TOLLERANZA
. Questo termine si può definire solo in contrapposizione al suo opposto, l'intolleranza: è dunque l'astenersi, da parte d'individui, società religiose, stato, ecc., dall'osteggiare o perseguitare chi professi determinati principî, specialmente morali e religiosi. Ma è da notare che tolleranza implica sempre una condanna, la quale può rimanere teorica, o tradursi nella pratica imponendo determinate condizioni al cui adempimento è sottoposto il permesso di manifestare i principî tollerati. Nel primo caso, la tolleranza si avvicina al riconoscimento di un diritto spettante all'individuo, di non essere violato nell'intimità del suo mondo etico religioso, e quindi non impedito nell'estrinsecazione dei suoi sentimenti o delle sue idee; onde si viene a costituire legalmente una sfera di liceità soggettiva e correlativamente una vera e propria tutela pubblica. Ma a questo punto il concetto di tolleranza viene a sfociare, per così dire, in quello di libertà religiosa. Ora, la tolleranza è meno della libertà riconosciuta, la quale non fa appello alla buona volontà di chi tollera, ma, proclamata l'esigenza del singolo a non essere impedito nel pensiero e nella fede, nelle estrinsecazioni lecite di questo e di quella, ricerca che l'autorità non intervenga ad impedirla; la tolleranza è corrispettiva a condizioni di fatto, materiali o spirituali che siano, ma non implica alcun diritto subiettivo. Ond'è che la tolleranza stessa, proclamata come un ideale e rivendicata in certe circostanze storiche, può apparire offensiva e diventare odiosa in altre. Ma la libertà religiosa è uno svolgimento della tolleranza: e non solo idealmente, ma anche storicamente.
A proposito delle religioni naturali e nazionali, si possono ripetere le osservazoni fatte a proposito dell'intolleranza (v.). In realtà, l'accogliere una divinità nuova accanto a quelle nazionali, in qualunque forma ciò avvenga (per es., col farne la paredra, o il figlio, o il genitore d'un altra; o mediante cerimonie del tipo dell'evocatio romana; o col giustificare questo accoglimento mediante oracoli o vaticinî come quelli dei Libri Sibyllini) non è una manifestazione di tolleranza, così come non sono atti veri e proprî d'intolleranza i divieti motivati da esigenze di carattere politico. Più vicini all'intolleranza si è quando un dominatore, volendo imprimere nel popolo soggetto il segno della propria civiltà, vieta ad esso l'esercizio della religione, come accadde, per es., agli Ebrei sotto Antioco Epifane; alla tolleranza, allorché il conquistatore lascia al popolo dominato la sua religione nazionale. E può accadere che la recezione non si limiti all'accoglimento d'una figura divina di più in un pantheon più o meno organizzato, ma giunga all'accettazione anche di vere e proprie dottrine; che, senza venire accolte integralmente ed esclusivamente, con il totale abbandono cioè della religione tradizionale (nel qual caso si ha conversione), s'incorporano tuttavia con essa, in una forma di sincretismo.
Ma il sincretismo non è tolleranza; anzi, in un certo senso, ne è la negazione. Poiché anche nel caso che abbiamo definito come il più vicino all'intolleranza (e si potrebbe aggiungere l'esempio del cristianesimo durante i primi tre secoli), troviamo che la religione perseguitata è appunto una di quelle che sono state caratterizzate come per natura loro intolleranti: religioni fondate, poggianti sulla rivelazione (la quale esige altresì un canone delle scritture sacre e un'interpretazione tradizionale e accolta da tutti, cioè un'ortodossia), universali e pertanto proselitistiche. Sono queste religioni che non possono venire a compromessi con altre affermandosi come "vera", e quindi l'unica possibile, una religione di questo tipo esige, logicamente, che lo stato ne riconosca la verità e la difenda e si metta al suo servizio; o per lo meno, che non la ostacoli. Perciò il problema della tolleranza sorge soltanto là dove vi è intolleranza, e l'autorità sente il dovere di essere intollerante: particolarmente, come dimostra lo svolgimento storico dell'idea in Occidente, di fronte al fatto che le religioni del tipo su definito mostrano una tendenza a suddividersi, a dar luogo alla formazione di "sette" o "eresie", ciascuna delle quali si afferma come ortodossa e mira a escludere le altre; mentre pure non si oscura del tutto la coscienza dell'origine comune. Precisamente da tale coscienza, dalla convinzione che le differenze dogmatiche e teologiche abbiano un valore secondario di fronte al fatto dell'origine comune e ai principî fondamentali della rivelazione, da tutti ammessi, sorse in alcuni ambienti cristiani l'idea della tolleranza, come di un dovere imposto anche dalla carità, in vista di una riconciliazione dei gruppi in contrasto. Ma in altri ambienti e in altre circostanze, la tolleranza è conseguenza di atteggiamenti spirituali più vicini allo scetticismo, oppure al sincretismo: essa può derivare cioè dalla persuasione che il giungere alla verità suprema sia per la mente umana impossibile, e che nessun uomo abbia per conseguenza il diritto di proclamare l'assoluta verità di una dottrina, in confronto ad altre; oppure che alla verità stessa si possa giungere per diverse vie, ciascuna delle quali ha la sua giustificazione. Questa concezione è abbastanza vicina all'altra, di cui si hanno esempî nello gnosticismo orientale, nel manicheismo e nello stesso Islām, cioè che la verità si sia rivelata in forme diverse ai varî popoli, ciascuno dei quali ha avuto il suo profeta. È anche vero che tale concezione è temperata, sovente, dall'affermazione, che singole religioni fanno, che il loro fondatore è stato il depositario della rivelazione più perfetta e definitiva. Come esempî di forme di tolleranza più o meno improntate a tali motivi, si possono citare la famosa legislazione epigrafica di Asoka, e anche, benché determinata da ragioni politiche e culminata in una vera e propria riforma religiosa, la politica religiosa di Akbar. Ma il motivo che la verità sia nascosta e che le varie religioni in fondo siano mezzi ugualmente e adeguati e inadeguati per giungere al divino, risuona già in qualche modo nella parabola medievale dei tre anelli, onde discende, per essere rinnovato e approfondito, al Nathan der Weise di G. E. Lessing.
Le considerazioni fatte spiegano perché, nel mondo occidentale, non si possa parlare di vera tolleranza nel mondo dell'antichità classica e l'esigenza di essa si sia fatta sentire, per la prima volta, con il cristianesimo: circa i rapporti del quale con l'impero romano, v. chiesa; persecuzione; roma: Storia. Ma il carattere di religione rivelata proprio del cristianesimo spiega altresì come esso, dopo avere invocato la tolleranza per sé, non volesse accordarla ai culti pagani, alle eresie e ad altre religioni, come il giudaismo e il manicheismo. Paradosso, questo, apparente, e che trova la sua giustificazione nella coscienza che la verità debba esser difesa a ogni costo. Tipica è, a tale proposito, la condotta di un sant'Ambrogio e quella di un sant'Agostino che, dopo aver sostenuto che verso i donatisti si dovesse ricorrere soltanto alla persuasione, accetta il principio della coazione e formula, con le parole di Luca (XIV, 23), la dottrina del compelle intrare e pone il quesito, se sia peggior male la mors animae o la libertas erroris: domanda alla quale, con lui, tutti i persecutori risponderanno allo stesso modo. E, divenuto religione dominante, religione ufficiale, il cristianesimo provocò dallo stato la legislazione contro il paganesimo, l'eresia, ecc. L'eresia divenne un crimen publicum, passibile di pena capitale. E tale rimase per tutto il Medioevo. Confessionista e fedele, lo Stato non fu meno deciso della Chiesa nel difendere l'ortodossia: il bando della Chiesa è seguito da quello dell'Impero. L'eresia ha come peccato e crimen, effetti religiosi e civili insieme. Il rinato culto del diritto romano col sec. XI risuscita le norme giustinianee, mentre la codificazione canonica da Graziano in poi, riprendendo gli argomenti patristici e conciliari, accentua la concezione invalsa, cui corrisponde tutta una prassi non favorevole alla tolleranza.
Una sola voce si leva a favore della tolleranza: quella di Marsilio da Padova nel suo Defensor pacis (1324). Opposta alla legge umana è la legge divina. Coercibile quella, in quanto dà luogo a un giudizio terreno e implica una sanzione mondana, l'altra non lo è, se Dio solo ne è il giudice ed eterne le sanzioni che ne derivano. La Chiesa, pertanto, non ha alcuna autorità coattiva. Strumento non d'imperio temporale, ma di magistero, mira solo all'educazione dello spirito. La coscienza come tale non è coercibile. Qualche accenno liberale si trova anche in Nicolò da Cusa; e Marsilio Ficino, ricollegandosi a lui, scorge il divino in tutte le cose e quindi nell'uomo, epperò ritiene la varietà delle religioni affatto secondaria. Tendenza, come abbiamo visto, al sincretismo e insieme a una tolleranza che talora si colora di scetticismo: e da questo punto di vista occorre metterci per intendere il pensiero religioso di Valla, di Pomponazzi, di Bruno e infine di Campanella, il quale parla di una religione occulta, originaria (abdita) alla base di ogni religiosità. Tuttavia non si può dire che il Rinascimento si sia posto il problema della tolleranza nei suoi termini precisi.
Ma neppure la riforma protestante, che anch'essa fu del tutto intolleranate: basti citare la "controversia sacramentaria" o circa l'Eucaristia. Qualche affermazione di Lutero gli ha fatto attribuire da taluni idee di tolleranza; ma si ricordi la sua condotta nei riguardi dei "profeti celesti", di Carlostadio, di tutti i dissenzienti da lui, e si constaterà ch'egli non fu meno intollerante di Calvin0, a cui carico sta il rogo di M. Serveto in Ginevra (1553): atto che, approvato da Melantone, suscitò l'opposizione di altri come il senese B. Ochino, il chierese M. Gribaldi Mofa, il siciliano C. Renato: tutti italiani. E non senza ragione come si vedrà. Ma appunto a quel triste episodio si collega il maggior documento contemporaneo a favore della tolleranza religiosa, lo scritto apparso con lo pseudonimo di Martinus Bellius, De haereticis an sint comburendi (1554). Si ritiene generalmente, ma non è ben dimostrabile, che L. Sozzini ne sia stato l'ispiratore, S. Castellion l'estensore, mentre Celio Secondo Curione avrebbe approntato i materiali. Nello stesso anno da parte calvinista il Beza rispose con l'Antibellius.
A promuovere la tolleranza erano soprattutto due moti periferici del protestantesimo, diversi affatto tra loro, l'anabattismo e il socinianesimo. Di origine germanica il primo, moto scomposto di plebi mistiche, capaci di sacrifici eroici e di eccessi turbolenti, nella spietata persecuzione cui andò incontro, nel seno dello stesso luteranesimo, sentì utile proclamare l'incoercibilità della coscienza religiosa, mentre in fondo il suo fanatismo presupponeva un'interiore e radicata intolleranza. Italiano il secondo, apparve a studiosi come F. Ruffini espressione di pochi intellettuali appartenenti alla nobiltà e alla borghesia, che imbevuti di spirito umanistico aspiravano a una riforma integrale su basi razionalistiche. Un'esigenza scettica investiva quindi il sistema dei dommi che si voleva ridotto in più ristretti termini, tali da costituire un terreno comune a tutte le confessioni cristiane. Appunto in vista di ciò, i sociniani, mentre combattevano i dommi ritenuti superflui, quali la Trinità (donde il nome di antitrinitarî o unitarî), proponevano la tolleranza come mezzo all'universalità religiosa cristiana.
Tra gli scritti in favore della tolleranza anche gli Stratagemata Satanae, di G. Aconcio, vogliono ridurre i dommi all'essenziale per creare un'intesa per la reciproca tolleranza; e così l'Henoticum christianum del senese Mino Celsi (1577), più largamente documentato.
In fondo a queste dottrine scopriamo l'idea umanistica della religione naturale, che in Germania s'intreccia con tendenze mistiche, in S. Fianck e in D. Coornhert, i quali si richiamano a un'esperienza religiosa affatto interiore e che può essere vissuta da uomini appartenenti alle più diverse confessioni. Ma in Francia e in Inghilterra questi concetti assumono rigore di pensiero riflesso, quasi rimedio contro l'intolleranza delle guerre religiose. Montaigne ne è conquiso. J. Bodin nel suo Colloquium heptaplomeres sostiene che la religione naturale è sufficiente e che tutte le religioni positive, nessuna esclusa, sono gradite a Dio, se praticate con animo retto. Infine E. Herbert of Cherbury, nel suo De veritate (1624), mentre trova la facoltà religiosa propria di ogni uomo sano, per quanto svolta diversamente e non sempre ugualmente espressa, vuole addirittura fissare le proposizioni fondamentali che costituiscono la religione naturale e senz'altro le ritiene sufficienti. Con ciò, più che alla tolleranza, si mira ad eliminare il contrasto confessionale, eliminando le stesse confessioni, Ma anche questo filone umanistico contribuì a generare uno spirito di umana comprensione, che, talora pervaso di razionalismo scettico, preparò il terreno alla formulazione piena dell'idea di tolleranza.
La fonte della tolleranza e quindi della libertà religiosa, fu il socinianismo, che perseguitato dai paesi protestanti e rifugiatosi in Polonia, ne fu sfrattato dalla Controriforma e si disperse in Olanda, dove alimentò le tendenze degli arminiani o rimostranti, fra cui U. Grozio. E in Olanda, nel sec. XVII, questi germi maturarono: ivi nel 1670 Benedetto Spinoza pubblicò il Tractatus theologico-politicus, in cui la libertà di coscienza si allarga a divenire libertà di pensiero; ivi nel 1685 Giovanni Lake compose e nel 1689 stampò e diffuse la celebre Epistola de tolerantia; ivi infine uscì alla luce nel 1686 il Commentaire philosophique sur les paroles de Jésus Christ: "Contrains-les d'entrer" di Pietro Bayle. Vasta elaborazione, cui non potevano rimanere estranei gli altri paesi.
Gli elementi anabattistici e arminiani penetrati dall'Olanda in Inghilterra vi resero più tolleranti gl'Indipendenti, e si ebbero scritti importanti, come The bloody tenet of persecution for cause of conscience di R. Williams (1644) e infine la stupenda Areopogitica di Milton (1644). L'influsso di Grozio fece penetrare l'idea della tolleranza nei giuristi della scuola del diritto naturale in Germania, con S. Pufendorf e soprattutto C. Thomasius, che subì anche l'influsso del Lake. La sua concezione appuntata sulla dualità di diritto e morale, incoercibile questa perché relativa al forum internum, coercibile quello perché corrispettivo al forum externum, mira in fondo ad assicurare saldamente una sfera di liceità giuridica, il mondo della coscienza, etica e religione, da sottrarsi alla possibilità di intervento dello stato: ed egli nega all'eresia il carattere di crimen. Dal Thomasius derivano giuristi, quali il Bohmer, il Moser, finché l'idea della tolleranza è accolta da tutti gli spiriti colti dell'illuminismo. E così anche in Francia, per cui basti ricordare Voltaire, il cui Traité sur la tolérance, à l'occasion de la mort de Jean Calas (1763) è decisivo, partendo dal triste episodio di un protestante ingiustamente condannato a morte, per orientare l'opinione pubblica e per assurgere a considerazioni di più vasta portata. E in Italia Alberto Radicati di Passerano, G. Gorani, C. A. Pilati, i maggiori giansenisti dal Tamburini allo Zola, al Palmieri, propugnarono analoghe dottrine; con il conte di Cavour, cui non fu estranea, come dimostra F. Ruffini, un'esperienza protestantistica e mediatamente sociniana, nella circolazione del pensiero europeo, ritornava all'Italia ciò che essa alcuni secoli innanzi aveva donato.
Si comprende facilmente come siffatte imponenti manifestazioni intellettuali dovessero influire sull'opinione pubblica e quindi sulle grandi mutazioni istituzionali. Fino a che l'idea di tolleranza non fosse radicata nelle coscienze, i consueti strumenti pubblicistici apparvero insufficienti a frenare l'intolleranza, che attraverso le guerre di religione, e i conflitti esterni cui la religione non era estranea (per es., la guerra dei Trent'anni), dissanguava l'Europa. Le paci religiose in ogni caso erano limitate ai contraenti, quella di Augusta (1555) a cattolici e luterani, nell'esclusione dei riformati seguaci di Calvino e Zuinglio, la successiva di Vestfalia (1648) a queste tre confessioni, a parte poi che i contraenti erano i principi cui si garantiva il diritto di mutare religione senza che ne derivasse analoga facoltà per i sudditi, obbligati in ogni caso a seguire il sovrano. La massima cuius regio illius religio, mnsentiva alle minoranze solo il cosiddetto benefici um emigrationis, la via dell'esilio. Analoghi caratteri ha, per la Francia, l'editto di Nantes (1598), il cui carattere limitato è fatto palese dallo stesso titolo: Editto del re sulla pacificazione delle turbolenze di questo reame.
Solo più tardi appaiono le prime formulazioni di principio nel senso della tolleranza. R. Williams fonda nell'America Settentrionale la colonia di Providence e pone a base della costituzione l'assoluta libertà religiosa; l'esempio è seguito nel 1649 dal cattolico Maryland che promulga un atto di tolleranza. Attraverso tali formulazioni parziali si maturano le dichiarazioni americane dei diritti, che sull'esempio di atti inglesi più antichi soltanto dichiarativi di privilegi anteriori, assurgono a valore costitutivo, rilevando non privilegi storici ma essenziali attributi della persona (diritti innati o naturali). Si giunge così alla vigilia della solenne affermazione della libertà religiosa, nelle grandi Dichiarazioni dei diritti, in America (1776) e in Francia (1789). Non a torto è stato osservato che il diritto alla libertà religiosa è il primo ad essere solennemente proclamato. Il che vuol dire che esso è stato ed è il più sentito dalla coscienza degli uomini moderni.
Le grandi dichiarazioni dei diritti aprono la via al movimento costituzionale, che le idee di tolleranza e quindi di libertà religiosa svolge, sia pure attraverso particolari difficoltà ambientali e talora soste: per es., in Austria, mentre sino da Giuseppe II nel 1781 era stata concessa una certa libertà ai protestanti, l'uguaglianza politica non risale che all'8 aprile 1861. Parimenti l'Inghilterra che accordò la libertà ai protestanti dissidenti nel 1689, l'estese ai sociniani solo nel 1813, ai cattolici nel 1829, agli ebrei nel 1858, agli atei nel 1888, per quanto alcune limitazioni particolari permanessero anche dopo.
In Italia la legge fondamentale della libertà religiosa è quella del 19 giugno 1848. Nell'unico articolo proclama che la "differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all'ammissibilità alle cariche civili e militari". Il primo articolo dello statuto fu quindi inteso come un'involuzione, in quanto, mentre proclama la cattolica religione dello stato, accenna alle altre confessioni come tollerate. Con la legge 27 maggio 1929, n. 810, per l'esecuzione dei patti lateranensi, sembra ritornarsi al concetto statutario di una religione dello stato: invero una nuova esigenza anima la formulazione più recente. ll riconoscimento della particolare situazione giuridica della religione cattolica non esclude l'omaggio al principio della libertà di coscienza, e la legge assicura il libero esercizio dei culti; le cui dottrine e i cui riti non siano contrarî all'ordine pubblico. È questo lo spirito che anima la legge 24 giugno 1929, n. 1159, la quale parla non più di culti tollerati, ma di culti ammiessi e ne proclama la libertà, purché non contrastino all'ordine pubblico e al buon costume. Donde derivano tra l'altro l'uguaglianza dei cittadini, qualunque sia la religione professata, o anche se non ne professino alcuna, per quanto concerne il godimento dei diritti civili e politici e nell'ammissione alle cariche civili e militari; e la libertà di discussione in materia religiosa, intesa come libertà di propaganda e di proselitismo.
Bibl.: F. Ruffini, La libertà religiosa, Torino 1901; id., Corso di diritto pubblico ecclesiastico italiano. La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, ivi 1924. Inoltre: J. Simon, La liberté de conscience, Parigi 1857; J. K. Bluntschli, Geschichte des Rechts der religiösen Bekenntnissfreiheit, Elberfeld 1867; A. Matagrin, Histoire de la tolérance religieuse, Parigi 1905; A. Blouché-Leclercq, L'intolérance religieuse et la politique, Parigi 1911; A. Vermeersch, La tolérance, Lovanio 1912; G. Thélin, La liberté de conscience, Ginevra 1917; L. Luzzatti, Dio nella libertà, Bologna 1926. Per quanto concerne singoli periodi storici e determinati autori: H. Hermelink, Der Toleranzgedanke im Reformationszeitalter, Lipsia 1908, pp. 37-72; W. R. Jordan, The Development of religious toleration in England, ecc., Londra 1932; J.-M. Dargaud, Hist. de la liberté religieuse en France et de ses fondateurs, voll. 4, Parigi 1859; S. H. Cobb, The rise of religious liberty in America, New York 1902; l. Whipple, Our ancient liberties, ivi 1927.