TITOLI ATIPICI
Nell'ambito degli strumenti di circolazione finanziaria, si definiscono t.a. quei titoli circolanti con le medesime forme e con i medesimi effetti dei titoli di credito, ma non rientranti in alcuna delle tipologie espressamente menzionate dal legislatore sia nel codice civile (fede di deposito, obbligazioni di società, ecc.), sia nel codice della navigazione (polizza di carico, polizza ricevuta per l'imbarco, ecc.), sia in leggi speciali (cambiale, assegno, ecc.). Al tempo in cui era in vigore il codice di commercio si dubitava dell'esistenza di un potere dei privati di creare titoli di credito atipici. I titoli di credito sono infatti caratterizzati tecnicamente dal fatto che essi portano con sé un diritto di credito che, per essere incorporato in un documento, viene sottratto alle forme e ai limiti di circolazione dei crediti per essere assoggettato invece alla disciplina della circolazione del documento (res) in cui il diritto stesso è incorporato. L'incorporazione del diritto nel documento consente, in altri termini, di far soggiacere la circolazione dei crediti anziché alle regole ferree della cessione del credito, a quelle, molto più duttili e adeguate alle esigenze del commercio, della circolazione delle cose mobili e in particolare alla regola "possesso di buona fede vale titolo" (artt. 1153 e 1994 cod. civ.).
La differenza è notevole. Il passaggio dal sistema di circolazione imperniato sulla disciplina della cessione del credito a quello proprio dei titoli di credito si coglie non solo e non tanto sul piano delle forme della circolazione − indubbiamente semplificate nei titoli di credito, non essendo necessaria, ai fini dell'efficacia del trasferimento del diritto ivi incorporato, la notifica al debitore il cui titolo viene ceduto, richiesta invece dall'art. 1264 cod. civ. in alternativa all'accettazione da parte del debitore medesimo − ma soprattutto sul piano degli effetti. La cessione del credito è infatti assoggettata alla regola per la quale il diritto del cessionario di un credito deriva dal diritto del cedente, e quindi esiste ed è valido se e nei limiti in cui esiste ed è valido il diritto del cedente. Regola invece soppressa nei titoli di credito, in quanto l'acquirente del titolo di credito acquista, con l'acquisto del titolo, anche la legittimazione a esercitare nei confronti dell'emittente (debitore) il diritto quale emerge dal contesto letterale del titolo, senza che l'emittente possa rifiutargli il pagamento per ragioni legate all'esistenza o alla validità del rapporto sottostante all'emissione del titolo, ovvero eccepire fatti sopravvenuti estintivi in tutto o in parte della propria originaria obbligazione di pagamento. Alla regola della derivatività dell'acquisto propria della cessione del credito si sostituisce così la regola dell'originarietà dell'acquisto in capo al portatore del titolo di credito, sancita adesso anche a livello legislativo dall'art. 1993 cod. civ., il quale fa espresso divieto al debitore di opporre al portatore del titolo le eccezioni relative ai precedenti portatori (cosiddetto principio dell'autonomia dei titoli di credito).
La caratteristica e l'innovazione principale apportata dai titoli di credito ai tradizionali strumenti di circolazione della ricchezza consiste dunque nella destinazione alla circolazione di un diritto di credito totalmente svincolata − in nome della sicurezza e della speditezza dei traffici giuridici − sia dal rapporto fondamentale da cui trae origine l'emissione del titolo stesso, sia dai successivi rapporti intercorrenti vuoi fra l'emittente e i portatori successivi del titolo, vuoi fra i vari portatori fra loro sulla base dei negozi di trasmissione del titolo dall'uno all'altro. Questa caratteristica era ritenuta inconciliabile con un principio cardine dell'ordinamento giuridico vigente anteriormente all'entrata in vigore del codice del 1942, costituito dalla necessaria causalità delle obbligazioni. L'ordinamento giuridico imponeva, allora, che ogni prestazione di natura patrimoniale resa da un soggetto a favore di un altro dovesse essere giustificata o da un fine di scambio o da un fine di liberalità o dall'esistenza di un debito preesistente da adempiere. Nel caso dei titoli di credito, invece, un rapporto fra due soggetti che giustifichi sul piano socioeconomico l'assunzione di un impegno cartolare intercorre soltanto fra l'emittente e il prenditore, e non anche fra l'emittente e tutti i successivi acquirenti del titolo, con cui l'emittente non ha normalmente alcun rapporto ma nei cui confronti è però obbligato ad adempiere alla prestazione indicata nel titolo, solo che questi si mostrino legittimati in base alla sua legge di circolazione. Pertanto, il fenomeno dei titoli di credito poteva apparire come eccezionale nell'ambito del sistema, sicché era giustificabile la posizione di quanti ritenevano di doverne limitare l'estensione ai soli casi stabiliti dalla legge, con conseguente preclusione ai privati della libertà di creare titoli di credito diversi da quelli nominati, privi del requisito della causalità (cioè autonomi e astratti).
Con l'avvento del codice civile del 1942, pur non essendo venuta meno la regola della causalità delle attribuzioni patrimoniali, è stata introdotta una norma che, sotto la significativa rubrica "Limitazione della libertà di emissione", dispone testualmente che il "titolo di credito contenente l'obbligazione di pagare una somma di denaro non può essere emesso al portatore se non nei casi stabiliti dalla legge" (art. 2004 cod. civ.). Questa norma è stata interpretata dalla dottrina prevalente nel senso di consentire implicitamente la creazione da parte dei privati di t.a. di credito. Essa infatti vieta soltanto la creazione di t.a. di credito al portatore contenenti l'obbligazione di pagare una somma di denaro, ed è, quindi, sorretta dal chiaro intento di controllare e contenere l'immissione nel mercato di titoli che, per la loro facile circolabilità, potrebbero sostituirsi alla carta moneta avente corso legale e incidere così sulla circolazione monetaria. L'esigenza posta alla base della norma ora riferita è, dunque, essenzialmente quella di preservare la moneta da possibili effetti inflazionistici causati dall'immissione nel mercato di titoli potenzialmente similari al denaro. Dalla previsione espressa di tale divieto si è dedotta a contrario la liceità della creazione di t.a. di credito diversi da quelli espressamente contemplati nel divieto e non diretti quindi a influenzare il valore della moneta.
L'argomento a contrario ora riferito non è peraltro l'unico posto a sostegno della tesi dell'ammissibilità della creazione di t.a. da parte dei privati. Si è infatti rilevato che il fenomeno dei titoli di credito costituirebbe non tanto una somma di eccezioni al principio della causalità dell'attribuzione patrimoniale − tante quante sarebbero le specie di titoli di credito conosciute dall'ordinamento − quanto piuttosto un fenomeno unitario caratterizzato dalla preminenza data su ogni altro valore al bene della celerità e della sicurezza nella circolazione dei crediti, a sua volta essenziale allo sviluppo dei traffici commerciali. La conseguenza di questa prospettiva è che ogni qualvolta ricorra una ratio di agevolazione del commercio, allora non possa essere negata ai privati, di regola, la libertà di dare vita a dei t. atipici. L'astrattezza dell'obbligazione di pagamento menzionata nel titolo di credito andrebbe dunque valutata non tanto in un'ottica di contrapposizione a un principio dell'ordinamento giuridico dello stato (quello della causalità delle attribuzioni patrimoniali), quanto nell'ottica della rispondenza alla medesima ratio che giustifica la deviazione da tale principio in nome della rapidità e della sicurezza dei traffici. Del resto, anche coloro che si sono mostrati restii a riconoscere l'ingresso nel nostro ordinamento giuridico ai t.a., hanno dovuto ammettere che la negazione assoluta del potere di autonomia privata in quest'ambito sarebbe in contrasto con la tradizione storica, la quale ha sempre considerato i titoli di credito come un fenomeno in continua evoluzione, e non terrebbe inoltre conto delle esigenze del mercato, cui gli strumenti giuridici debbono continuamente adeguarsi.
Il fenomeno dei t.a. si è sviluppato in modo considerevole a cavallo fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta nella forma di titoli di massa collocati presso il pubblico per mezzo di intermediari finanziari diversi dalle tradizionali istituzioni creditizie. In particolare, la prassi ha dato vita inizialmente ai cosiddetti certificati immobiliari, i quali sono titoli emessi da società per la costruzione o per l'acquisto di un complesso immobiliare da cedere o dare successivamente in leasing ad altra impresa, a fronte di un finanziamento pari a circa il 90% della spesa complessiva da parte di un ente finanziario che assume anche il compito di collocare i certificati medesimi sul mercato. Questi certificati sono quindi il risultato del frazionamento di un'operazione di prestito e incorporano un diritto a una corrispondente quota degli utili conseguiti dalla società emittente, il cui pagamento è garantito di fatto dalla conservazione della proprietà del complesso immobiliare in capo a quest'ultima. La posizione del possessore del certificato immobiliare potrebbe essere assimilata (ma si vedrà in seguito che non è sempre così) a quella dell'associato in partecipazione, il quale ha diritto a una quota degli utili dell'impresa e partecipa alle perdite non oltre i limiti del proprio apporto. I certificati immobiliari sono strutturati dunque come dei titoli di credito, pur senza appartenere a nessuno dei tipi noti, e per volontà espressa dell'emittente sono assoggettati alla disciplina delle forme e degli effetti della circolazione dei titoli di credito. Di conseguenza, la società emittente (associante) non potrebbe rifiutarsi di pagare agli acquirenti di buona fede dei certificati immobiliari frapponendo eccezioni relative per es. alla mancanza o all'incompleto versamento dell'apporto o a presunti vizi inerenti al contratto di associazione in partecipazione: il diritto agli utili rimane intangibile, anche nel caso in cui la società emittente in ipotesi non riceva in tutto o in parte il finanziamento promesso.
Accanto ai certificati immobiliari sono sorti i certificati finanziari, i quali si distinguono dai primi per il fatto che rappresentano il diritto dell'associato a un affare di finanziamento e non agli utili di un'impresa. Nei certificati finanziari, pertanto, i diritti dell'associato sono già predeterminati in termini sia di rimborso del capitale che di rendimento, coincidendo con quelli previsti nel contratto di finanziamento di cui sono frazione.
Le dimensioni raggiunte rapidamente dal fenomeno dei certificati immobiliari e finanziari (il bollettino della Banca d'Italia parlava di 1600 miliardi alla fine del 1981, di cui ben 600 solo nel 1981) indusse il legislatore e le autorità di vigilanza a intervenire colmando il vuoto normativo che si era venuto a creare. In particolare, la l. 23 marzo 1983 n. 77 ha affidato alla Banca d'Italia (art. 11) e alla CONSOB (art. 12) un potere di controllo sulle emissioni di qualsiasi valore mobiliare diverso dalle azioni e dalle obbligazioni (ivi compresi quindi i valori mobiliari non tipizzati dalla legge), da collocare mediante appello al pubblico risparmio al di fuori dei canali tradizionali, già sottoposti a vigilanza, della banca e della borsa. L'introduzione di tali poteri di controllo sulle emissioni dei t.a. ha consentito di smascherare − e di punire − l'uso (rectius: l'abuso) che di tali titoli veniva talvolta fatto allo scopo di eludere i divieti e i vincoli posti all'emissione di valori mobiliari tipici. Il sistema vuole infatti che la legittimazione a ricorrere al risparmio di massa spetti soltanto a soggetti aventi una solida struttura organizzativa e quindi idonei, in base a indici oggettivi, a godere della fiducia del pubblico circa la restituzione dei finanziamenti ricevuti.
Chiari sintomi di questa ratio si rinvengono nelle norme che attribuiscono soltanto alle società per azioni (e in accomandita per azioni) − quali organismi dotati di una solida e affidabile struttura organizzativa e di un capitale minimo elevato (200 milioni) − il potere di emettere titoli rappresentativi di quote di partecipazione al capitale sociale e di ricorrere al prestito obbligazionario, per di più entro il limite quantitativo del capitale versato ed esistente al momento dell'emissione del prestito obbligazionario (art. 2410 cod. civ.), limite di recente ampliato sommando anche le riserve risultanti dall'ultimo bilancio approvato. Soltanto alle società bancarie è poi consentito di raccogliere il risparmio mediante il collocamento fra il pubblico di titoli obbligazionari in misura multipla del capitale sociale. Si comprende quindi come l'immissione sul mercato di t.a. possa aver costituito, in assenza di una disciplina ad hoc, il mezzo per eludere l'applicazione dei rigidi limiti posti all'emissione delle obbligazioni, ogni qualvolta tali titoli abbiano presentato in concreto i caratteri propri di queste ultime. In questo contesto opportunamente le autorità di vigilanza sono intervenute sottoponendo le emissioni di valori mobiliari atipici alla stessa disciplina dettata per le obbligazioni tutte le volte in cui l'operazione sia sostanzialmente assimilabile al mutuo e non all'associazione in partecipazione.
Fra gli esempi sopra riportati di t.a. appare chiaro che i certificati finanziari rappresentano in realtà una forma surrettizia di titoli obbligazionari, dato che al pari di questi ultimi incorporano, come già detto, una frazione di un mutuo in cui sono già predeterminati i criteri e i tempi del rimborso e in cui manca ogni alea circa l'effettuazione del rimborso medesimo. Sottospecie dei certificati finanziari, da assoggettare quindi ai medesimi divieti e vincoli che colpiscono questi ultimi, devono essere considerati anche i titoli che incorporano una posizione di credito nascente da un contratto di finanziamento cosiddetto postergato, caratterizzato cioè dal fatto che, in caso di liquidazione o di fallimento della società emittente, il rimborso del prestito è postergato all'integrale pagamento di tutti gli altri creditori. Anche tali certificati rappresentano infatti nella sostanza uno strumento alternativo alle obbligazioni, qualora il finanziamento venga realizzato mediante emissione di titoli di massa da destinare al pubblico.
Più incerta è invece la qualificazione dei certificati immobiliari, dato che questi, a seconda dei casi, possono incorporare o una posizione di mutuo −e allora si tratta nella sostanza di obbligazioni, di cui deve riaffermarsi la disciplina − o una posizione di associazione in partecipazione, e allora non vi è intento elusivo. In linea di massima si può ritenere che ricorra un contratto di associazione in partecipazione nel caso in cui chi apporta il capitale partecipa, oltre che agli utili, anche alle perdite; e che ricorra invece un contratto di mutuo nel caso in cui chi apporta il capitale ha diritto, oltre che al rimborso del medesimo, anche a una somma ulteriore a titolo di interessi. Occorre poi ulteriormente distinguere qualora chi apporta il capitale non partecipa alle perdite e partecipa sì agli utili, ma soltanto se questi saranno effettivamente realizzati. In quest'ultimo caso si ritiene che la distinzione sia data dalla sussistenza o meno, nella concretezza del rapporto, di un potere in capo al soggetto finanziatore − compatibile soltanto con la posizione di associato in partecipazione − di controllo sulla gestione dell'impresa da parte del soggetto finanziato.
La sottoposizione dell'emissione dei t.a. al controllo delle pubbliche autorità, la flessione dei prezzi degli immobili cui era legato in parte il valore dei certificati immobiliari, e una crisi di sfiducia nei confronti dei nuovi strumenti d'investimento conseguente al dissesto di alcuni dei gruppi che vi avevano fatto ricorso, hanno segnato il declino dei certificati immobiliari e finanziari, ma non la loro totale scomparsa dal mercato. Dopo una fase in cui il fenomeno è stato rigorosamente disciplinato e in sostanza reso impraticabile, negli anni Novanta nuovi interventi del legislatore riscoprono il ruolo potenzialmente utile dei titoli di massa, consentendo alle società non bancarie di ottenere liquidità anche mediante il ricorso a strumenti di raccolta del risparmio diversi dalle obbligazioni, ma questa volta nelle linee già tracciate dal sistema e sostanzialmente ''tipizzando'' i nuovi strumenti e assoggettandoli ai medesimi limiti posti all'emissione delle obbligazioni.
Così il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, approvato con decreto legisl. 1° settembre 1993 n. 385, ha sì posto la regola della riserva alle banche dell'attività di raccolta del risparmio fra il pubblico, ma ha nel contempo previsto una serie di deroghe a tale riserva di attività, stabilendo fra l'altro che le società per azioni e in accomandita per azioni possono effettuare, come nel passato, la raccolta fra il pubblico mediante l'emissione di obbligazioni nei limiti consentiti dal codice civile, e demandando inoltre al Comitato interministeriale per il credito e il risparmio l'emanazione di disposizioni intese a prevedere ulteriori e più ampie possibilità di raccolta tra il pubblico da parte di imprese quotate in un mercato regolamentato e da parte di società, anche non quotate, che effettuino la raccolta con l'ausilio di banche o imprese finanziarie o assicurative. Nel dare esecuzione alla suddetta delega il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, con deliberazione del 3 marzo 1994, ha ammesso esplicitamente la raccolta fra il pubblico mediante ''cambiali finanziarie'' e ''certificati d'investimento'' a condizione che la raccolta effettuata mediante questi titoli, ed eventualmente mediante obbligazioni, non ecceda complessivamente l'ammontare globale del capitale versato e delle riserve risultante dall'ultimo bilancio approvato.
Il ciclo si è compiuto. Da un regime di libertà dei privati di creare t.a. di massa in assenza di controlli, si è passati a un regime di divieto assoluto all'interno del quale sono state aperte progressivamente delle deroghe che autorizzano sì l'emissione di titoli di massa a certe condizioni ed entro certi limiti, ma soltanto di quei titoli di massa espressamente menzionati dal legislatore e aventi le caratteristiche da questi prescritte. La legittimazione all'emissione dei titoli di massa è dunque consentita, ma ridotta nell'area del ''tipico'', ridotta cioè all'uso degli strumenti, vecchi come le obbligazioni o nuovi come le cambiali finanziarie e i certificati d'investimento, ''tipizzati'' dal legislatore. Resta ferma la libertà dei privati di creazione di t.a. individuali, cioè nascenti ciascuno da operazioni diverse, e quindi non in serie e soprattutto non destinati al collocamento presso il pubblico.
Bibl.: P. Spada, Introduzione al diritto dei titoli di credito, Torino 1922, pp. 105 ss.; G. Visentini, Operazioni atipiche di finanziamento con emissione di titoli in serie, in Banche e Banchieri, 1979, pp. 23 ss.; Id., Premessa, a Operazioni anomale di finanziamento con emissione di titoli. Recenti evoluzioni della prassi, a cura di B. Libonati e G. Visentini, Milano 1980, p. vii; A.C. Pelosi, Libertà di creazione di titoli di massa atipici, in Studi in onore di C. Grassetti, iii, ivi 1980, pp. 1408 ss.; F. Martorano, Libertà di creazione dei titoli di credito e autonomia privata, in Titoli di credito (Atti del Convegno di Alghero, 28-30 settembre 1978), Sassari 1981, pp. 298 ss.; C. Grassetti, Nuove tecniche di intermediazione finanziaria: i certificati immobiliari, in Riv. Dir. Comm., 1 (1981), p. 528; A. Pavone La Rosa, Titoli "atipici" e libertà di emissione nell'ambito delle strutture organizzative della grande impresa, in La ricapitalizzazione delle banche pubbliche (Atti del Convegno di Siracusa, 23-25 settembre 1982), Milano 1982; G. Visentini, I valori mobiliari, in Trattato di diritto privato, a cura di P. Rescigno, vol. xvi, t. 2, Torino 1985; B. Libonati, Titoli atipici e non, in Banca e Borsa, 1 (1985), p. 471; P. Spada, Dai titoli di credito atipici alle operazioni atipiche di raccolta del risparmio, ibid., 1 (1986); F. Martorano, Titoli di credito, Milano 19922, pp. 169 ss.; G. Partesotti, Lezioni sui titoli di credito, Bologna 1992, p. 25; A. Stagno D'Alcontres, Tipicità e atipicità dei titoli di credito, Milano 1993; P. Spada, Titoli atipici, in Enciclopedia Giuridica, 31, Roma 1994.