TITYOS (Τιτυός, Τίτυος)
Sin dalla Nèkyia omerica (Od., xi, 575 ss.) T. appare incluso nel numero dei grandi peccatori puniti. Di statura gigantesca- il corpo disteso misura nove pletri- (un plethron sono 100 piedi)- giace a terra nello Hades, incatenato e torturato da due avvoltoi che ne divorano il fegato. Le proporzioni colossali, la colpa di hìbris e il fatto che generalmente è detto figlio della Terra, lo rendono affine alla stirpe dei Giganti. Tuttavia T. possiede anche un aspetto eroico strettamente legato al paese e alle saghe dei Minî di Beozia. Così secondo una tradizione sua madre sarebbe Elara figlia di Minyas, anch'essa chiaramente una ipostasi di Gea: mentre Strabone ricorda un heròon a lui dedicato e Pausania ne menziona la tomba nella città di Panopeus ai margini tra la Beozia e la Focide (Paus., x, 4, 2).
La saga di T. attentatore di Latona e avversario di Apollo e di Artemide, ebbe una notevole diffusione nel mondo antico, senza dubbio per effetto del diffondersi del culto delfico.
Allo stesso modo che il gran serpente Pitone, i Niobidi, Orione e altri, T. illustra la potenza irresistibile del dio sterminatore dall'arco d'argento. E figurazioni relative allo scontro tra il dio e il malvagio apparivano nel trono di Apollo ad Amicle (v.) e in un ex voto degli Cnidi a Delfi. E, per quanto sia incerta la sua assegnazione a un determinato monumento, è indubbio che la singolare testa a rilievo del medio arcaismo da Delfi, figurante un personaggio dai lineamenti selvaggi e contorti, il viso trafitto da una freccia, non puo rappresentare altri che Tityos.
È impossibile determinare se figurazioni di grande arcaismo quali la gemma insulare del Entish Museum (A. Furtwängler, Gemmen, tav. v, 34) il frammento di pìthos da Tinos o l'avorio di Sparta (Artemis Orthìa, tav. 100) figuranti un uomo abbattuto torturato da un grande uccello da preda siano da riferire a T. piuttosto che a Prometeo. Mentre in terreno assolutamente sicuro siamo già nel secondo venticinquennio del VI sec. a. C. con una metopa del Sele (v.) in cui T. fugge sollevando nelle braccia Latona, il volto all'indietro verso le frecce inesorabili di Apollo e Artemide che lo incalzano nella metopa accanto.
Nella ceramica attica a figure nere del terzo venticinquennio del VI sec. e in più tarde versioni ionico-etrusche rappresentate da anfore pontiche e da hydrìai ceretane affiorano motivi iconografici di aspetto singolarmente arcaico. Apollo ed Artemide, ad esempio hanno l'aspetto di guerrieri, l'elmo in capo come l'antico simulacro di Amicle: e in più, almeno nell'ambiente ionico etrusco dei vasi pontici e degli anelli aurei di Vulci (Louvre e Bibliothèque Nationale; A. Furtwängler, Gemmen, p. 84), il motivo dell'inseguimento diviene così importante che Apollo impiega il carro con i cavalli alati. In tutte queste figurazioni non è più l'attentato, ma la punizione di esso che viene ad essere figurata. T. fugge dinanzi ai due fratelli vendicatori, e in luogo di Latona è la madre Gea ad essre presente, a volte in un disperato tentativo di calmare o stornare con il gesto implorante la furia dei persecutori, più spesso semplicemente associata nella fuga del figlio. In definitiva la coppia dei perseguitati che si contrappone alla coppia dei punitori. La situazione, che è di una lineare qualità nell'anfora tirrenica E 863 del Louvre e nei frammenti Acropoli 631 e 2406, è meno perspicua nell'anfora di Tarquinia (Antike Denkmäler, i, 22), che è da ritenere una contaminazione con gli schemi dei Niobidi. Nella metopa del Sele, T. non presenta caratteri particolari di deformità: peraltro elementi sinistri, come il corpo villoso dell'anfora tirrenica del Louvre, le chiome selvagge e stoppose dei vasi pontici, le orecchie ferme e il naso camuso della hydrìa ceretana sono chiare, seppure incostanti, indicazioni della sua natura deteriore.
Circa l'ultimo decennio del VI sec. a. C. la notissima anfora di Phintias (Louvre G 42) riprende ancora una volta il tema del ratto in un clima di stanca, manierata eleganza formale, al di fuori di ogni terrore o tensione drammatica. T. solleva la dea tra le braccia mentre Apollo e Artemide cercano di trattenerlo con gesti ampi e ineffettivi. Mentre T. stesso ha perduto ogni traccia della natura ferma di un gigante o di un satiro, e si presenta come un qualsiasi eroe, la chioma ornata di germogli e la barbetta appuntita.
A prescindere da questa figurazione, lo schema preferito dalla ceramica a figure rosse non è il ratto o l'inseguimento, ma la conclusione di tutto questo. Domato dalle frecce divine, T. si abbatte in ginocchio ai piedi della madre che con il suo ampio panneggio disteso viene a costituire quasi un baluardo di pietà e di forza morale per il figlio. In queste figurazioni T. non è più mostro, ma un eroe tragico a cui la punizione degli dèi nulla toglie della sua incancellabile nobiltà e umanità. Così egli ci appare in figurazioni sempre più grandiose e patetiche nell'anfora di Eucharides (British Museum E 278), nella superba coppa di Monaco del Pittore di Pentesilea, sino al romantico implorante appello del cratere a calice del Pittore di Egisto al Louvre (G. 161).
T. figurava con altri puniti nella Nèkyia di Polignoto a Delfi (Paus., x, 29, 3). È peraltro incerto se in questo caso venisse eternizzato il momento della sua morte, abbattuto dalle frecce di Apollo, o lo stato di eterna, immobile punizione nello Hades. Nel cratere del Metropolitan Museum di New York, attribuito al Pittore della Nekyia troviamo infatti, accanto ai malinconici abitatori dell'Oltretomba, T. trafitto dalle frecce e crollante a terra. D'altra parte negli affreschi dell'Odissea della Biblioteca Vaticana, accanto alle Danaidi, a Sisifo, e ad altri dannati, l'immenso corpo disteso di T. in ceppi ci appare in uno scorcio potente che ne valorizza la tragica immobilità.
In età ellenistica la punizione di T. figurava tra i pinàkia del tempio di Apollo a Cizico, a glorificazione dell'amor filiale. E per rimanere in ambiente asiatico, si può ricordare che il nome di T. è stato proposto per il singolare gigante con unghie di uccello da preda, che è l'avversario di Latona nell'altare di Pergamo.
La punizione di T. decorava il mantello purpureo di Giasone in un passo delle Argonautiche (Ap. Rh., i, 759). In un candelabro romano, noto in due repliche, T. figura su uno dei lati contrapposto ad Artemide e ad Ippolito.
Bibl.: Waser, in Roscher, V, 1916-24, c. 1033 ss., s. v.; K. Scherling, in Pauly-Wissowa, VI A, 1936, c. 1594 ss., s. v.; P. Devambez, in Mon. Piot, XLI, 1946, p. 20 ss.; J. D. Beazley, Etr. Vase-paint, p. 97; P. Zancani Montuoro, L'Heraion de Sele, II, Roma 1954, p. 315 ss.; G. Camporeale, in St. Etr., XXVI, 1958, p. 3 ss.; A. Greifenhagen, in Jahrb. d. Berliner Museen, I, 1959, p. i ss.; E. Paribeni, in Boll. Musei di Roma, XI, 1962, p. i ss.