TOCARIO
. Da scoperte occasionali avvenute intorno al 1890 e soprattutto da una serie di esplorazioni compiute fra il 1898 e il 1914 da scienziati di nazionalità russa (Klementz, Berezovski), inglese (M. A. Stein), tedesca (A. Grünwedel, A. v. Le Coq), giapponese (K. Otani) e francese (P. Pelliot), vennero alla luce copiosi monumenti e documenti d'una civiltà che nel 1° millennio d. C. fioriva nel Turkestān orientale ed a cui partecipavano popoli diversi di razza, lingua e religione. L'esame, intrapreso da A. F. R. Hoernle e da E. Leumann, dei documenti scritti in alfabeti indiani e perciò leggibili - nonostante la presenza, in alcuni, di taluni segni nuovi - rivelò ben presto l'esistenza di almeno due lingue diverse tra loro e non identificabili con alcuna delle lingue fino allora conosciute. Una di esse fu poi dimostrata appartenente al ceppo iranico. L'altra è quella che si suole chiamare tocaria o tocarica (ted. tocharisch, fr. tokharien, ingl. tokharian) da qnando F. W. K. Müller ritenne di poterla identificare con la lingua che in un frammento di manoscritto turco-uigurico proveniente dalla stessa regione è designata con l'appellativo toχrï, o tuχrï, che ricorda i Τόχαροι della storiografia greca (Sitzungsberichte dell'Accademia Prussiana, 1907). Tale identificazione, che trovò conferma in altre attestazioni (ibid., 1916 e 1918), si deve ormai ritenere dimostrata. Ciò peraltro non vuol dire che nei manoscritti turkestanici dei secoli V-X d. C. si conservi la lingua di quel popolo che intorno al 130 a. C. si stabilì nella Battriana; e ad ogni modo il "tocario" non è la lingua degl'Indosciti come in un primo tempo avevano creduto il Sieg e il Siegling e lo stesso Müller. Da altri testi abbiamo poi appreso che il popolo "tocario" dava a sé stesso e alla propria lingua il nome di ārśi, nel quale forse è lecito ravvisare quello degli "Ασιοι che le fonti classiche mettono appunto in relazione coi Tocari.
La restituzione del tocario si deve soprattutto ad E. Sieg ed a W. Siegling, che lavorando sui manoscritti di Turfan portati a Berlino dalle missioni Grünwedel e Le Coq riuscirono per primi a dare un saggio di traduzione e ad abbozzare la grammatica della nuova lingua, dimostrando in pari tempo che essa alle caratteristiche della famiglia indoeuropea associa peculiarità che non permettono d'inquadrarla in alcuno dei gruppi indoeuropei già noti e quindi rappresenta un membro obliato della famiglia stessa. Essi inoltre scoprivano due varietà distinte, che designavano con le sigle A e B. Il dialetto B risultava identico a quello dei testi già trascritli (ma non tradotti) da Hoernle e da Leumann, ed è quello di tutti i manoscritti finora noti che si conservano a Parigi, Londra, Oxford, Calcutta, Leningrado, Peiping e Tōkyō, mentre il dialetto A, comparso per la prima volta nella collezione berlinese, non è ancora riapparso altrove. È da notare che i termini toχrï ed ārśi sono documentati soltanto per il dialetto A; quindi l'estensione del nome "tocarico" al dialetto B è puramente convenzionale, e perciò Sieg e Siegling a partire dall'edizione dei Tocharische Sprachreste (v. bibliografia) lo usano soltanto come sinonimo di "dialetto A". D'altra parte S. Lévi, avendo dimostrato che il dialetto B era nel sec. VII d. C. la lingua del regno di Kuča (Journal Asiatique, 1913), propose di chiamarlo koutchéen, e tale denominazione è stata accolta da alcuni studiosi. Essa però non è accettabile perché non tiene conto del fatto che B era ugualmente diffuso in altre parti del Turkestān orientale, cioè anche in quelle da cui provengono i testi in dialetto A. Per la stessa ragione non si può neanche distinguere un tocario orientale (A) da un tocario occidentale (B).
A prescindere da quelli trovati a Tuen-huang (Kan-su), tutti i manoscritti tocarî provengono da quella parte del Turkestān orientale che è compresa tra il fiume Tarim e i monti Tien-šan, e propriamente dai territorî di Turtan, Karašahr e Kuča. Testi in dialetto B si trovarono dappertutto; quelli in dialetto A si sono trovati finora soltanto nei territorî di Turfan (Bäzäklik-Murtuq,.Sängim, Chočo) e di Karašahr (Šorčuq) e sempre insieme a testi del dialetto B in quantità pressoché uguale.
La letteratura tocaria, di cui nessun documento ci è pervenuto integro, doveva constare quasi unicamente di traduzioni o rielaborazioni. di libri indiani. Quasi tutti i testi pervenutici in dialetto A e la più gran parte di quelli in dialetto B sono frammenti d'una vasta letteratura buddhistica che comprendeva non soltanto opere dottrinali ma anche creazioni poetiche. In dialetto B abbiamo inoltre notevoli resti d'una letteratura medicinale e anche scritti privi di carattere letterario, cioè documenti legali (passaporti su tavolette di legno), scritture private (atti di contabilità) e iscrizioni parietali (queste, si noti, anche nella regione di Turfan). È significativo il fatto che un manoscritto in dialetto A contiene spiegazioni grammaticali e lessicali aggiunte da un'altra mano in dialetto B, e che altri mss. A portano in dialetto B il titolo o una poscritta. Inoltre l'ortografia di A mostra una regolarità che fa supporre una lunga pratica scolastica, laddove quella di B appare, anche nei testi letterarî, incerta e incoerente. Da tutto ciò si deduce che B era la lingua dell'uso corrente in tutta quella parte del Turkestān da cui provengono i testi, ed A una lingua letteraria presumibilmente importata nel paese con la diffusione del buddhismo. La sua assenza dal territorio di Kuča evidentemente rispecchia una diversa situazione religiosa e culturale di cui ci sfuggono i particolari.
I documenti di entrambi i dialetti sono scritti con l'alfabeto brāhmī integrato da una dozzina di caratteri necessarî a rappresentare suoni ignoti al sanscrito. D'altra parte i caratteri esprimenti suoni indiani estranei al tocario non vengono usati che nella citazione di parole sanscrite. Il patrimonio fonetico tocario comprende le vocali a ā i ī u e o ed una vocale ridottissima che si suole trascrivere con ä. Alle vocali e, o del dialetto A corrispondono spesso nel dialetto B i dittonghi ai, au. Le consonanti sono: k t c p ñ n [í] ñ m y w r l ly ts s ś ṣ. La ñ ricorre soltanto nella coppia ñk. Il simbolo ts non vale t + s ma indica un suon unitario (forse quello del th forte inglese) svoltosi da t in condizioni non precisate. Similmente ly non vale l + y ma l palatizzato. Ogni ordine di occlusive è rappresentato dalla sola consonante sorda non aspirata; che realmente mancassero al tocario le occlusive sonore (semplici e aspirate) e le sorde aspirate è certo, poiché, se fossero esistite, l'alfabeto, che possedeva tutti i segni occorrenti, le avrebbe espresse. Le consonanti k t n l ts s, in condizioni non ancora chiarite, subirono un processo di palatizzazione ehe le modificò rispettivamente in ś c ñ ly ś ṣ. Un'altra modificazione, la cui natura ci sfugge, è attestata per molte consonanti da un nuovo segno creato per ciascuna allo scopo evidente di distinguere dal primitivo il suono modificato. Questo suole indicarsi nella trascrizione mediante una lineetta soscritta (p. es. ???); ora però la Tocharische Grammatik (v. bibliografia) trascura la notazione che in pratica è quasi superflua poiché la consonante è sempre modificata se seguita da ä, di rado altrove. Lo schizzo grammaticale che segue riguarda il dialetto A.
La declinazione conosce i tre generi della grammatica indoeuropea, ma li distingue formalmente soltanto nei pronomi dimostrativi (p. es. M. säm, F. sām, N. täm). L'aggettivo ha forme distinte per il maschile e per il femminile, ma non per il neutro. Dei sostantivi soltanto quelli che indicano esseri viventi hanno forme distinte per i due sessi; ma che ad ogni sostantivo si attribuisse o l'uno o l'altro genere grammaticale si vede dall'aggettivo o pronome che gli si riferisce. Si dicono impropriamente neutri molti nomi che al singolare sono trattati come maschili, al plurale come femminili. Forme di duale sono rare e limitate quasi soltanto a nomi di parti del corpo doppie. La declinazione è ricca di forme. Non contando il vocativo, che è sempre uguale al nominativo, si possono distinguere fino a nove casi: nominativo, obliquo (= accusativo, non sempre distinto dal nominativo), genitivo, strumentale, comitativo, dativo, ablativo, locativo e un caso, che ha varie funzioni, caratterizzato dalla desinenza ā.
Il nominativo, l'obliquo e il genitivo di solito si formano direttamente dal tema (che in pratica si identifica col nominativo singolare); gli altri casi si formano affiggendo all'obliquo singolare e plurale (e duale quando esiste) le rispettive desinenze che per ogni caso sono le stesse in tutti i numeri, e che meglio si direbbero postposizioni per la loro somiglianza formale con varie preposizioni e perché il loro legame col tema nominale è così poco saldo che nelle frasi contenenti due o più nomi concordanti fra loro basta affiggerle soltanto all'ultimo nome.
Nella declinazione dei pronomi il fatto più notevole, che non ha riscontro nelle altre lingue indoeuropee (e neanche nel dialetto B) e che perciò si volle attribuire, ma senza ragione sufficiente, a influsso straniero, è la distinzione del genere grammaticale nel pronome di 1a persona singolare (näs "io uomo", ñuk "io donna", gen. ñi, risp. nāñi, ecc.).
Dei numerali basti un saggio: 1 sas f. saí, 2 wu f. we, 3 tre f. tri, 4 śtwar, 5 päñ, 6 säk, 7 ṣpät, 8 okät, 9 ñu, 10 śäk, 20 wiki, 30 taryāk, 100 känt, 1000 wälts, 10.000 tmāṃ.
Nella coniugazione il tipo indoeuropeo è conservato molto meglio che nella declinazione. Il verbo ha una voce attiva e una voce mediopassiva. I modi sono quattro: indicativo, congiuntivo, ottativo, imperativo. L'indicativo ha tre tempi: presente, imperfetto, preterito. Il futuro si esprime per mezzo del congiuntivo. Il sistema verbale si fonda sulla distinzione di tre temi: di presente (da cui di solito si forma anche l'imperfetto), di preterito e di congiuntivo. In molti verbi però il tema di preterito e quello di congiuntivo coincidono. Il verbo finito possiede due serie complete di desinenze personali, distribuite fra i tempi e i modi secondo determinate regole, nonché alcune desinenze proprie dell'imperativo. Tutte le desinenze primarie della voce mediopassiva contengono un elemento r certamente affine a quello che caratterizza il passivo e il deponente latino, celtico e ittito. Molti verbi hanno accanto alla coniugazione ordinaria una coniugazione secondaria, con valore di causativo, caratterizzata nel presente da un elemento s e nel preterito per lo più dal raddoppiamento e spesso anche dalla palatizzazione della consonante iniziale della radice.
Varî linguisti hanno cercato di precisare la posizione del tocario entro la famiglia indoeuropea, con risultati discordanti. Tuttavia, la maggior parte dei glottologi sembra concorde nel ritenerlo una lingua centum: opinione peraltro che dev'essere anch'essa accolta con riserva.
Senza dubbio il nome toχrï, dato dagli Uiguri al dialetto A, deriva dall'etnico che nelle fonti greche indiane e cinesi suona rispettivamente Τόχαροι, Tukhāra (Tuḥkhāra) e Tu-huo-lo (Tu-ho-lo, Tu-hu-lo), ma da ciò non consegue che esso designi la lingua di quel popolo (a quel modo che il francese non è la lingua dei Franken). Lingua toχrï vuol dire semplicemente la lingua (o una lingua) parlata nel Tochāristān (Battriana). Quelli che la parlavano si chiamavano, come si vide, ārśi. La fonetica non si oppone all'identificazione di ārśi con "Ασιοι, nome d'un popolo che Strabone (XI, 8) ricorda come associato ai Tocari nella conquista della Battriana e che secondo altre informazioni avrebbe poi assoggettato gli stessi Tocari. Alcuni sinologi credono che in ārśi si possa riconoscere l'antim forma dell'etnico rappresentato nella scrittura cinese da due caratteri la cui pronunzia classica è Yüe-či. D'altra parte S. Lévi (Fragments, Parigi 1933) vede in ārśi una trascrizione o riduzione di An si "occidente pacificato", nome cinese dato al Turkestān orientale quando fu annesso al vicino impero (sec. VII d. C.). Del dialetto B i documenti non ci hanno tramandato alcun nome. L'identificazione del popolo ehe parlò il "tocario" è un problema irto d'incognite dovute non tanto all'insufficienza dei dati storici quanto alla difficoltà di mettere in accordo le fonti occidentali con le cinesi e le stesse fonti cinesi fra loro. Tra le soluzioni proposte la seguente sembra la più verisimile.
Narrano le storie cinesi che poco dopo il 180 a. C. un'invasione di genti mongoliche obbligò i Yüe-či, dimoranti ai confini occidentali della Cina, ad abbandonare le proprie terre. Mentre una parte di essi (Siao-Yüe-či "piccoli Yüe-či") trovò rifugio nelle montagne che chiudono a mezzogiorno il Turkestān, il nucleo principale (Ta-Yüe-či "grandi Yüe-či") si diresse verso il Tien-šan, passò nel bacino dell'Ili, quindi si volse a sud-ovest, penetrò nella regione compresa tra lo Jaxartes (Syrdar) a) e l'Oxus (Amu-darja) e dopo varie vicende si stabilì nella Battriana, pressappoco nel tempo in cui le fonti classiche vi fanno arrivare dalla stessa parte i Tocari e i loro consorti. Anche se non si accetta l'equazione Ārśi = Yüe-či si può ritenere che il "tocario A" sia la lingua dei Yüe-či stanziatisi nella Battriana e mescolatisi o sovrappostisi ai Tocari, e il "tocario B" la lingua di un'altra frazione dello stesso popolo rimasta in quella parte del Turkestan orientale che ne conservò i documenti o rifluitavi dopo che le mutate condizioni ambientali ebbeero reso inabitabile il paese a mezzogiorno del Tarim.
Bibl.: E. Schwentner, Tocharisch, Berlino 1935 (storia degli studî tocarici fino al 1934); A. Nehring presso O. Schrader, Reallexikon, 2a ed., II, Berlino 1929 (ampia e lucida sintesi). - Sulle scoperte turkestaniche in genere: H. Lüders, in Sitzungsberichte dell'Acc. Prussiana 1914. - Sul significato di tochrï: S. Konow, in Asia Major, 1933, e P. Pelliot, in Journal Asiatique, 1934.
E. Sieg-W. Siegling-W. Schulze, Tocharische Grammatik, Gottinga 1931 (trattazione esauriente del dialetto A; per il dialetto B abbiamo, per ora, studi parziali di A. Meillet e S. Lévi, in Journal Asiatique, 1911, e in Mémoires de la Société de Linguistique, 1912-15). - E. Sieg-W. Siegling, Tocharische Sprachreste, Berlino 1921 (edizione completa dei testi in dialetto A). Dei testi in dialetto B una parte è ancora inedita; molti furono pubblicati in luoghi e tempi diversi (l'edizione più importante è quella di S. Lévi, Fragments de textes koutchéens, Parigi 1933).
Sulla posizione del tocario entro la famiglia indoeuropea, cfr. in particolare: E. Smith, Tocharisch, Cristiania 1911; A. Meillet, in Indog. Jahrbuch, I (1913); J. Charpentier, in Zeitschrift d. d. morg. Ges., LXXI (1917); J. Pokorny, in Berichte d. Forschunginst. f. Osten u. Orient, III (1919); E. Hermann, in Zeitschr. f. vergl. Sprachf., L (1922); H. Pedersen, Le groupment des dialectes indo-européens, Copenaghen 1925; V. Pisani, in Memorie dei Lincei, 1933.
Sul problema storico-etnologico sollevato dalla scoperta del tocario esiste una ricca letteratura, per la quale rimandiamo a Schwentner e a Nehring. Cfr. anche S. Feist, Indogermanen u. Germanen, 3a ed., Halle 1924.