CONTIN, Tommaso Antonio
Nato a Venezia il 4 giugno 1723 da Tomaso e Regina Morandi, entrò giovanissimo nella Congregazione dei chierici regolari teatini dove completò i suoi studi letterari e teologici che lo segnalarono ben presto all'attenzione dei superiori. Lettore di teologia nel seminario di Messina, intrecciò una fitta trama di relazioni epistolari con gli esponenti più in vista della cultura ecclesiastica italiana e si aprì alla conoscenza delle più "moderne" teorie filosofiche e politiche. Attento lettore degli illuministi italiani e francesi e uno dei massimi esponenti della corrente giurisdizionalista, dopo il suo ritorno a Venezia divenne il rappresentante più autorevole "della riforma veneta al passaggio tra gli anni sessanta e settanta" pur "entro i duri limiti d'una riaffermata, voluta ortodossia" (Venturi, II, p. 123). Il suo esordio nella vita culturale e politica della Repubblica, dopo minori pubblicazioni erudite degli anni giovanili, avvenne nel momento in cui infuriava in Italia il conflitto tra i gesuiti e i loro nemici. sull'onda degli avvenimenti di Portogallo e Francia; nel 1762 pubblicò anonima una raccolta di Monumenti veneti intorno i padri gesuiti (completata l'anno successivo da una Appendice polemica verso un suo anonimo detrattore) in cui documentava abusi e atti sediziosi commessi dai gesuiti in territorio veneto, eccessi e prevaricazioni dell'azione missionaria in Istria e in altre località e metteva in rilievo il pericolo del monopolio gesuitico sull'educazione della gioventù e le spericolate operazioni economiche che sorreggevano la fortunata espansione della Compagnia. Rivendicando "a Venezia, nel passato come nel presente, una oculata ed efficace politica antigesuitica e anticuriale" il C. divenne uno dei maggiori promotori della "ripresa sarpiana degli anni sessanta" (ibid., pp. 103, 123) e ispirò, insieme al consultore in iure Antonio Montegnacco, la creazione della deputazione ad pias causas e una serie di provvedimenti per la limitazione delle manimorte nel periodo 1766-69. La polemica antigesuitica ritorna aspra e decisa in altri due opuscoli del 1767, stampati anonimi a Venezia ma a lui facilmente attribuibili, intitolati Delle cagioni della espulsione de' gesuiti da tutti i regni..., e Lettera seconda... ove si recano tutti, nessuno eccettuato i documenti attinenti alla medesima fin ora usciti, che si aprono con una significativa esaltazione dell'opera riformatrice del ministro spagnolo Campomanes e, dopo un'ampia illustrazione delle trame gesuitiche per bloccare l'avanzata delle riforme, concludono con un rinnovato invito ai Veneziani a ritornare all'insegnamento giurisdizionalistico e antigesuitico di Paolo Sarpi (Venturi, pp. 57 s.). Ben introdotto negli ambienti più influenti del governo veneziano, venne designato negli anni 17641768 alla delicata e importante funzione di censore dei libri e riviste licenziati dai riformatori dello Studio di Padova e in questa carica, che tra l'altro gli consentì di essere a tempestiva conoscenza delle novità librarie italiane e straniere, interpretò coerentemente la linea di condotta della Repubblica, aperta e tollerante verso la diffusione e discussione di libri ed idee eterodossi con la sola eccezione delle materie più strettamente politiche.
Così il C. diede il proprio decisivo assenso alla traduzione italiana del volumetto di d'Alembert Sur la destruction des jésuites en France, ad altri libri antigesuitici o giurisdizionalistici, ad opere celebri di enciclopedisti e consentì la pubblicazione a Venezia dei Corriér letterario, diretto da Antonio Graziosi, e del Giornale letterario di Carlantonio Pilati, due dei periodici che con maggior vivacità e convinzione proponevano al pubblico veneziano la conoscenza dell'Enciclopedia, del Caffè e in generale del pensiero dei philosophes francesi. Ormai noto ad un vasto pubblico, intorno al 1764 insieme a Gasparo Gozzi, Gianfrancesco Scotton ed Alberto Fortis costituiva un vero e proprio gruppo di preSsione che, pur nei limiti imposti dal cauto governo veneziano, introduceva, come nota il Venturi, "un elemento d'avventura, d'ardimento e di indubbia intelligenza in mezzo all'erudizione e al sorridente moralismo della tradizione" (p. 122).
Nel 1765 non esitava ad attaccare lo stesso pontefice che nella bolla Apostolicum pascendi aveva riconfermato il suo appoggio ai gesuiti: la sua Lettera prima (e poi seconda, terza) intorno alla bolla ... Apostolicum pascendi dominici gregis venne messa all'Indice ed il C. fu invitato a Roma per giustificarsi dinanzi al generale dei teatini, ma venne salvato dal Senato veneziano che gli proibì di lasciare lo Stato. Quattro anni dopo, nel 1769, stampò il suo libro più celebre, quelle Riflessioni sopra la bolla In Coena Domini (Venezia 1769, tradotte in tedesco a Friburgo nel 1770), che secondo il Venturi, costituiscono "effettivamente il punto d'arrivo dei "figli della luce" veneziani negli anni sessanta" (p. 125).
Precedute da una stampa che illustrava la "battaglia dei cavalieri e dei frati illuminata dalla nuda ragione" (ibid., pp. 125 ss.), le Riflessioni prendevano lo spunto dalla vivace polemica suscitata dalla ripubblicazione dopo tanti secoli della bolla medievale per denunciare all'opinione pubblica la pretesa papale di "distruggere questa pace interna delle coscienze ed esterna dei Principati" e soggiogare direttamente "nelle cose più aliene dal Santuario, la podestà secolare ai capricci degli ecclesiastici". Per il C., che si ispira apertamente al pensiero di Paolo Sarpi e di Giustino Febronio (Johan Nikolaus von Hontheim, il vescovo autore del De statu ecclesiae, punto di riferimento quasi obbligato per tutti ìgiurisdizionalisti italiani del momento), la bolla In Coena Domini "non è che il sommario e il compendio delle leggi ecclesiastiche, tendenti per varie vie al dispotismo della corte romana, fabbricato col lavoro di tanti secoli, innaffiato col sangue di milioni d'uomini, e piantato sulla base di tanti sovrani avviliti e di tanti troni rovesciati come lo dimostra l'Istoria ecclesiastica degli ultimi otto secoli interi" (p. 283). Anche se "un dispotismo tanto enorme, arrogatosi dai Romani Pontefici sotto la tutela della scomunica" può decadere solo "per quel motivi medesimi per cui osserva l'autore dello Spirito delle leggi, che decadono pure i dispotismi politici, cioè per il vizio radicale della sua natura" (pp. 49 s.), il C. è convinto che solo le riforme e cioè, per usare le parole dei Venturi, "la diffusione della cultura, la discussione, l'istruzione e la volontà dei governanti di agire secondo l'utile d'ogni singolo paese" siano "le uniche vie per "sterpare le radici" della Bolla della cena" (Venturi, p. 127).
Tra il 1767 ed il 1771 curò anche la traduzione italiana del Dizionario delle eresie, degli errori e degli scismi o sia memorie per servire all'istoria degli sviamenti dello spirito umano rapporto alla Religione Cristiana del francese F. A. A. Pluquet (in 5 volumi; una seconda edizione., corretta ed accresciuta di un volume VI intorno "le frodi degli eretici" uscì sempre a Venezia nel 1771-1772), in cui rivelava profondo interesse e accurata conoscenza di tutte le eresie antiche e moderne.
"Il tono era ortodosso, ma continua pure, nelle aggiunte del C., una dura polemica contro il cattolicesimo della Controriforma", nota il Venturi, e se il filo conduttore del suo pensiero corre sulla netta distinzione tra religione e ragione, l'accento batte con particolare insistenza sulle debolezze ed errori della Chiesa romana. Si veda ad esempio la dura polemica col cardinale Pallavicino, l'avversario storiografico di Paolo Sarpi, la cui Istoria del concilio di Trento "fu giudicata un propugnacolo della fede, ed uno dei libri classici con cui combattere l'eresia" ed invece "cessata l'enfasi del passato secolo, e sviluppati i concetti dalle risonanti parole, e santi titoli, di cui le rivestì, si trova con istupore, che è Istoria piantata sul più stravagante sistema, che unque mai sia emerso nella Chiesa, perché stabilisce il governo ecclesiastico non già sui precetti di Cristo, su i sacrosanti Evangeli, sull'incontaminata tradizione, ma sulle Regole della Politica di Aristotele, la quale mollemente insinuata egli deriva poscia in istrane conseguenze" (p. XIX della Dissertazione preliminare al primo volume della 2a edizione). Fedele alla linea moderata e ortodossa del riformismo veneto, il C. prende le distanze dai più avanzati philosophes francesi, Rousseau, Voltaire, Montesquieu, "dichiarati nemici de' dommi fondamentali dell'ortodossa credenza" ma non risparmia attacchi duri ai probabilisti, lassisti e molinisti; elogia invece il Muratori, nemico di ogni "fanatismo", quindi denominato eretico, "ciò che accade a tutti quelli che difendono intrepidamente la verità e le sane dottrine" (vol. VI, stampato anche a parte col titolo I caratteri dell'eresia proposti ai veri ortodossi, pp. XI e 71).
Sin dall'agosto del 1769 padre Paolo Maria Paciaudi, che a Parma sosteneva con fermezza e passione il tentativo riformistico dei Du Tillot, si dava da fare per avere nella sua università "uno scolaro dei Febronio" e così nel febbraio del 1769 il C. fu chiamato nell'ateneo emiliano all'insegnamento di diritto canonico, cui dette una netta impronta giurisdizionalistica sulla linea del pensiero esposto nelle Riflessioni. L'ostilità di preti e frati non tardò a creargli il vuoto e così nel 1772, nel clima di restaurazione e bigottismo seguito alla caduta del Du Tillot, tornò a Venezia dove rimase per il resto della sua vita. Si impegnò subito in un'aspra polemica col suo tradizionale nemico, il domenicano Tommaso Maria Mamachi: in due grossi volumi su Il diritto e la religione giustificati dall'autore delle Riflessioni sulla bolla in Coena Domini contro le declamazioni dello scrittore Del diritto libero della Chiesa di acquistare e possedere beni temporali sì mobili che stabili (Venezia 1773) il C. si rifaceva alla tradizione sarpiana per affermare la sua concezione di "una profonda divisione tra potere politico e ecclesiastico, tipica del mondo veneto" e appoggiare sul piano politico l'opera di riforma della Deputazione ad pias causas.
"Era un combattimento di retroguardia", nota il Venturi, "perché ormai si stavan spegnendo i lumi della gran disputa veneziana sui beni del clero" (pp. 128, 203); il C., che cominciava a nutrire sfiducia nel progresso delle riforme nella sua patria, cercava vanamente di farsi chiamare dalle nuove università di Trieste, Vienna e Lisbona e alla fine, deluso nelle sue ambizioni, accettò di insegnare "storia ecc!esiastica" nell'ateneo di Padova, dove peraltro non ottenne molto successo, come testimonia anche la modesta prolusione al corso, intitolata De primis historiae legibus (Padova 1777). Se l'ideale di una "riforma religiosa, ma per iniziativa e per volontà dell'autorità politica illuminata", sembrava sempre più lontano da ogni concreta realizzazione, non per questo il C. cessava di "spaziare su tutti gli aspetti della vita e della scienza moderna" e, pur rimanendo "un isolato, un polemista, un giornalista "sempre più chiuso nella "corazza dell'ortodossia", conservava "lo slancio degli anni sessanta" e "la propria indipendenza interiore, il suo libero sguardo sulle convenzioni, le falsità, le ipocrisie" (Venturi, pp. 130 s.).
Nel 1773 scrive per il Giornale d'Italia diretto da Francesco Griselini un lungo saggio su Quale debba essere la educazione de' fanciulli del minuto popolo e come possa meglio promuoversi pel pubblico bene (IX, pp. 369-375, 377-380, 388-391, 397 ss., 404-407, 409-03), singolare esempio di "uno stridente contrasto tra la dimestichezza, che l'autore dimostra di possedere, con le più avanzate teorie educative ed un vieto conservatorismo sociale" (Gullino, p. 64). Ritiene infatti "inutile e pernizioso lo studio delle umane lettere al basso popolo" per evitare che i giovani poveri, sensibili alle lusinghe delle massime dei "recenti riformatori dell'umanità", diventino malcontenti, infelicie propensi a turbare la "pubblica tranquillità", ma ammette per loro l'utilità di "qualche leggera tintura di quelle scienze pratiche che perfezionano gli operai nei loro mestieri" e suggerisce l'istituzione di scuole parrocchiali finalizzate all'istruzione dei fanciulli "nei doveri d'Uomo, di Suddito e di Cristiano" (pp. 389 s., 412). Eppure tra il 1780 e il 1784 il C. dà un contributo importante alla diffusione degli ideali riformatori nel Veneto pubblicando, in fascicoli annuali, i Progressi dello spirito nelle scienze e nelle arti, ossia Giornale letterario che contiene estratti di libri nuovi d'ogni nazione, scoperte utili all'uman genere, problemi di società e d'accademie, notizie di tutto ciò che trovasi ne' fogli letterari d'Italia, in cui firma personalmente (sono suoi gli articoli siglati con la lettera A) numerosi contributi.
Attacca gli ecclesiastici romani e le superstiziose pratiche missionarie dei gesuiti, diffonde la conoscenza degli scritti di Robertson e di Franklin, ma si interessa anche di temi concreti della vita quotidiana, come il cibo dei contadini, il valore nutritivo della polenta, i cicisbei, il regime delle acque; di notevole interesse, per la forte connotazione autobiografica, le commemorazioni di Pietro Verri e di Paolo Frisi e soprattutto l'Elogio storico del signor marchese don Bernardo Tanucci con cui si ricollega idealmente "al ricordo dei più fattivi riformatori italiani" (Venturi, pp. 130 s.).Nel 1792, ormai vecchio in una società lontanadai fremiti riformistici degli anni Sessanta, ricordava il suo biennio di insegnamento a Parma nella Lettera d'un professore dell'università di Padova al chiar.o ab.e D. Carlo Amoretti intorno la gloria postuma del celebre p. Paolo Maria Paciaudi (Padova 1792).
Il C. morì a Venezia il 9 maggio 1796.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Riformatori dello Studio di Padova, filze 337, 340, 341; Parma, Biblioteca Palatina, Carteggio Paciaudi, b. 74; Aus den Tagebüchern Friedrich Münters, Wander und Lehrjahre eines dänischen Gelehrten, a cura di O. Andreasen, I, 1785-1787, Köbenhavn-Leipzig 1937, p. 162; A. F. Vezzosi, I scrittori de' chierici regolari detti teatini, I, Roma 1780, pp. 278-81; A. Pezzana, Memorie d. scrittori e letter. Parmigiani..., VI, I, Parma 1825, p. 153; F. M. Colle, Fasti Gymnasii Patavini, I, 1, Padova 1841, pp. 54 s., 170 (con elenco delle opere); G. Dandolo. La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni. Studi storici, I, Venezia 1855, pp. 316 s.; W. Cesarini Sforza, Il p. Paciaudi e la riforma dell'Univeri. di Parma ai tempi del Du Tillot, in Arch. stor. ital., LXXIV (1916), pp. 130 ss.; G. Natali, Il Settecento, I, Milano 1929, p. 21; F. Fattorello, Ilgiornalismo veneto nel'700, I, Udine, 1933, p. 291; R. Saccardo, La stampa periodica venez. fino alla caduta della Repubblica, Padova 1942, p. 90; O. Pinto, Enciclopedie vecchie e curiose, in La Bibliofilia, XLVI (1944), p. 58; M. Berengo, La società veneta alla fine dei Settecento, Firenze 1956, p. 146; Id., Giornali venez. del Settecento, Milano 1962, pp. XXV ss., LIII, 557, 628; Il giansenismo in Italia. Collezione di documenti, a cura di P. Stella, Zürich 1966-70, I, Piemonte, 1, pp. 545, 556; 2, p. 81; M. L. Pesante, Stato e relig. nella storiogr. di Göttingen. Johann Friedrich Le Bret, Torino 1971, pp. 22 s.; A. C. Jemolo, Stato e Chiesa negli scrittori politici italiani del Seicento e del Settecento, Napoli 1972, ad Ind.;G. Gullino, La Politica scolastica venez. nell'età delle riforme, Venezia 1973, pp. 64 s.; F. Venturi, Settecento riformatore, II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti. 1758-1774, Torino 1976, ad Indicem;G. Melzi, Diz. di opere anonime e pseudonime, I, Milano 1848, pp. 306, 316; II, ibid. 1852, pp. 99, 294, 380, 440.