del 1341. Il ricordo del C. rimase a lungo nel cuore del Petrarca, il quale oltre a citare l'amico nei Trionfi, come abbiamo visto, lo ricordò con tenerezza in un'altra delle Familiari (IX, 2).
Il C. fu seppellito a Messina nella cappella di famiglia nella chiesa del Monte Carmelo. Sul ricco sarcofago fu scolpito l'epitaffio petrarchesco: ma tutto ciò non valse a proteggerlo da varie traversie. Nella stessa tomba prima furono conservate le spoglie di Costantino Lascaris e Polidoro da Caravaggio, poi i frati del cenobio, alle cui cure era affidata la chiesa, vuotarono il sarcofago per usarlo nella cucina del convento; in seguito se ne perse ogni traccia.
Fonti e Bibl.: Lettere di Francesco Petrarca delle cose familiari, a cura di G. Fracassetti, I, Firenze 1892, p. 24; L. Lizio Bruno, Il Petrarca e Tommaso da Messina, in Il Propugnatore, IX(1876), I, pp. 16-31 e, con qualche lieve modifica, in Archivio storico messinese, VI(1905), pp. 185-220; F. Lo Parco, Francesco Petrarca e T. C. all'università di Bologna, in Studi e memorie per la storia dell'università di Bologna, XI, Bologna 1933, pp. 25-182 e, a parte, Imola 1932 (rec. di F. Torraca, in Nuova Antol., 16 dic. 1932, pp. 544-46; G. Paladino, in Archivio storico per la Sicilia orientale, XXIX[1933], pp. 143-145; P. Leonetti, in Rivista letteraria, IV-V [1933], pp. 40-46; V. Arangio Ruiz, in Rassegna bibliografica delle scienze giuridiche sociali e politiche, VIII[1933], pp. 272-76; G. Gastaldi, in Nuova rivista storica, XVIII[1934], pp. 496-497) con tutta la bibliografia.