CHIAVELLI, Tomasso (Tommaso, Tomaso)
Appartenente alla famiglia che da tempo dominava a Fabriano, nacque da Nolfo probabilmente intorno al 1360, dato che quando nel 1435 venne trucidato, insieme con molti dei suoi familiari, da un gruppo di congiurati, era in età veneranda e da tempo era nonno.
Il C. è ricordato nelle fonti per la prima volta nel 1393: il 14 maggio il pontefice romano Bonifacio IX assolse dalla scomunica, comminata per l'adesione all'obbedienza avignonese, il C., Guido e Chiavello Chiavelli. È probabile che il C. fosse associato dallo zio Chiavello nel governo di Fabriano almeno a partire dal 1404: il 7 settembre, infatti, Chiavello rilasciava quietanza al suo camerario generale per tutti i proventi della Terra da questo riscossi, anche a nome del nipote Tomasso. Alla morte di Chiavello (1412 c.), poi, assunse da solo il governo di Fabriano.
Appartengono al 1413 le prime fonti documentali attestanti atti di governo compiuti autonomamente dal C. o sue attività negoziali come capo della famiglia: il 18 febbraio di quell'anno, per es., esenta dagli oneri reali e personali due coniugi del contado divenuti oblati e conversi della collegiata di S. Venanzio; il 22 dicembre conferma la vendita di beni familiari effettuata a favore di Lucimburgo di Lomo Simonetti da Iesi. Nel 1415 dispone e pubblica una nuova redazione degli statuti fabrianesi.
Ai primi del '400 la Terra di Fabriano attraversava un periodo abbastanza prospero: le lotte interne, gli esodi coatti di cittadini, gli interventi armati nel territorio, di cui i Chiavelli erano stati causa diretta o indiretta per buona parte del sec. XIV, rappresentavano un ricordo del passato. La resistenza reiterata alla tirannide nel nome delle libertà comunali sembrava un mito definitivamente tramontato. Del resto lo stesso Guido, responsabile primo di tanti sconvolgimenti, tornato definitivamente al governo di Fabriano, dagli anni Ottanta del secolo precedente, aveva atteso a opere di pace. Gli storici del '500 esemplificano lo stato di prosperità raggiunto da Fabriano ricordando la presenza entro le sue mura di ventiquattro cavalieri aurati, di altrettanti dottori, di sette eccellenti medici. Ricordano altresì come otto capitani di ventura fabrianesi, impegnati in varie zone d'Italia, procurassero fama alla Terra e molte lucrose condotte ai suoi cittadini. Diversi monumenti architettonici di quell'epoca, tuttora visibili a Fabriano, confermano quel benessere e il mecenatismo dei Chiavelli, così come la maturazione in quel luogo di una scuola pittorica, che proprio in quel torno d'anni esprimeva in Gentile il suo massimo rappresentante, suggerisce la qualità dell'humus culturale.
Del lungo governo del C. gli storici della famiglia, compresi quelli cinquecenteschi, così fantasiosi sugli ascendenti, non tramandano notizie. Eppure la minor lontananza nel tempo di quegli avvenimenti avrebbe consentito, almeno in astratto, racconti meno infedeli. Probabilmente l'assassinio del C. e dei familiari consumato nella collegiata di S. Venanzio, assassinio che per anni commosse l'Italia, pur adusa a stragi, quando loro scrissero aveva già distolto l'attenzione da altri avvenimenti forse non secondari. D'altra parte l'incendio del palazzo signorile e dell'archivio seguito alla strage privò loro e noi dei documenti più significativi della famiglia e del suo governo. Si può appena ricordare che Martino V, subito dopo la sua elezione, riconobbe al C. il vicariato su Fabriano e distretto: già nell'agosto del 1417, infatti, appare in un documento con questa qualifica; nel 1418, allo stesso titolo, ricevette le terre di Serrasanquirico e Domo.
L'età avanzata e l'intraprendenza del primogenito Battista indussero il C. ad affidare gradualmente a questo le cure di governo e a soggiornare sempre più frequentemente in campagna. Battista, ricordato come dissoluto e scialacquatore, si sarebbe finanziato con continue "rapine tiranniche". Alcuni cittadini esasperati ritennero che solo la scomparsa della famiglia tanto ramificata avrebbe potuto consentire il ristabilimento di un governo in qualche modo rappresentativo o comunque più favorevole agli interessi di cui essi certamente erano portatori. L'eccidio dei signori da poco consumato nella vicina Camerino (ottobre 1434) fornì esempio e incoraggiamento: non per nulla gli storici han voluto scorgere in un non meglio identificato Arcangelo di Fiordimonte l'ispiratore della rovina dei da Varano e dei Chiavelli. L'aspirazione manifesta del Papato, proprio in quel torno d'anni, di riaffermare il dominio diretto sul maggior numero possibile di terre induceva a confidare nell'impunità.
Il 26 maggio 1435, giorno dell'Ascensione, una quindicina di congiurati entrò in S. Venanzio dove il vecchio C. con i suoi familiari assisteva nel coro alla messa solenne. II celebrante, il canonico don Giovannino, era al corrente della congiura. Sopraffatti dall'emozione e forse tardivamente pensosi della sacertà del luogo i congiurati indugiavano. Giacomo di Nicola, quando il canto del Credo giunse al passo "et incarnatus est de Spiritu sancto", si mosse dal suo posto per chiedere a qualcuno dei compagni il perché dell'indugio, o almeno così racconterà a tragedia avvenuta, per una paritetica distribuzione della responsabilità. Al movimento di Giacomo, inteso dagli altri come avvio, i congiurati si precipitarono ad armi sguainate contro i Chiavelli. Il C., l'unico armato della famiglia, tentò pateticamente di difendersi con un pistolese, ma fu presto sopraffatto.
Caddero i figli Battista, Galasso, Bulgaro, Alberghetto, i nipoti - nati da suo figlio Battista - Gismondo, Piergentile, Chiavello, Guido, Rodolfo, Gentile; i nipoti - nati da suo figlio Guido - Alberghetto e Marco. Non tutti i minori avrebbero trovato la morte in chiesa: alcuni sarebbero stati strappati dal petto delle nutrici e sbattuti col cranio contro il muro quando i congiurati assaltarono le case dei signori. Della discendenza maschile del C. si salvarono i figli Nolfo e Guido, assenti da Fabriano perché al soldo di Francesco Sforza, e forse i due bambini di Guido: Tomasso e Galasso, salvati questi ultimi dalla pietà dei frati di S. Agostino, sarebbero stati calati dalle mura due giorni dopo la tragedia, quando la caccia ai Chiavelli non s'era ancora conclusa. Solo le donne furono sicuramente risparmiate, anche se una prima leggenda le volle ugualmente uccise indi violentate. Dapprima vennero considerate prigioniere; qualche tempo dopo, private dei beni dotali, poterono lasciare Fabriano per le insistenze congiunte del doge Francesco Foscari, di Guido Antonio da Montefeltro e di Francesco Sforza.
Ai congiurati, un'ottantina fra orditori ed esecutori, si fa risalire anche l'incendio della biblioteca dei Chiavelli. A questa, forse per il favoleggiare e il rimpianto che suscitano le cose irrimediabilmente perdute, venne attribuito dagli storici un valore culturale e patrimoniale non comune. Secondo altri l'incendio del fondo librario è una mera invenzione: il Comune avrebbe venduto buona parte dei codici ai Montefeltro.
Un governo priorale, già in carica il giorno successivo alla strage, come fra l'altro attesta un conto aperto presso l'aromatario già fornitore dei Chiavelli, sostituì quello signorile, mimandone senso del decoro e gusto alla crapula. Mancano elementi per accertare se l'abbattimento della tirannide nel nome della libertas ecclesiastica avesse per protagonisti nobili esautorati o borghesi emergenti, o fosse invece il risultato di una sottile trama politica promossa da Francesco Sforza, alleato dei Chiavelli, cui Fabriano fu costretta a darsi pochi mesi dopo. La militanza nell'esercito sforzesco, anche dopo la tragedia, di Nolfo e Guido Chiavelli, colpiti così profondamente negli affetti familiari, ha fatto ritenere temeraria l'ipotesi. Non si comprende, tuttavia, come i congiurati, durante l'elaborazione del disegno tirannicida, sperassero di sottrarre la Terra al dominio dello Sforza che stava già spadroneggiando nelle Marche e nell'Umbria, e col titolo - sia pure estorto - di vicario generale della Marca e gonfaloniere della Chiesa era legittimato anche formalmente a intervenire nelle cose di Fabriano. Che poi i rapporti tra Fabriano e lo Sforza si rivelassero tutt'altro che idilliaci, e tali da far rimpiangere i vecchi signori, che i tirannicidi solennemente redarguiti fossero tenuti in quarantena, è altro discorso.
Del rilevante patrimonio posseduto dal C. e familiari abbiamo notizia attraverso i documenti relativi alla lunghissima lite svoltasi tra il Comune di Fabriano e la Camera apostolica. Il primo riteneva i beni dei Chiavelli di sua spettanza perché acquisiti direttamente o indirettamente con malversazioni ai danni della Terra, o comunque fruiti dagli stessi come capi di questa. La Camera li reclamava in quanto i Chiavelli negli ultimi tempi del loro dominio sarebbero stati fedifraghi per aver stretto rapporti con i nemici della Chiesa. Tra i beni appartenuti ai Chiavelli, oltre che edifici vari, compaiono grosse proprietà terriere e molti opifici: mulini, gualchiere per la fabbricazione della carta (produzione tipica di Fabriano) e per la lavorazione dei panni di lana. La vecchia famiglia feudale, discesa dal primitivo feudo della Capretta presso Attiggio e inurbatasi nel XII sec., aveva saputo adeguarsi ai tempi.
Del figlio del C., Battista, mancano precise notizie documentarie, così che non è possibile valutare criticamente il giudizio dato dai cronisti e recepito dagli storici cinquecenteschi sul suo governo. Si deve, comunque, tener presente che le accuse a lui rivolte potrebbero esser state enfatizzate per meglio giustificare, anche sul piano morale, l'azione dei congiurati. Battista sposò Guglielma da Varano, dalla quale ebbe sei figli e sette figlie. Nell'eccidio del 1435 vennero uccisi tutti i maschi, Gismondo, Piergentile, Chiavello, Guido, Rodolfo e Gentile. Si salvarono invece la moglie e le figlie (Agnese, Elisabetta, Piccardina, Camilla, Costanza, Margherita e Nicoletta), le quali il 27 luglio dello stesso anno, come si è detto, vennero rilasciate dal governo fabrianese e trovarono accoglienza presso la corte urbinate. Le loro condizioni economiche, in seguito all'esproprio dei beni familiari, furono sempre misere. Nel 1449, da Camerino ove si erano trasferite, chiesero alla Camera apostolica la restituzione della dote materna; ma, sembra, senza successo.
Fonti e Bibl.: Un nucleo di docum., molti dei quali di nessun interesse biogr. per i Chiavelli ricordati nel testo, sono conservati nell'Arch. stor. comun. di Fabriano, sez. Cancelleria Clavellorum, fascicoli 10. Si vedano soprattutto i regesti e le ediz. di fonti seguenti: A. Zonghi, Docum. stor. fabrianesi, Fabriano 1881, pp. 7 s.; R. Sassi, Le pergamene dell'arch. domen. di S. Lucia di Fabriano, in Fonti per la storia delle Marche, Ancona 1939, nn. 129 p. 99, 157 p. 106, 160 p. 107; Id., Docum. chiavelleschi,ibid., Ancona 1955, ad Indicem. Sived. inoltre: P. C. Decembrio, Opuscula historica, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XX, 1, a cura di A. Butti-F. Fossati-G. Petraglione, p. 639; G. Simonetta, Rerum gestarum F. Sfortiae Mediolanensium ducis commentarii,ibid., XXI, 2, a cura di G. Soranzo, pp. 59 s., 62; F. Sansovino, Della origine et de' fatti delle famiglie ill. d'Italia, Vinegia 1582, ff. 198v-199r; C. Lilii, Dell'historia di Camerino, Macerata 1649-1652, II, pp. 170-78; P. Pellini, Dell'historia di Perugia, II, Venezia 1664, pp. 382 s.; G. D. Scevolini, Dell'historie di Fabriano, in G. Colucci, Delle antichità picene, XVII, Fermo 1792, pp. 106-10; M. Mariani, Francesco Sforza e la città di Fabriano,1435-1443, Senigallia 1908, pp. 35-43; Id., Lo statuto fabrianese dell'anno 1436, in Atti e mem. della R. Deput. di storia patria per le prov. d. Marche, n.s., V (1908), pp. 39-74; V. Benigni, Compendioso ragguaglio delle cose più notabili di Fabriano, Tolentino 1924, pp. 80-84; R. Sassi, Strascichi della strage dei Chiavelli nel carteggio fra i Montefeltro e la Comun. di Fabriano, in Urbinum, V (1931), 5-6, pp. 17 s.; Id., Un'antica narrazione ined. dell'eccidio dei Chiavelli, in Studia picena, VIII (1932), pp. 221 ss.; Id., I Chiavelli, Fabriano 1934, pp. 42-46; Id., L'albero geneal. dei Chiavelli signori di Fabriano, in Atti e mem. d. Deput. di storia patria per le Marche, s. 9, XI (1956), pp. 15-26; Id., L'ultimo dei Chiavelli fabrianesi e il suo patrimonio,ibid., pp. 5-13; P. Partner, The Papal State under Martin V, London 1958, pp. 59 145, 190; A. Esch, Bonifaz IX. und der Kirchenstaat, Tübingen 1969, ad Indicem.