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SPERI, Tito

di Maurizio Bertolotti - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)
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SPERI, Tito

Maurizio Bertolotti

. – Nacque a Brescia il 2 agosto 1825 da Battista e da Angela Tortima.

Il padre, figlio di contadini, esercitò dapprima il mestiere di sarto, quindi la professione di restauratore; si dedicò inoltre alla pittura. Sposi nel 1824, Battista e Angela ebbero cinque figli: dopo Tito, Teodoro Paolo (1827), Attilio Paolo (1829), Giacomo Giovanni (1833), infine Santina. I tre fratelli maschi morirono ancora bambini.

Tito fu assai legato al padre, che era stato soldato di Napoleone e gli trasmise la passione per le armi e l’odio per gli austriaci. Terminate le scuole elementari, a causa di una malattia respiratoria dovette per due anni interrompere gli studi. Tra il 1839 e il 1845 frequentò l’Imperial regio ginnasio. Le sue doti intellettuali e il suo impegno nello studio furono comprovati da numerosi premi scolastici; alcune poesie di quegli anni, che documentavano suoi amori giovanili, rivelano una certa abilità di verseggiatore. Dopo la morte del padre nel 1844, venne nominato suo tutore il nobile Giuseppe Pilati al quale Tito sempre dimostrò grande affetto; fu nella sua casa che Speri s’innamorò di Fortunata (o Fortunina) Gallina, alla quale rimase legato fino alla morte di lei nel novembre del 1851.

Iscrittosi al liceo nel 1846, dopo qualche mese ne fu espulso o forse l’abbandonò a causa, pare, di un diverbio con un professore. Per impulso di una sincera vocazione o forse soltanto al fine di completare gli studi, nell’autunno dello stesso anno entrò nel seminario di Brescia, da cui tuttavia si ritirò ben presto, nell’aprile del 1847. Fu accolto allora nel liceo di Lodi, ma non giunse a ultimare il primo anno perché la rivoluzione del 1848 lo strappò alla scuola.

A quell’epoca gli orientamenti ideali di Speri apparivano ormai delineati. Come spiegò al sacerdote Luigi Martini alla vigilia della propria impiccagione, lo studio di «libri filosofici d’oltremonti» l’aveva «spinto avanti nella via del materialismo» (Martini, 1952, p. 111); le sue idee in proposito dovettero tuttavia oscillare tra un franco ateismo (Mazzetti, 1932, p. 206, n. 101) e un atteggiamento deistico che non escludeva richiami al Vangelo, accompagnati peraltro da aspri attacchi alla ‘falsa religione’ di Pio IX (lettera a Giovanni Borghetti, 25 marzo 1852; pp. 104-106). In ogni caso, il posto della fede materna nel cuore di Speri era ormai stato occupato dalla religione della patria, come mostrava, in particolare, la poesia Alle donzelle di Lombardia che devono mostrarsi degne della patria redenta e dell’eroica età (Brescia 1848).

Nel 1848 Speri si unì al battaglione degli studenti lombardi nelle cui file prese parte al combattimento di Governolo del 18 luglio. Nei mesi successivi all’armistizio di Salasco fu addetto ai collegamenti fra Torino e il comitato insurrezionale di Brescia presieduto da Bartolomeo Gualla. Sostenitore convinto di Carlo Alberto e dell’iniziativa piemontese, nel 1849 Speri si slanciò con entusiasmo nella lotta delle Dieci giornate, capeggiando il 26 marzo le operazioni a Sant’Eufemia, il 28 la tragica sortita da porta Torrelunga e animando il 31 la disperata resistenza entro le mura (all’epopea bresciana Speri dedicò un breve scritto che fu pubblicato nel 1924 dal municipio di Brescia sotto il titolo Le X giornate). Al ritorno degli austriaci riparò a Torino, dove ottenne un posto di impiegato al ministero dell’Istruzione, ma alla fine del 1849, avvalendosi dell’amnistia proclamata il 12 agosto dal generale Josef Radetzky, fece ritorno a Brescia.

Dopo l’esito catastrofico della battaglia di Novara del 1849, venuta meno la fiducia nell’iniziativa piemontese, le speranze di molti patrioti si volsero a Giuseppe Mazzini. A questi fece capo la vasta cospirazione che nel 1850-51 vide impegnati e cooperanti patrioti di numerose provincie del Regno Lombardo-Veneto e che ebbe il suo tragico epilogo nelle forche di Belfiore. Speri, che andò allora orientandosi decisamente verso il repubblicanesimo, fu uno dei promotori del comitato di Brescia e, oltre che della diffusione di bollettini incendiari e di cartelle del prestito mazziniano, si occupò, in particolare, della formazione militare degli affiliati; come a Mantova, anche a Brescia questi furono numerosissimi, raggiungendo forse il numero di mille. Si colloca nel periodo di quest’attività cospirativa, vivente ancora Fortunata, l’appassionato amore di Speri per Angiolina Ferretti, insegnante delle scuole normali e fervente mazziniana; dopo l’arresto di Tito, Angiolina preferì non rivelargli che era in attesa di un figlio e probabilmente preoccupata della propria reputazione si astenne dal fargli visita e dallo scrivergli; ciò spiega perché in una lettera a un amico del 20 gennaio 1853 Speri l’accusasse senza nominarla di averlo abbandonato e tradito (Luzio, 1905, pp. 200-205).

La trama cospirativa venne scoperta alla fine del 1851; nel maggio successivo fu condotta a termine presso il ministero dell’Interno di Vienna la decifrazione del registro in cui il sacerdote Enrico Tazzoli, uno dei capi della congiura mantovana, aveva annotato le entrate e le uscite di denaro connesse all’attività cospirativa. Nel registro il nome di Speri compariva associato a forti spese, sicché il 18 giugno il patriota bresciano fu tratto in arresto e quindi recluso nelle carceri del castello di Mantova. Sia Luigi Castellazzo, cospiratore e segretario del comitato rivoluzionario presieduto da Tazzoli, sia lo stesso Tazzoli nei loro costituti rispettivamente del 19 e del 26 giugno fecero il nome di Speri, rivelando il suo coinvolgimento in un acquisto d’armi da parte del comitato di Mantova e indicandolo come responsabile della cospirazione bresciana (Archivio di Stato di Mantova, Auditorato di guarnigione di Mantova, Processo dei Martiri di Belfiore, b. 1, ff. 45, 70). Nel suo costituto del 28 giugno Speri ammise di aver collaborato su richiesta di Antonio Bosio e di Giovanni Acerbi al trasporto di armi e di un torchio da stampa, ma esclusivamente al fine di «aiutare la guerra» che i due committenti gli avevano presentata come imminente (b. 1, f. 79). Inteso a convincere il giudice della propria estraneità a qualsiasi moto rivoluzionario, negò d’essere affiliato a qualche comitato e di aver ricevuto e diffuso bollettini e cartelle del prestito mazziniano; escluse in particolare che a Brescia esistesse un comitato. La sua posizione risultò molto aggravata dal costituto in cui il 12 ottobre Castellazzo parlò del progetto di assassinio del commissario di polizia Filippo Rossi concepito da Acerbi all’inizio del 1852 in seguito alla fucilazione di don Giovanni Grioli: Castellazzo sostenne infatti che il progetto era stato da Acerbi concertato con Speri, che Speri era stato incaricato della sua esecuzione e che a tal fine una sera di carnevale aveva condotto con sé due complici da Brescia (b. 1, f. 346). Nell’interrogatorio del 18 ottobre Castellazzo infierì ulteriormente contro il patriota bresciano rivelando che nel 1851 il comitato di Brescia aveva deciso di assassinare Luigi Mazzoldi, direttore del giornale filoaustriaco e collaborazionista La Sferza, e che Speri si era incaricato del compito. A proposito dell’affare Rossi, Castellazzo si disse in quell’occasione disponibile a ripetere le sue accuse «in faccia dello Speri» (b. 4, f. 366); evidentemente nel costituto perduto del 16 ottobre questi aveva negato ogni addebito. Nell’interrogatorio dell’8 novembre Speri ammise invece che gli attentati in questione erano stati effettivamente progettati, ma sostenne di essersi adoperato con successo per sventarli entrambi.

Con sentenza del 28 febbraio 1853 fu alla fine giudicato colpevole di alto tradimento e di corresponsabilità in tentato omicidio e condannato alla pena di morte da eseguirsi con la forca. A venti dei condannati a morte Radetzky, nella sua veste di governatore generale del Regno Lombardo-Veneto, commutò la pena di morte in pene detentive; la confermò invece per Speri, per il conte veronese Carlo Montanari e per il parroco di Ostiglia Bartolomeo Grazioli.

Notevoli le lettere scritte dal patriota bresciano alla madre, a Tarquinia Massarani e ad altri amici durante la detenzione, alcune delle quali pregevoli anche sotto il profilo letterario. Speri esprimeva con accenti poetici il dolore del prigioniero privato dello spettacolo della natura, dell’affetto degli amici, del piacere dello studio. Celebrava la funzione educatrice dell’amore per la donna che associava all’amore per Dio. A proposito della propria condotta nel processo, lasciava capire che era stata ispirata soprattutto dalla preoccupazione di salvaguardare gli affiliati al comitato bresciano. Senza dimenticare il registro di Tazzoli, la cui confessione tuttavia giustificava attribuendola a buona fede, assegnava a buon diritto a Castellazzo la colpa principale della propria rovina. Tracciava, d’altra parte, un quadro efficacissimo delle illegalità del processo e delle violenze fisiche e morali a cui erano stati sottoposti gli imputati, osservando che per resistere sarebbe stato necessario «essere segnalati eroi» (lettera a Tarquinia Massarani, 24 febbraio 1853, in Luzio, 1905, pp. 210-217). Preoccupato del giudizio dei posteri, si diceva inoltre convinto che la congiura fosse stata opportunamente concepita e ben condotta; per il futuro raccomandava tuttavia l’abbandono delle iniziative cospirative a favore di una lotta aperta basata sulla denuncia di fronte all’opinione pubblica europea del regime oppressivo austriaco; esprimeva inoltre l’opinione che la meta non sarebbe stata raggiunta senza l’appoggio di una potenza straniera. Chiedeva infine perdono a Giuseppe Pilati iunior, già suo allievo, di aver mostrato nel proprio insegnamento avversione alla Chiesa e si proclamava «pentito d’essere stato irreligioso» (lettera del 1° marzo 1853, ibid., p. 224).

Anche il confortatorio di Speri negli ultimi tre giorni della sua vita fu imperniato sulla sua riconciliazione con la religione materna: così narrò monsignor Martini, al quale il condannato spiegò che era stato l’amico e compagno di prigionia Alberto Cavalletto a convincerlo nei mesi precedenti dell’«assurda erroneità del materialismo» (Martini, 1952, p. 111).

La mattina dell’ultimo giorno, prima della partenza dal carcere, Speri pregò e meditò ai piedi del crocefisso; quindi fece testamento. «Conservò il suo sembiante lieto» (p. 141) durante il trasferimento alla valletta di Belfiore, dove fu giustiziato il 3 marzo 1853, ultimo a salire il patibolo, dopo il conte Montanari e il parroco Grazioli.

Fonti e Bibl.: Autografi di Speri, copie manoscritte di suoi scritti, nonché documenti manoscritti che lo riguardano sono conservati presso la Biblioteca Queriniana di Brescia. I verbali dei suoi costituti nel processo di Mantova sono consultabili in Archivio di Stato di Mantova, Auditorato di guarnigione di Mantova, Processo dei Martiri di Belfiore. Numerosi gli studi a lui dedicati: per il rigore scientifico, la ricchezza dei documenti riprodotti e l’ampiezza della bibliografia si segnala l’opera di R. Mazzetti, T. S. Vita, scritti, testimonianze con carteggio e documenti inediti, Brescia 1932. Degli ultimi giorni della sua vita racconta L. Martini, Il confortatorio di Mantova negli anni 1851- ’52-’53-’55 (1867), introduzione e note storiche di A. Rezzaghi, II, Mantova 1952, pp. 93-125, 132-144. Un’ampia raccolta delle sue lettere dal carcere in A. Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo, II, Milano 1905, pp. 189-236. Inoltre: E. Sanesi Tambassi, Il triste dramma di T. S. e di Angiolina Ferretti, in La Martinella, XV (1961), 5-6, pp. 183-205; M. Bertolotti, Le complicazioni della vita. Storie del Risorgimento, Milano 1998, pp. 54 s.; Id., La congiura di Belfiore, in Atti e Memorie dell’Accademia nazionale virgiliana, n.s., LXX (2002), pp. 179-205.

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