VISENTINI, Tommaso Antonio (Thomassin).
– Nacque forse a Vicenza nel 1682. I genitori non sono noti e, di fatto, il solo profilo biografico e artistico che è possibile delineare con sicurezza è quello dell’attore ormai maturo: quando, il 18 maggio 1716, debuttò, nel ruolo di Arlecchino, nella sala parigina del Palais Royal, inaugurando, con L’heureuse surprise, la stagione della Nouvelle troupe italienne diretta da Luigi Riccoboni, a quasi vent’anni dalla chiusura dell’Ancienne Comédie, nel 1697. Prima di quella data, le uniche informazioni sui suoi presunti esordi romani, filtrate attraverso la memoria orale dell’attore Antonio Giovanni Sticotti, appartengono infatti a una mitografia più attenta a radicare nel passato dell’attore i segni attitudinali delle sue doti recitative future che a restituirne una reale biografia.
Nella memoria della compagnia, l’apprendistato di Thomassin (questo il vezzeggiativo con cui era noto a tutti) non avviene pertanto, come ci si potrebbe aspettare, nei ruoli comici delle maschere dell’arte, ma in quelli tragici senza maschera, e per di più en travesti, nei panni di principesse: come a voler testimoniare, fin dalle prime prove sceniche, una gentilezza dei tratti, una versatilità e una sensibilità drammatica per le pathétique che, nell’attore adulto, avrebbero caratterizzato gli aspetti più innovativi del suo Arlecchino. Qualità, peraltro, in linea con il progetto riformatore dello stesso Riccoboni, rivolto non solo a una generica moralizzazione del comico, ma piuttosto a una sua reinvenzione, che sapesse contemperare la spiazzante vitalità e autenticità della commedia all’improvviso con l’introspezione sentimentale della commedia distesa: l’autorialità dell’attore con l’autorialità del drammaturgo. In questo senso, la sorprendente novità e il formidabile successo, per nulla scontato, dell’Arlecchino di Visentini, costituiscono uno degli esempi meglio riusciti della riforma riccoboniana dell’attore sulla via dell’emozionalismo e dell’expression naturelle.
Dal punto di vista mimico gestuale, Thomassin, con la sua bassa statura, le mani e piedi minuti, aveva infatti maturato una sorprendente agilità acrobatica, il cui vigore, però, non assecondava mai la frenesia muscolare e la balourdise, a tratti demenziale e regressivamente scatologica, del suo più celebre predecessore, Domenico Biancolelli. Al contrario (come in parte era già accaduto per Evaristo Gherardi, l’ultimo Arlecchino dei primi Italiens), Visentini possedeva una grazia e una leggerezza che, all’occorrenza, sapevano addolcire la grosserie e l’esuberanza basso corporea della maschera in partiture fisiche contraddistinte da movimenti più semplici e naturali, a tratti ingenui e quasi infantili, come traspare dall’incisione di Laurent Cars (del dipinto di Nicolas Lancret), dove Silvia (Giovanna Rosa Benozzi) prende delicatamente le piccole mani del timido Thomassin per accompagnarlo in un passo di danza.
Una propensione al naturel che ispirerà anche l’altro clamoroso gesto profanatorio dell’icona biancolelliana: il rifiuto di imitare (come facevano gli arlecchini delle foires) la sua voce nasale, da perroquet, senza tuttavia indulgere mai nell’impostazione affettata e cantilenante dello stile francese. Il recupero di questa organicità piena, né forzata né alterata, garantì dunque a Thomassin una versatilità tale da farlo apprezzare dal pubblico parigino sia come degno prosecutore della tradizione comica dei lazzi, sia come inaspettato interprete di un nuovo stile recitativo: un «certain je ne sais quoi que l’on ne peut nommer» (Gueullette, 1976, p. 28), una capacità di contaminare la comicità con sfumature sentimentali e riflessive che sarebbero arrivate a strappare le lacrime.
In questa prospettiva, lungo la linea della tradizione va annoverato soprattutto, specie nelle prime stagioni, il repertorio mimico acrobatico classico, legato ai canovacci italiani del fondo comune dei comici, ripresi a garanzia del loro successo, ma anche per la scarsa conoscenza del francese da parte degli attori italiani. Ecco dunque l’Arlecchino di Thomassin eccellere nella pantomima muta come quando, all’esordio, si guadagna il favore del pubblico (e di conseguenza il consenso sulla sua voce naturale) con l’esilarante ingresso in stato narcolettico, cadendo di continuo addormentato fra le braccia di Lelio (Riccoboni), ogni volta che lui tenta di risvegliarlo. Oppure nella parte del sordo muto in Arlequin bouffon de cour (20 maggio 1716), o nelle scene in cui si cuce e scuce la bocca in Arlequin muet par crainte (16 dicembre del 1717). E ancora, riguardo al suo atletismo, la scena mozzafiato di Les quatre Arlequins (4 ottobre 1716), dove l’attore si arrampica pericolosamente fino al terzo loggiato della sala, come anche, durante il brindisi del Commendatore in Le festin de pierre (17 gennaio 1717), la capriola all’indietro per lo spavento con il bicchiere pieno di vino, senza versarne neppure una goccia, e i «tours d’échelle et de force très extraordinaires» in Les deux Pantalons (30 novembre 1716; Gueullette, 1976, p. 82). Senza contare le abilità trasformistiche nei travestimenti, come in Arlequin feint astrologue, enfant, statue et perroquet (20 agosto 1716), Arlequin voleur, prévôt et juge (2 giugno 1716) e Arlequin Pluton (19 gennaio 1719), nonché le sue performances parodiche innestate da Riccoboni in altri generi, come nel caso della tragicommedia Samson (28 febbraio 1717), dove Thomassin, tra gli altri lazzi, emula la lotta fra l’eroe biblico e il leone accanendosi su un povero pollo. A questo Arlecchino funambolico, Visentini, nonostante la marcata riduzione dei canovacci e del registro pantomimico già degli anni Venti, sarebbe rimasto fedele fino a tarda età, tanto che la sua abilità nei lazzi viene ancora menzionata in Les paysans de qualité (14 luglio 1729).
Tuttavia, proprio in virtù di questa attitudine al naturel, Visentini sarebbe stato in grado di imprimere un’ulteriore svolta recitativa alla maschera arlecchinesca, adattandola perfettamente al nuovo registro amoroso che avrebbe caratterizzato il processo (testuale e linguistico) di francesizzazione della commedia. Un orientamento sentimentale che oscillava fra i toni naïfs della spontaneità paesana e quelli riflessivi (e perfino saggi) di un animo innamorato sincero e onesto. Varianti già sperimentate in opere come L’amante difficile ou l’amant constant di Rémond de Saint Albine e Antoine Houdar de la Motte (17 ottobre 1716), dove Arlecchino assumeva i toni patetici del primo moroso per essersi illuso di poter conquistare la serva Violetta con un mazzo di semplici fiori di campo, e poi perfezionate, negli anni successivi, grazie a Jacques Autreau e soprattutto a Pierre de Marivaux.
Al primo si deve l’integrazione della naïveté con una sensibilità che, pur nel topos della lezione di galanteria (come quella impartita da Fatime ad Arlecchino in Les amants ignorants del 14 aprile 1720) e dell’ignoranza civilizzata (evidente pure nell’Arlequin sauvage di Louis-François Delisle), contribuì a fare di Arlecchino «l’amant le plus sage et le plus attentif à ses devoirs d’amant» (così nell’atto I, scena 2 di La fille inquiète ou le besoin d’aimer, del 7 dicembre 1723). Un processo di emancipazione che Marivaux, specie nelle prime commedie (Arlequin poli par l’amour, del 17 ottobre 1720; La surprise de l’amour, del 3 maggio 1722; La double inconstance, del 6 aprile 1723; Le prince travesti, del 5 febbraio 1724; L’Ȋle des esclaves, del 5 marzo 1725) portò a compimento, rendendo l’Arlecchino di Thomassin protagonista di un discorso amoroso articolato e complesso, in cui la maschera non è più riducibile a quella icastica del corpo comico, ma prende coscientemente la parola, assumendo i toni e i modi di un personaggio inaspettato: non solo fine conoscitore delle dinamiche d’amore, ma anche lucido e ironico interprete dell’ipocrisia umana, fino a essere l’ingenuo, ma sincero, testimone di un’utopia sociale fondata sui buoni sentimenti e sulla civile convivenza come antidoti alla corruzione.
Protagonista indiscusso della troupe degli Italiens (tanto da essere cofirmatario, insieme a Riccoboni, del regolamento della compagnia), Visentini fu anche tenace custode del suo ruolo, contrapponendosi soprattutto al figlio di Biancolelli, Pierre François, entrato in compagnia (per il suo francese) come Pierrot nell’ottobre del 1717, e subito dopo inserito da Riccoboni nel ruolo di Trivellino, a metà fra la maschera di Scapino e quella, per l’appunto, di Thomassin. Tuttavia, l’avanzare dell’età e la perdita, nel 1731, della moglie (l’attrice Margherita Rusca, in arte Violetta, con lui in compagnia fin dagli esordi), contribuirono, negli anni Trenta, a un progressivo ridimensionamento artistico (e forse anche a una crisi depressiva) dell’attore.
Nonostante il perdurare della sua fama (nel 1732, per esempio, recitò a Rouen con il permesso della corte), le sue parti in commedia si fecero infatti più rade e marginali (come in Les fausses confidences del 16 marzo 1737), fino a quando, abbandonate definitivamente le scene dal Carnevale del 1739, morì a Parigi di tisi e complicazioni polmonari il 19 agosto dello stesso anno.
Dei sette figli di Visentini (tre maschi e quattro femmine), sei ereditarono l’arte dei genitori. Oltre a Gioacchino, tre di loro, Luigia Elisabetta Carlotta, Francesca Sidonia e Francesco, recitarono in compagnia per alcuni anni, morendo tuttavia in giovane età (il maschio, in particolare, forse il più dotato, morì di tisi nel 1729). Caterina Antonietta (che debuttò giovanissima, nel 1719, insieme a Francesco, nella commedia Arlequin Pluton, scritta da Thomas-Simon Gueullette appositamente per loro) sposò un celebre attore e danzatore della compagnia italiana, l’olandese Jean-Baptiste Dehesse. Ancora più fortunata fu la carriera di Vincenzo Giovanni (quindicenne al debutto), erede del nome e del ruolo del padre (e anche di quello di Pulcinella), che fu attore eclettico e abile danzatore, nonostante il suo difficile carattere e la sua propensione al bere. L’ultimo dei Thomassin fu poi Guillaume-Adrien, figlio di Vincenzo Giovanni e Marie-Agnès Siméon, anche lui ottimo danzatore, allievo di Dehesse.
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(Thomassin)
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