COSTANTINI, Toldo
Nacque a Serravalle (oggi Vittorio Veneto prov. di Treviso) nel 1576, come si deduce dal ritratto posto nell'edizione del 1648 del suo poema in cui si legge "anno aetatis suae LXXII".
La sua famiglia "al tempo della lega di Cambray in cui tutta l'Europa conspirò contro la repubblica di Venezia" riuscì con le proprie forze a serbare fedeli ad essa i castelli di Cadore e di Bottestagno ricevendone in cambio stima e privilegi per sé e per tutto lo Stato cadorino (Le glorie degli Incogniti, p. 405).
Studiò giurisprudenza a Padova, componendo nel frattempo versi. A vent'anni cantò lo sposalizio di madonna Isabella Minucci e - alla tragica morte di lei - ne tessé l'elogio. Ancora studente compose un poemetto pastorale: La metamorfosi della Brenta e del Bacchiglione, edito a Ferrara nel 1612.
È la storia di un pastore - Bacchiglione - che non si cura di Amore, tutto intento come è alla caccia. Ma Cupido si vendica di questo disinteresse e gli infigge un dardo nel petto mentre colpisce con un altro dardo "impiombato a freddo" il cuore di Brenta, una ragazza che non vuole saperne di lui. Il finale è facilmente intuibile: la fanciulla, per difendersi dagli assalti di Bacchiglione, invoca Diana e viene trasformata in fonte. Il pastore invoca a sua volta gli dei perché abbiano pietà di lui, e viene anch'egli trasformato in fonte. Brenta e Bacchiglione - diventati due fiumi- consumano il loro simbolico amplesso. Come osserva il Cosmo, il poemetto ci serve più che altro per conoscere l'influsso che sul C. giovane esercitò il Tasso.
Compiuti gli studi, fu per molti anni vicario generale della diocesi di Treviso sotto i vescovi Francesco Giustiniani e Silvestro Morosini, "ma per cagione di qualche differenza succeduta tra 'l foro ecclesiastico e secolare, fu costretto a cedere ad abbandonare lo stato Veneto, ed a ritirarsi a Roma" (Biblioteca Aprosiana, p. 115). L'Aprosio non ci dice però quali siano stati i contrasti che hanno opposto il C. al foro secolare. Certo nella Venezia dell'interdetto e di Paolo Sarpi la difesa della supremazia del Papato, condotta dal C. nel suo poema, non poteva essere vista di buon occhio.
A Roma ottenne diversi vicariati: a Tuscolo, Portuense, Ostia e, infine, a Velletri dove rinnovò l'accademia col nome di Riaccesi (Theuli, p. 269).
Dall'introduzione all'edizione del 1642 del poema Il Giudicioestremo sappiamo della grave malattia che lo spinse ad abbandonare la carriera ecclesiastica e a ritirarsi in una villa del Trevisano per dedicarsi alla letteratura. Qui diede inizio alla stesura del Giudicio estremo, e nel 1637 invitò presso di sé Angelico Aprosio perché lo aiutasse a correggere l'opera. Fu quindi chiamato nel 1640 - dovendo perciò rinunciare al vicariato offertogli sotto il vescovo Marco Morosini - al rettorato del collegio dei nobili in Padova. Primo rettore del collegio - fondato nel 1637 - era stato Baldassarre Bonifacio, amico del C. e, in seguito, vescovo di Giustinopoli. Tra i lettori del collegio vi era il fiorentino Niccolò Pinelli che aiutò il C. a migliorare la sua già ricca biblioteca. Alla chiusura del collegio - avvenuta per decreto del doge nel 1642 - il C. si ritirò presso il fratello Severino, famoso avvocato. L'elogio che di lui ci resta nelle Glorie degli Incogniti, edite nel 1647, ce lo descrive a Venezia, "carico d'anni e di glorie".
Secondo le Memorie serravallesi del canonico Laurenti (1750-1820 circa) il C. morì nel 1648. Certo fino al 3 dicembre del 1648 egli viveva ancora, come si può desumere dai libri delle "parti" consiliari della Comunità di Serravalle: infatti in quel giorno il Consiglio serravallese votò con suffragi unanimi la proposta di affidare al cancelliere la custodia della copia del Giudicio estremo donata dal C. alla città, affinché "involto in tela lo riponga nella nostra cancelleria in perpetua preservatione e memoria", e di comunicare ciò al poeta ringraziandolo (vol. A. A., p. 147, cit. da E. Zanetti, Una figura del secentismo veneto, Guido Casoni, Bologna 1933, p. 237). È più probabile quindi che vivesse ancora - come presume il Cosmo - nel 1651, anno in cui appariva la terza edizione del poema, "ricorretto, abbellito et accresciuto dall'istesso autore". I primi dodici canti erano usciti fin dal 1642, e nel 1648 era uscito l'intero poema composto - come è scritto nel frontespizio - ad imitazione di Dante, nonostante il metro che non è la terzina ma l'ottava rima.
Il Giudicio estremo è una visione: il poeta viene guidato in spirito dal suo angelo custode nella valle di Giosafat ove vede "in tremante schiera, del Giudicio... l'immagin vera".
Non ècasuale che il poema sia scaturito dall'ambiente padovano. Nonostante le formidabili stroncature che Dante ricevette nel Seicento - valga per tutte quella di Francesco Fulvio Frugoni - Padova, forte anche di una tradizione che va da Sperone Speroni nel Cinquecento a Flavio ed Antonio Querengo nel Seicento, tenne alto il culto e lo studio di Dante. Certo, per superare la diffidenza che Dante suscitava in epoca controriformistica come avversario del Papato e critico della Chiesa, bisognava invece affermare con forza l'ideale teocratico e limitare al massimo la presenza di personaggi contemporanei e i problemi più scottanti del tempo. È significativo ad esempio il silenzio sul Galilei. Eppure il C. era amico di Antonio Querengo e di suo nipote Flavio, che fecero parte - insieme con il Galilei - dell'Accademia dei Ricovrati (L. Lazzarin, I Ricovrati di Padova, Galileo Galilei e le loro imprese accademiche, in Scritti e discorsi nel IV centenario della nascita di G. Galilei, Padova 1966, p. 207). Inoltre egli studiava a Padova quando Galilei teneva in quella città le proprie lezioni.
In compenso abbondano le dediche ai potenti: al doge, al Senato veneziano e a Ferdinando granduca di Toscana, al quale - diceva - sarebbe bastato vibrare un "picciol raggio dal regio ciglio" e sarebbe stato "gran face" "a l'oscuro suo stile, "onde poi chiaro / splenda e chi sa se del dantesco al paro" (canto XIII). Certo la modestia non era il suo forte, ma le numerosissime lodi degli amici - inserite poi all'inizio del poema - gli avevano fatto sperare molto. Notevole l'epigramma di Flavio Querengo che - concludendo -gli augurava di poter "giunger al segno di chi cantò quel triplicato regno".
Nel canto V si tocca il patetico della presunzione: qui infatti, riprendendo i famosi versi del primo canto del Paradiso, è lo stesso Dante a predire al C. "che tu la fiamma ardente / sarai, ch'io presagii tanti anni avanti, / e che le mie faville, ancor non spente / seconderai con vivo ardor costante".
Nonostante il C. dichiari polemicamente nel I canto che "la seria musa sua""prendea vile le fole de' romanzi" - e questo mentre a Venezia, specie nell'ambito dell'Accademia degli Incogniti, proliferava il genere romanzesco - in effetti il suo giudizio universale mostra una forte venatura barocca già nello epigramma che accompagna la terza edizione: "Questo titol, che par rozzo sileno / ha pien di meraviglie il seno". Nel canto I prosegue annunciandoci "un non più visto orrido, e bello / del futuro giudicio alto modello". Dante è visto attraverso l'"occhiale" della meraviglia: infatti egli è "quel ch'ha tante sentenze, sì ammirande / che ne stupisce la natura e l'arte" (canto V, strofa VIII). Si inserisce senzaltro in questo gusto barocco la ammirazione che il C. nutre per il poeta concittadino Guido Casoni che - secondo gli studi di O. Besomi - era all'avanguardia nella invenzione metaforica rispetto allo stesso Marino.
Tornando al poema, ben poco di spirituale c'è nel Paradiso che s. Tommaso descrive al suo discepolo: una città meravigliosa d'oro e di gemme dove i diletti si rendono sensibili ("S'odon melliflui e dilettosi canti... onde lo udito appien lieto rimane", canto XVIII strofa 43; "Sente il suo gusto anche il palato", ibid., strofa 44; "Né riman privo di diletto il tatto", ibid., strofa 45).
L'adeguamento conformistico del poema è evidente nell'incontro del poeta con Didone. Essa diventa per il protonotario apostolico un modello di fedeltà coniugale (ella "non ruppe fede al cener di Sicheo"), e racconta la sua storia rimproverando a Virgilio di averle dato "voce di poco onesta in falsi accenti" (canto X, strofa 82). Non c'era posto per un amore che non fosse coniugale nel poema del Costantini.
In una storia dell'antisemitismo secentesco egli occuperebbe un suo posto. Raccontando infatti la storia di Simone - il fanciullo che secondo accuse di parte ora provate false sarebbe stato scannato nel 1475 dagli ebrei per il loro servizio rituale - egli si mostra lieto che "il buon rettor di Trento facesse dei "Giudei tragico scempio". Egli stesso anzi avrebbe voluto qual fiero dragon mandar distrutto / a morsi, a strazi, il giudaismo tutto" (canto VIII, strofa I).
Il C. scrisse inoltre due discorsi - letti all'Accademia degli Incogniti - su alcuni versi delle Georgiche (inediti, conservati a Padova, Bibl. del Seminario, cod. B n. 684) e - secondo il già citato elogio delle Glorie degli Incogniti - anche Varie orazioni e Consigli legali, di cui però non si sa nulla. Il primo discorso sui versi virgiliani fu pubblicato, per le nozze Costantini-Sormani Moretti, a Padova nel 1875.
Fonti e Bibl.: Sì veda, oltre all'elogio contenuto nelle Glorie degli Incogniti, Venezia 1647: S. Saprici [A. Aprosio], La Sferza poetica, Venezia 1643 [lettera a G. Argoli premessa al volume]; C. A. Antivigilmi [A. Aprosio], Biblioteca Apronana, Bologna 1673, p. 115; B. Theuli, Teatro historico di Velletri, Velletri 1644, p. 269; B. Bonifacio, Musarum libri XXV, Venetiis 1646, VIII, pp. 345-347; N. C. Papadopoli, Historia Gymasii Patavini, Venetiis 1726, II, p. 135; Vittorio Veneto, Museo del Cenedese, C. Laurenti, Memorie serravallesi (ms., 1750-1820 circa); U. Cosmo, Un imitatore di Dante nel Seicento: monsignor T. C., Padova 1891 (poi in Con Dante attraverso il Seicento, Bari 1946, pp. 131-172, e Firenze 1973); G. Belloni, Il Poema epico, Milano s.a., pp. 343 ss.; Id., Seicento, Milano 1929, p. 234. Le ottave del canto V riguardanti l'incontro con Dante sono riportate in V. Imbriani, Sulla rubrica dantesca nel Villani, Bologna 1880, poi anche in Studi danteschi, Firenze 1991, pp. 119-122. Un amplissimo sunto del poema è in C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a Dante Alighieri, Roma 1889-1909, VI, pp. 5-149.