LIVIO, Tito (T. Livius)
Storico latino. Nacque a Padova nel 59 a. C., morì nel 17 d. C. Delle vicende esteriori della sua vita non sappiamo quasi nulla. Visse a lungo in Roma ed ebbe familiarità con Augusto. Scrisse dialoghi filosofici; si occupò di retorica e ne diede precetti in una lettera al figlio Tito, che fu anch'egli scrittore. Queste opere minori sono perdute. Non resta che una parte (circa un quarto) della sua opera principale, quella alla quale dedicò la sua vita e su cui è fondata la sua fama, cioè la storia di Roma, che pubblicò a varie riprese per circa quarant'anni col titolo: Ab urbe condita libri. Essa comprendeva 142 libri. S'iniziava con la fondazione di Roma, terminava con la morte di Druso, il fratello di Tiberio, nel 9 a. C.; ma forse terminava in quell'anno, soltanto perché la morte tolse all'autore di procedere più oltre. L. cominciò a lavorare alla sua storia poco più che trentenne. Il primo libro non è anteriore al 27, perché dà a Ottaviano il titolo di Augusto, né posteriore al 25 perché, ricordando le chiusure del tempio di Giano, menziona quella effettuata nel 29, non quella del 25. Alla sua storia L. continuò a lavorare fino alla morte. Infatti del libro 121 le perioche avvertono che editus post excessum Augusti (14 d. C.) dicitur. Da ciò si computa che fino al 14 egli elaborasse circa tre libri all'anno. Ma il computo è approssimativo e può pensarsi che già nel 14 l'elaborazione fosse molto progredita oltre il 121 libro, altrimenti si dovrebbe ritenere che nell'ultima vecchiaia egli apprestasse sette libri all'anno, ciò che sembra esagerato.
All'inizio della sua opera L. distribuì la materia per pentadi o per decadi di libri, come appare da numerosi indizî. Ma nell'insieme non si ha l'impressione che l'opera fosse costruita con un piano e un'economia rigorosamente prestabilita, e lo stesso L., nella sua prefazione al libro XXXI, mostra con una certa ingenuità di spaventarsi perché la mole dell'opera sua gli cresceva impensatamente tra le mani. Delle storie di L., del resto, ci è rimasta soltanto la prima decade che va dalle origini al 293, cioè fin verso la fine della terza guerra sannitica, la terza, la quarta e la prima metà della quinta decade (libri XXI-XLV), che vanno dal 218 al 167, cioè dall'inizio della seconda punica all'assetto della Grecia e della Macedonia dopo la terza macedonica: non solo una piccola parte dell'opera intera, ma una parte in cui L. non è fonte primaria, non ha conoscenza diretta di uomini e di cose, dipende interamente dalle sue fonti scritte, il che va tenuto presente per limitare il giudizio che in base alla parte conservata potremmo fare di lui come storico.
L'opera di L. chiude una serie di elaborazioni romane della storia di Roma repubblicana, che cominciano con Fabio Pittore e Cincio Alimento e vanno sino all'età di Cicerone. Nessuna di queste elaborazioni soddisfaceva il gusto raffinato del grande oratore e dei suoi contemporanei. Abest mim historia litteris nostris, si fa dire egli da Attico fingendo di venirne esortato a ovviare a tale mancanza. Ed era proposito di Cicerone di ovviarvi, ma la morte glielo impedì. L'arduo compito fu assunto coraggiosamente da L., che vi dedicò con tenace abnegazione la sua vita. Il successo fu pieno già presso i contemporanei. Egli stesso ne fa testimonianza quando, secondo che scrive Plinio il Vecchio (Nat. Hist., Praef. 16), nella prefazione di uno dei suoi libri diceva: "iam sibi satis gloriae quaesitum et potuisse desidere, ni animus inquies pasceretur opere". C'è appena bisogno di aggiungere a conferma il noto aneddoto dell'uomo di Gades, che venne a Roma appositamente per conoscere L. e se ne partì non appena lo ebbe conosciuto. L'effetto fu che nell'età imperiale nessuno o quasi osasse più misurarsi con L. scrivendo ab origine le vicende romane, ma non si componessero più in generale sulle vicende dell'età repubblicana che magri compendî fondati per l'appunto sulla storia di L.
L. non si preparò a scrivere la sua storia con accurata indagine delle fonti, che lo mettesse in grado di formarsi un giudizio comparativo intorno al loro valore e che gli servisse quindi di guida nella scelta che avrebbe dovuto farne. Non già che egli si nascondesse l'incertezza e l'oscurità della storia primitiva di Roma. Sapeva benissimo che il più antico storico latino era Fabio Pittore, e non ignorava che quando non ci sono storici vicini di tempo non c'è molto da fidarsi di quel che è tramandato. La sua stessa dichiarazione all'inizio del libro VI mostra quanto egli, che viveva in una età illuminata, fosse lontano dall'acrisia di certi suoi ammiratori moderni: "Quae ab condita urbe Roma ad captam urbem eandem... res cum vetustate nimia obscuras velut quae magno ex intervallo loci vix cernuntur, tum quod parvae et rarae per eadem tempora litterae fuere, una custodia fidelis memoriae rerum gestarum, et quod, etiam si quae in commentariis pontificum aliisque publicis privatisque erant monumentis, incensa urbe pleraeque interiereı. Tuttavia egli non si è dato la pena di rimediare a questa oscurità e incertezza che non esitava a riconoscere. Primo mezzo e largamente usato da scrittori greci e da antiquari latini era quello di ricorrere ai documenti. Ma i documenti non avrebbero dato a L. il modo di costruire un racconto ampio e leggibile quale si proponeva, e d'altronde non gli avrebbero permesso di compiere un'opera gigantesca come la sua: li ha quindi lasciati da parte. Non sono frequenti i casi in cui li cita, e non pare che ne consultasse mai direttamente neppure uno. Uno gli fu indicato dall'imperatore Augusto, che era in pieno contrasto con la narrazione annalistica da lui seguita, la corazza lintea del re Tolumnio dedicata da Cornelio Cosso nel tempio di Giove Feretrio, dalla cui iscrizione veduta da Augusto risultava che Cornelio aveva dedicato le spoglie del re nemico da console e non da tribuno militare (IV, 20), come L. aveva riferito sulla fede delle sue fonti annalistiche. Ora è caratteristico che L. riconosce bensì il valore del documento e la falsità del proprio racconto; ma lascia quel racconto intatto e continua a riprodurre tranquillamente racconti della stessa provenienza e dello stesso valore.
Così, trascurando i documenti, L. quando avverte i dissensi tra le fonti non sa di regola che manifestare candidamente la propria perplessità (VIII, 40, 3). Ma egli si acquetava volentieri di fronte alle favole contrastanti, pensando appunto che non c'era una via sicura per conoscere il vero (VII, 6, 6). E pure non mettendo sul fuoco la mano quanto alla veridicità di nessuno, pensava che si dovesse dare imparzialmente ascolto a tutti (VIII, 18,1). Peraltro, già nel corso della prima decade, cominciò ad avvedersi quanto fossero incerte alcune notizie date da Valerio Anziate, che pure era e continuò a essere una delle sue fonti principalissime (III, 5, 12). Il suo buon senso finì con farlo accorto della mendacità di questo annalista. Ma se ne avvide più tardi, quando poté confrontarne il racconto con quello di Polibio, del quale non gli rimase nascosto, non ostante la sua ripugnanza a pronunciare un giudizio comparativo tra le fonti, quanto superasse in massima per attendibilità i tardi annalisti romani da cui traeva di preferenza il suo racconto. Ma neppure allora si risolse a mettere da parte queste fonti scadenti che gli erano preziose per l'abbondanza delle notizie che vi trovava. E si limitò a quando a quando a scaricare la sua coscienza accennando al lettore i dubbî che gli lasciavano le loro invenzioni.
Questo suo modo di comportarsi rispetto alle fonti mostra che a L. importava soprattutto di avere rapidamente alla mano i materiali per costruirvi un racconto vivo e leggibile delle vicende romane. E questo stesso fa ritenere a priori che egli non l'abbia mai costruito contaminando molte fonti o correggendole l'una con l'altra, ma che per lunghi periodi non abbia avuto più di due o al massimo tre fonti principali, e queste scelte tra gli annalisti più tardi e più diffusi e perciò stesso più ricchi di falsificazioni. Precisare però i nomi, indicare quel che nei libri della prima decade sia dovuto a Valerio Anziate, a Licinio Macro, a Claudio Quadrigario, ecc., è impresa disperata, e i varî tentativi fatti a questo fine non hanno dato che risultati malsicuri e contraddittorî. Una sola cosa può dirsi con sicurezza, che forse mai in tutta la prima decade, forse solo in qualche rarissimo caso, L. ha usato direttamente i più antichi annalisti e in particolare Fabio Pittore. Egli non lo cita del resto che sei volte, di cui cinque nella prima decade e una nella terza, e non gli riesce del tutto ignoto che sarebbe preferibile il seguirlo, per quanto da questa constatazione non si risolva a trarre le necessarie conclusioni. E per ragioni analoghe anche gli altri annalisti più antichi non sono usati che poco o nulla. Gli annali di Cincio non sono citati che una volta a proposito della seconda guerra punica, quelli di Postumio Albino e Cassio Emina neppure una volta, delle Origini di Catone non c'è traccia, se non al più per l'età dello stesso Catone.
Il confronto con Polibio fa che ci troviamo su terreno più sicuro, quanto alle fonti dei libri XXI-XLV. Già nella terza decade Polibio è seguito di regola assai da vicino per qualche parte de"e guerre nel territorio dei Greci d'Italia, per molta parte della guerra di Sicilia, per tutta la storia della cosiddetta prima macedonica. A partire poi dall'inizio della quarta decade diviene fonte principalissima e quasi unica per le vicende delle guerre romane in Oriente, e solo accanto a lui continuano a essere usate fonti annalistiche varie per le conquiste occidentali e per la storia interna di Roma. Polibio è adoperato per lunghi tratti senza contaminazione di altre fonti in una versione talora molto aderente al testo. Ma sbaglierebbe assai chi inducesse da ciò che L. abbia seguito così esclusivamente e così da vicino per lunghi tratti l'una o l'altra delle sue fonti latine. Già di fronte alle fonti latine, egli seguendole tanto da vicino non avrebbe potuto conseguire quell'indipendenza stilistica che di fatto raggiunse e che rispetto alla fonte greca, pur seguendola da vicino, gli era facile raggiungere col solo tradurre non servilmente e conforme allo spirito della propria lingua. Poi la superiorità di Polibio come storico, al confronto con i tardi annalisti, era tanto palese che a L. stesso nel suo buon senso doveva parere sconveniente di guastarne il racconto contaminandolo con fonti così diverse e così inferiori. E d'altronde quanto nei tratti polibiani, cioè nella parte maggiore della quarta e quinta decade, il racconto appare nell'insieme lucido e coerente, altrettanto slegato, contraddittorio, non chiaro, appare nei tratti non polibiani, ciò che si spiega in parte con lo scarso valore storico della tarda annalistica romana, in parte con la pluralità delle fonti. Ma se per la quarta e quinta decade è certo che la parte maggiore risale indubbiamente a Polibio, assai più complicata e controversa è la questione delle relazioni tra Polibio e L. nella storia della seconda guerra punica (terza decade). Ivi, a prescindere da quei luoghi di sicura origine polibiana che già abbiamo indicati, è indubitato che vi sono non pochi altri tratti a proposito delle imprese di Scipione in Spagna o delle vicende più tarde di quella guerra (p. es. la battaglia del Metauro), in cui l'uso diretto di Polibio sembra la migliore spiegazione delle strette attinenze col racconto di quello storico. Ma accanto a questi vi sono altri che paiono meglio spiegarsi con l'uso di un annalista, il quale ha elaborato Polibio con maggiore libertà di quello che L. non facesse (il cosiddetto annalista polibiano) e talora poi avvertiamo attinenze che provengono dall'uso delle fonti stesse seguite da Polibio (Fabio Pittore, Sileno), sia adoperate direttamente da L., sia, ciò che nella maggior parte dei casi sembra più probabile, a lui pervenute attraverso il molto rettorico e poco coscienzioso storico romano della seconda guerra punica, Celio Antipatro.
Questo il quadro che possiamo dare delle fonti di L. e dei suoi criterî nell'usarne. Scelta e criterî si collegano con i fini e la natura dell'opera sua. Ciò che L. si proponeva con l'opera sua ha detto egli stesso al termine della prefazione: "ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum quae vita, qui mores fuerint, per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit, labente deinde paulatim disciplina velut desidentes primo mores sequatur animo, deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire coeperint praecipites, donec ad haec tempora, quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus, perventum est". Chi però sulla base di queste espressioni si attendesse una storia prammatica in cui fossero chiarite le cause della grandezza di Roma, e dell'incremento del suo impero, cercate sia pure moralisticamente nel confronto tra le virtù dei padri e le istituzioni sgorganti da quelle virtù e i vizî dei popoli con cui Roma ha combattuto, s'ingannerebbe a partito. Vi sono sì qua e là cenni eloquenti, sebbene spesso generici, intorno alla semplicità e austerità dei padri e al progressivo deterioramento del costume. Un intimo legame, per altro, tra questi cenni e lo sviluppo degli ordinamenti romani non meno che il progressivo incremento dell'impero non pare sia mai cercato di proposito. Né mai L. si attarda a darci una chiara idea delle singolari istituzioni politiche romane e della vita costituzionale del suo popolo. Vissuto lontano dalle magistrature e in generale dalla vita politica, egli non si sentiva chiamato a procacciare al lettore quel preciso concetto del diritto pubblico romano che con tanto successo si è sforzato d'avere e di trasmettere ai lettori il greco Polibio. Le lotte politico-sociali dell'età più antica non possono perciò essere da lui rivissute nella loro cruda realtà; egli le vede solo attraverso gli schemi foggiati dalla tarda annalistica sulle condizioni affatto diverse dell'età graccana o sillana. Manca poi quel che sarebbe indispensabile per intendere la storia esterna di Roma, la comparazione costante con le istituzioni dei popoli con cui Roma combatté; Sabini, Equi, Volsci, Sanniti, Etruschi non sono in sostanza nella storia di L. che nomi. Quale complesso di forze materiali e morali ciascuno di questi nomi rappresenti, non è mai chiarito, e del resto delle stesse forze romane non basta davvero la nuda enumerazione dei risultati d'ogni censimento, compresi quelli, certo falsificati, dell'età più antica, né il nudo elenco delle legioni che L. da per tutti gli anni per cui lo trova nelle sue fonti, a farci intendere le forze effettive di cui lo stato romano disponeva. E invano (fatta l'eccezione che vedremo) si cercherebbe nella prima decade una pausa in cui venga chiarito quale in un determinato momento era l'estensione e la popolazione del territorio abitato da sudditi o da alleati di Roma, quali le sue colonie cittadine o latine, quali in sostanza i mezzi di cui disponeva per procedere nella via della conquista. Badiamo che di ciò non va fatto a L. colpa: egli ha voluto almeno in tutta la prima parte della sua opera dare non una vera storia, ma una serie di annali e a quella slegatezza e a quella mancanza di prammatismo, cioè a quella mancanza d'un vero sforzo di comprensione del nesso tra i varî fatti che narrava, si è sentito autorizzato dall'esempio degli annalisti a cui si atteneva. Anzi l'unica volta in cui ha derogato a questa norma (IX, 17-19), se ne scusa col lettore quasi avesse fatto cosa aliena dall'intento dell'opera sua. Si tratta della famosa digressione in cui vuole dimostrare che, se Alessandro Magno invece di muovere in oriente contro i Persiani avesse attaccato in occidente i Romani, non sarebbe riuscito a vincerli. A parte le riserve che possono farsi nel rispetto storico intorno alla stessa posizione del problema, è una digressione veramente mirabile per efficacia d'espressione e per sincero ardore di sentimento patriottico. Né vi mancano, sia pure accennate di scorcio, riflessioni notevoli intorno alle forze e alle virtù di Roma in confronto con le forze di Alessandro e cenni che avrebbero meritato svolgimento intorno alle istituzioni diverse e dei Macedoni e dei Romani, i quali mostrano ciò che L. sarebbe stato capace di fare se avesse voluto, approfondendo i problemi storici, dare un carattere diverso all'opera sua. E può darsi del resto che, pure mantenendo lo schema annalistico, egli abbia mutato il carattere della sua opera, nell'ultima parte di essa più vicina ai suoi tempi, e si sia sforzato di farne una vera e propria storia, e può anche darsi che il principio di questa historia fosse segnato dal libro CIX con cui s'iniziava quella sezione della sua opera alla quale egli o altri diede il nome di civilis belli libri. Ma queste sono ipotesi su cui il materiale conservato non ci permette di dare sicuro giudizio; e non sappiamo punto se il passaggio da una narrazione più stringata e dipendente in tutto da fonti scritte a una più larga e non così schematica e costruita in parte almeno dallo stesso scrittore significasse anche un mutamento di carattere nell'opera dello storico, ciò che può parere dubbio.
Come, non giurista né uomo politico, L. non ci orienta nel campo dello sviluppo costituzionale, così, non essendo militare né avendo alcuna pratica o alcun interesse per cose militari, sarebbe vano cercare in lui un'adeguata valutazione nel rispetto militare delle vicende di una guerra. La storia della seconda punica è narrata con molta ampiezza, ma in sostanza la profonda differenza tra i primi anni di essa e gli anni successivi non è chiarita se non con l'antistorico accenno agli ozî campani. Né vi si trovano esposte con chiarezza di linea le alterne vicende delle lotte nell'Italia meridionale o peggio nella Spagna. Molto è detto, e spesso con singolare efficacia intorno alle imprese di Scipione in Spagna e in Africa (vedasi, p. es., la mirabile descrizione dell'incendio del campo cartaginese, nella quale L. supera di gran lunga per evidenza di stile e concentrazione di racconto Polibio, che pure egli segue). Ma sarebbe assai difficile, stando alla sua sola narrazione, spiegarci i meravigliosi successi del generale romano in entrambi i teatri della guerra. Questo disinteresse per le cose militari fa sì che L. non riesca mai, se non quando fedelmente traduce da Polibio, a darci l'idea chiara nel rispetto tattico e strategico di una battaglia realmente avvenuta. Abbastanza chiare sono bensì alcune descrizioni di battaglie della prima decade, ma esse sono quasi sempre affatto schematiche; esercitazioni retoriche d'annalisti sprovvisti egualmente di coscienza e di cognizioni intorno all'arte della guerra, che L. ha in buona fede trascritte.
Dove egli usa Polibio, le descrizioni sono assai migliori. Ma anche qui il suo scarso interesse per le cose militari si tradisce assai palesemente: così quando, a proposito della battaglia di Cinoscefale, mentre Polibio ci dice che Filippo ordina ai suoi falangiti di caricare, abbassate le lance (καταβαλοῦσι τὰς σαρίσας ἐπάγειν), L. traduce hastis positis gladiis rem gerere iubet, dove sarebbe affatto ingiusto essere troppo severi per la svista di traduzione in cui egli, certo ottimo conoscitore del greco, è incappato. Ma questa svista è caratteristica, perché mostra come non si facesse un'idea esatta di quello che è stato sempre il momento essenziale delle battaglie fra Romani e Macedoni, cioè la resistenza dei legionarî con le loro corte spade all'attacco della falange con l'arme sua caratteristica, la lunga lancia detta sarissa. E come dei particolari tattici o strategici dei combattimenti o delle campagne, così L. si disinteressa delle questioni topografiche. Non c'è una delle battaglie liviane in cui la determinazione dell'esatta topografia non abbia presentato difficoltà spesso insormontabili e non abbia dato luogo tra i critici alle ipotesi più svariate.
Ma se qui e altrove può giustamente parere che L. non dia tutto quello che noi attenderemmo da uno storico, sarebbe d'altra parte ingiusto fare a lui una colpa di quelli che erano i difetti comuni alla tradizione annalistica tarda cui egli per le ragioni dette aveva creduto di attenersi. Non amanti della verità come L. e del resto considerando la storia soprattutto come opera retorica, questi tardi annalisti non solo non s'erano fatto nessuno scrupolo di raccogliere e tramandare o magari abbellire quelle falsificazioni dovute alla vanità familiare che già avevano trovato luogo, come Cicerone lamentava, nelle laudazioni funebri o nelle false iscrizioni apposte alle immagini degli avi (falsi imaginum tituli), ma non avevano esitato a riempire le lacune della tradizione con invenzioni pedestri, p. es. interminabili discussioni nel Senato, redatte con l'ampiezza degli atti ufficiali dei parlamenti moderni, e ciò per età in cui non esistevano né simili atti né racconti storici contemporanei. E non s'erano contentati di vedere le vicende e le lotte esteme e interne dell'età più antica alla luce di quelle dell'età più recente, il che sarebbe stato scusabile e avrebbe potuto anche essere fatto in piena buona fede, ma avevano moltiplicato ed esagerato fino all'assurdo le vittorie dei Romani antichissimi contro i piccoli popoli vicini, avevano inventato cifre ridicole di caduti nemici e si erano trovati poi costretti a rappresentare le piccole tribù o i piccoli popoli, dopo avere perduto in battaglia quelle decine di migliaia di uomini che talora forse non erano mai riuscite a mettere insieme nel campo, pronti a tornare alla lotta, come non si fossero neppure accorti delle perdite toccate. Peggio, dopo ogni sconfitta subita dai Romani, alterando la tradizione genuina da cui appariva con quale tenacia i Romani avessero preparato e conseguito a tempo debito la rivincita, si favoleggiava invece di rivincite immediate per le quali i nemici riportavano spaventose sconfitte, senza che queste poi avessero nell'andamento generale del conflitto la più piccola efficacia. Dato lo scopo e il metodo del suo lavoro, a L. non era possibile accorgersi di questi difetti fondamentali della tradizione da lui seguita. E anche meno gli era possibile evitare le numerose reduplicazioni, parte inconsapevoli, parte intenzionali, che inquinavano l'antichissima storia romana. Qualche volta, infatti, per quell'orrore del vuoto che avevano i tardi annalisti, essi riempivano i vuoti della tradizione con inserirvi anacronisticamente fatti che erano a loro luogo altrove, dove la tradizione correva più abbondante. Ma nella maggior parte dei casi queste reduplicazioni, delle quali esempio tipico è il doppio incendio di Satrico, di cui si salva soltanto il tempio della Mater Matuta, narrato nel 377 e nel 346, erano preterintenzionali. Così si sapeva, p. es., probabilmente dalle registrazioni dei pontefici, che i Romani s'erano impadroniti di Priverno sotto il consolato di Plauzio ed Emilio. Ora un Plauzio e un Emilio furono consoli nel 341 e nel 329 e perciò, è da credere, un annalista riferì la presa di Priverno alla prima data e un altro alla seconda, e un terzo, non accorgendosi che si trattava dello stesso fatto, la riferì sotto entrambe le date; duplicazioni che si continuano anche più tardi in piena luce di storia, come mostra il caso tipico della battaglia di Erdonea combattuta durante la guerra annibalica, che viene da L. riportata due volte, nel 210 e nel 208, dove il perdente è sempre un Cn. Fulvio, ora pretore ora proconsole.
Ma questi difetti, non particolari del resto, come dicevamo, a L., dovevano scomparire di fronte alla monumentalità dell'opera sua, tanto più in quanto ne era assai meno tocca la parte maggiore dell'opera stessa, quella che a noi è andata perduta.
Degno di quella monumentalità era il valore artistico. L. aveva meravigliose doti di artista; non solo piena padronanza della frase e di quell'arte del periodare che s'era tanto perfezionata nell'età ciceroniana (la patavinitas, di cui lo accusava un raffinato conoscitore di lingua e di stile, Asinio Pollione, non sappiamo bene in che consistesse), ma attitudine singolare nel rappresentare al vivo stati d'animo e nel raffigurare personaggi e vicende. Si direbbe, ad es., ch'egli avesse visto effettivamente, così vivo è il racconto, prima del combattimento di Cinoscefale i due eserciti avversarî muovere tra la nebbia incerti della direzione, o sullo scorcio della battaglia di Canne il console Emilio Paolo mentre, ferito, rifiuta di salvarsi con la fuga e non vuole sopravvivere all'onta d'una catastrofe di cui non è sua la colpa. La profonda serietà, il sincerissimo amore del vero, il caldo affetto alla patria e alle sue memorie, la nobiltà dei sentimenti, e in particolare il senso umano sempre vivo e vigile contribuiscono a spiegare l'efficacia che l'opera di L. ha avuta nell'animo di lettori antichi e moderni. Nei limiti infatti di quello ch'egli si è proposto di dare, riesce meravigliosamente, trasmettendoci la commozione con cui assiste alle drammatiche vicende delle lotte interne ed esterne di Roma. E sarebbe ingiusto dire che questa efficacia dipende dalla veste retorica di cui ha adornato i dati delle sue fonti. Non si tratta di una veste che sia come sovrapposta alla materia e distaccata da essa, è in realtà la sua intuizione d'artista, la sincera liricità che pervade tutta l'opera. In tale liricità s'effonde il suo patriottismo.
Giova all'efficacia delle sue rappresentazioni qualche lieve e misurata risonanza elegiaca in cui si esprime il rimpianto dell'autore per un passato che è veramente passato di fronte a un presente nel quale l'impero sembra vacillare oppresso dalla sua stessa mole, sicché iam nec vitia nostra nec remedia pati possumus. Si è detto che l'opera di L. è un'epopea della romanità ed è infatti tale, ma, scritta da un Romano che rivive come sua la vita del suo popolo e però senza quel distacco per cui quasi sempre lo storico greco si sforza di considerare e dominare, come se gli fosse estraneo, il proprio argomento, è un'epopea moderna e vissuta, piena di pathos contenuto. E questo gl'ispira il profondo rispetto alle tradizioni patrie, che, come vedemmo, gli impedisce una severa critica di quelle tradizioni, ma nello stesso tempo, pure mentre egli non dissimula il dubbio circa la loro veracità storica, gli dà il modo di riviverle; e gli permette di riferire con serietà e rispetto anche quei prodigi che, in sede filosofica, la sua ragione illuminata non gli avrebbe certo permesso di accettare. È uno stato d'animo a cui egli stesso ha saputo dare lucida espressione "non sum nescius ab eadem neclegentia, quia nihil deos portendere vulgo nunc credant, neque nuntiari admodum ulla prodigia in publicum neque in annales referri, ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto anticus fit animus et quaedam religio tenet quae illi prudentissimi viri publice suscipienda censuerint ea pro indignis habere, quae in meos annales referam" (XLIII, 13,1).
Egli non è credulo come molti dei suoi lettori antichi e moderni prima e dopo il sorgere della critica storica. Vissuto in un'età progredita, sa benissimo il conto che nel rispetto della rigorosa indagine storica deve farsi delle antiche narrazioni, specie di quelle delle origini, poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis, e, onesto com'è, non nasconde ciò al lettore, ma quelle narrazioni egli le ama perché costituiscono la tradizione del suo popolo e ne esprimono lo spirito, perché sono degne della sua grandezza e gli pare ne contengano come il presagio. Per questo, lungi dal disprezzarle o dall'irriderle o anche solo dal sottoporle a critica, egli le riferisce con rispetto e con commozione. Scrittore di buon gusto e di fine sensibilità, non si attarda su di esse, non le snatura razionalizzandole o rivestendole di retorica, ma le accoglie con tocco lieve e spurgandole di quel che trova troppo fanciullesco e primitivo o per qualsiasi ragione troppo repugnante all'età progredita in cui vive. Così in un solo libro con succosa brevità riassume tutto il periodo regio, e nei quattro successivi tutte le vicende leggendarie della prima repubblica fino alla liberazione di Roma dai Galli. L. è uno di quei prosatori che primi arricchiscono la prosa latina di locuzioni rimaste fino allora peculiari alla poesia, e la liricità che è caratteristica della sua storia fa sì che questa immissione di frase poetica, la quale urterebbe profondamente in un Senofonte o in un Polibio, non generi nell'opera liviana alcun senso di disarmonia. A impedire un tale senso conferisce l'essere la locuzione poetica più copiosa appunto in questa prima pentade e forse, anche più che negli altri libri, in quello sull'età dei re. Il fine artista, seppure non sapeva egli stesso l'origine poetica delle leggende che narrava, trovava quasi per istintiva ispirazione lo stile più adatto a narrarle, più conforme alla stessa ispirazione prima che le aveva create. Ed è il suo uno stile ricco e vario e aderente, non per servilità o per povertà, ma per giusta adeguazione spontanea ai materiali di cui disponeva. Sicché egli non ha ridotto quei suoi materiali a una specie di massa grigia con la monotonia di una uniforme quanto pedantesca ed esteriore elaborazione stilistica, come ha fatto in greco il suo coetaneo Dionisio di Alicarnasso, ma traspare invece attraverso la sua prosa qua il colorito e la vena dell'epopea popolare, là la rude stringatezza delle registrazioni dei pontefici, altrove il verboso pragmatismo dell'annalistica recente.
Sono forse queste ultime le parti che a noi paiono meno riuscite, ma anche qui col suo senso della misura L. ha tagliato assai nella selva selvaggia delle invenzioni e divagazioni annalistiche, e col fine senso psicologico, con la singolare capacità di dare concretezza a ciò che narra, con l'eloquenza delle orazioni che v'inserisce, ha saputo quasi sempre conferire formalmente anche a quelle narrazioni dignità di racconti storici.
Con la sua monumentalità e col suo valore artistico contribuì anche al successo dell'opera liviana il suo valore morale. Perché egli era sincero ammiratore delle antiche virtù romane e narrando i fatti gloriosi della patria intendeva anche dare al suo racconto un valore paradigmatico. Inoltre l'amore per la verità, che professa nel suo prologo e ripetutamente nell'opera sua, non si smentisce mai, per quanto possiamo giudicare, nel corso dell'opera. Tacito lo chiama eloquentiae ac fidei praeclarus in primis e Seneca il retore natura candidissimus omnium magnorum ingeniorum aestimator. Amore sincero per la verità e candida ammirazione pei gli uomini e le cose grandi, di cui rendono testimonianza anche i libri conservati. Non solo può dirsi con sicurezza che L. non ha mai alterato consapevolmente le sue fonti o mescolato alle altrui le sue invenzioni (il che non è piccolo merito quando vigeva il principio che concessum est rhetoribus ementiri in historiis), ma è stato anche, relativamente all'uso antico, moderatissimo nell'adoperare quegli adornamenti che gli storici più onesti si ritenevano leciti. S'intende ch'egli non si fa nessuno scrupolo d'attribuire ai personaggi storici discorsi di sua composizione nei quali svolge i concetti che gli sembravano suggeriti dalle contingenze in cui li immaginava pronunciati. Ma per il resto, il confronto con Polibio, nei luoghi in cui lo segue, assicura che non si è mai permesso più di qualche innocentissimo flosculo letterario nel riferirne le narrazioni e che al massimo ha taciuto per amore patrio qualche particolare poco onorevole per Roma, specie se gli sembrava che non fosse in tutto assodato. Ma anche rispetto agli ultimi tempi della repubblica, gli scarsi frammenti che abbiamo di questa parte dell'opera mostrano con quale serena imparzialità di giudizio egli parlasse di fatti intorno a cui correvano nell'età sua i giudizî più varî e passionati. Così di Pompeo parlava con tale lode che Augusto lo chiamava scherzosamente un pompeiano; di Cicerone, che era stato tra le vittime del secondo triumvirato, pure non celandone le debolezze, diceva che vir magnus ac memorabilis fuit et in cuius laudes exequedas Cicerone laudatore opus fuerit; e infine di Cesare, il padre adottivo del suo amico e protettore Augusto, il fondatore dell'impero, osava ripetere in incerto esse utrum illum nasci magis reipublicae profuerit an non nasci. Dove non è dubbio che questo palese affetto alle tradizioni repubblicane, contemperato peraltro col riconoscimento della necessità del principato e con la devota amicizia per Augusto, il quale si proponeva appunto di salvare di quelle tradizioni tutto quanto era conciliabile con il principato, fece dell'opera di L. l'espressione più genuina dello spirito del tempo e contribuì a guadagnarle l'ammirazione di tutti quelli che sentivano romanamente.
Le epitomi. - Della parte perduta dell'opera di L. non abbiamo che scarsissimi frammenti; di qualche importanza solo un paio presso Seneca il retore intorno a Cicerone. Per il resto, di tradizione diretta non c'è che un frammento del libro 91°, scoperto nel 1772 in un palinsesto vaticano da P.J. Bruns, concernente la guerra di Sertorio. Ma ci è conservato un riassunto dell'intera opera liviana che porta nei codici il nome di perioche. È una raccolta di sommarî dei 142 libri di L. nella quale mancano soltanto i due libri 136 e 137, probabilmente perché l'autore delle perioche non ha trovato questi libri nell'esemplare di L. che aveva dinnanzi a sé. La prima perioca ci appare in due redazioni diverse che si sogliono designare con le sigle Ia e Ib; Ib comincia con Anco Marcio ed è quindi lacunoso al principio, Ia è integro, ma differisce per il carattere da tutte le altre perioche. Queste, come Ib, sono riassunti stilisticamente compiuti; in Ia invece abbondano espressioni sintetiche che arieggiano i lemmi come adventus Aeneae..., Ascani regnum Albae..., Amullius obtruncatus, ecc. Pare evidente che, essendo mancante di una facciata (o di una colonna) l'archetipo delle nostre perioche, un copista l'ha completato aggiungendovi un altro sommario del I libro. Ma era davvero questo sommario ricavato, come si ritiene, da un altro complesso di perioche diverso dal nostro? Può anche darsi che fosse ricavato da note riassuntive marginali d'un qualsiasi esemplare integro di L. Comunque, delle nostre perche è incerta l'età e ignoto l'autore. Errata è l'attribuzione che ne fanno alcuni codici a Floro, l'autore del noto compendio di storia romana. L'attribuzione è dovuta al fatto che le perioche erano tramandate in alcuni manoscritti col compendio di Floro per la somiglianza del contenuto; ed è dimostrata falsa dalla profonda diversità di stile tra le perioche e Floro.
Per il resto le perioche sono di misura tra loro diversissima. Ve ne hanno di poche righe, e ve ne hanno di una pagina o una pagina e mezzo delle moderne edizioni teubneriane. Né si saprebbe riconoscere alcun preciso criterio nella scelta dei fatti. Se ne omettono di quelli che a noi parrebbero importantissimi; se ne registrano, magari con particolari e ormeggiando da vicino il testo, di quelli che a noi paiono di nessun conto. Del resto forse non è di ciò responsabile in tutto chi primo ha redatto le perioche, perché può darsi benissimo che note o aggiunte marginali di qualche lettore delle perioche, che aveva presente anche l'intero L. o altri suoi riassunti, siano penetrate qua e là nel testo. La sconnessione stilistica propria di questo genere di letteratura facilitava le interpolazioni, così come impedisce a noi di riconoscerle. D'altronde l'ingente mole dell'opera liviana pare che fino da tempi molto antichi avesse indotto a farne dei riassunti. C'è chi ha pensato persino che L. abbia riassunto sé stesso o che ve ne sia stato un riassunto antichissimo spettante all'età di Tiberio, al quale avrebbero attinto, tutti o quasi, quelli che poi hanno usato L., a partire da Valerio Massimo e ad arrivare fino ad Agostino, a Orosio, a Cassiodoro. Altri considera questa epitome liviana come uno spettro e solo ritiene che sui varî scrittori che hanno usato L. possano avere influito lemmi marginali di capitoli o di paragrafi. E c'è in questa seconda ipotesi una gran parte di vero, parendo poco dubbio che le perioche siano, almeno nella loro sostanza e prescindendo da tarde inserzioni, un diretto riassunto dell'integro L.; e questo pure sembra doversi dire di altri epitomatori liviani, per es., almeno per la massima parte delle notizie che egli fornisce, di Giulio Ossequente (v. oltre). Ma pare anche indubitato che fino da epoca assai antica, almeno cioè dai tempi di Marziale, si cominciassero a compilare epitomi di L. È da ritenere, infatti, conforme alla più ovvia interpretazione, che a una tale epitome alluda il poeta col suo epigramma (14, 190): Pellibus exiguis artatur Livius inens, quem mea non totum bibliotheca capit.
D'altronde un notevole frammento di un'epitome liviana avente un carattere assai diverso dalle nostre perioche fu scoperto nel 1903 ad Ossirinco. Esso contiene frammentarî riassunti dei libri XXXVII, XL, XLVIII, LIII, e frustuli dei libri LXXXVII, LXXXVIII. Qui sono enumerati fatti interni e fatti esterni della storia di Roma, né mancano aneddoti, ma l'ordine è, a differenza di quel che avviene nelle nostre perioche, cronologico. Gli excerpta sono distribuiti anno per anno e preceduti dai nomi dei consoli.
Oltre le perioche di Ossirinco, vi sono anche altri scrittori i quali nei loro riassunti di storia romana hanno attinto in larga misura a L., anzi può dirsi che ne siano in certo senso epitomatori. Tale Floro (v.), la cui opera porta nei codici la designazione di Epitome de Tito Livio, che però non le è stata data dall'autore, il quale accanto a L. usò certamente altre fonti. Tale Eutropio (v.), che nel suo breviario Ab urbe condita per la parte concernente la storia repubblicana non fece se non riassumere L. Tale Orosio, delle cui Historiae adversum paganos L. è la fonte per i libri IV-VI. E poco diversamente epitomatore di L., sebbene non del solo L., può dirsi Granio Liciniano (v. liciniano, granio), che nell'età degli Antonini scrisse una storia romana, della quale nel secolo scorso fu scoperto in un palinsesto un notevole frammento. E da L. dipendono anche in parte Rufo Festo (v.) per il suo breviario Rerum gestarum populi romani e Cassiodoro nel suo Chronicon per la sua serie di consoli fino all'età augustea e per le brevi notizie cronografiche che sono registrate accanto ai loro nomi. Si ripresenta per tutte queste fonti il problema, cui già abbiamo accennato a proposito delle perioche, se esse cioè dipendano direttamente da L. o da un'epitome liviana o magari da un'epitome d'un'epitome. Anche qui certi punti di contatto tra gli epitomatori, per cui si differenziano insieme formalmente o anche sostanzialmente dal testo di L. conservato, possono di sovente spiegarsi con l'influsso dei lemmi marginali o con la comune dipendenza da una tradizione serbata nelle scuole retoriche o talora con la dipendenza dell'uno dall'altro di questi excerptores. Ma pare difficile negare che le perioche di Ossirinco, Cassiodoro e forse taluno degli altri epitomatori dipendano in comune da una cronica in cui era, ricavata da L., la serie dei consoli con brevi notizie cronografiche simili a quelle date da Cassiodoro. Fonte però non unica, perché accanto a questa essi hanno di regola consultato l'integro L. e talora avuto anche presente alcuno dei sommarî storici più divulgati, come quello di Floro, o qualche raccolta di esempî dipendenti da L., come Valerio Massimo. Un posto speciale tra questi excerpta occupa il liber prodigiorum di Giulio Ossequente, che registra i prodigi a partire dall'anno 190 a. C. (è perduto il principio che risaliva al 245). Questo libretto attinge senza dubbio direttamente a L., perché non è concepibile che un'epitome contenesse enumerazioni tanto compiute di prodigi, ma nello stesso tempo dipende anche da un cronico liviano, lo stesso probabilmente da cui dipendono Cassiodoro e le perioche di Ossirinco, come mostra la stretta parentela tra qualche notizia cronografica, che Ossequente aggiunge talora ai suoi prodigi, e le notizie analoghe di Cassiodoro. Da tutte queste fonti e da altri scrittori che hanno usato più o meno saltuariamente L. come Plutarco e Cassio Dione, e, tra i poeti, Lucano e Silio Italico, si dovrebbe tentare un Livius restitutus ben diverso dai tentativi umanistici dei secoli passati; ma finora non ne abbiamo avuto che saggi parziali e insufficienti.
Tradizione manoscritta. - L'opera integra di L. si è conservata ancora nello scorcio dell'età antica ed era tramandata per decadi. Papa Gelasio sulla fine del sec. V cita la seconda decade, Prisciano nel sec. VI usa frequentemente libri a noi perduti. La tradizione dei libri pervenutici varia assai da decade a decade. Per la prima abbiamo tre fonti di natura molto diversa:1. un papiro del sec. III d. C., che contiene un frammentino del libro I; 2. un palinsesto veronese (V) del sec IV, che contiene frammenti dei libri III-VI; 3. una trentina di manoscritti databili dal sec. IX in poi, il cui archetipo risale a una recensione della decade fatta circa il 400 per i Simmachi a cura di due Nicomachi e di un Vittoriano, come risulta dalle subscriptiones dei libri. Questo terzo gruppo, che è quello su cui riposa in massima la tradizione della decade, si divide in sottogruppi, i cui rapporti non sono sempre ben chiari. Provvisoriamente può essere indicata una divisione in cinque sottogruppi, di cui il primo e principale è rappresentato dal codice Mediceo Laurenziano (M) del sec. XI e da un codice perduto di Worms, il secondo (transalpino) soprattutto da un Parigino (P) del sec. X, il terzo da un Harleianus (H) pure del sec. X, il quarto (cisalpino) da un Romano (Rn) del sec. XI, il quinto da due codici, un Einsiedlense (E) del sec. X e un Oxoniense (O) del sec. XI, manchevoli, ma ora completati da un prezioso, sebbene tardo, Monrealese (C) del secolo XV. La terza decade si basa essenzialmente su due fonti: 1. il codice Puteanus, ora parigino, del sec. V (P); 2. due manoscritti perduti, uno di Bobbio, di cui rimangono alcuni fogli palinsesti nella biblioteca di Torino, e uno di Spira (S), che può ricostruirsi sia dalle varianti che ne furono registrate da umanisti, sia da manoscritti che ne derivano. La quarta decade risale a tre fonti: 1. un codice romano del sec. V di cui rimangono alcuni frammenti (R), spettanti al libro XXXIV; 2. un antico codice piacentino poi trasportato a Bamberga (F), noto soprattutto da alcuni frammenti di recente scoperti e da una copia del sec. XI, il Bambergense (B), il quale contiene i libri XXXI-XXXVIII, 46, ed è la nostra fonte principale per questa decade; 3. un codice di Magonza (M), che abbracciava i libri XXXIII, 17-XL, oggi perduto, ma noto dalle edizioni in cui fu adoperato. La prima metà della quinta decade ci è data soltanto da un codice di Lorsch (Laurishamensis) del sec. V-VI, oggi in Vienna, che fu scoperto nel 1527 da Simone Grynaeus.
Edizioni. - La editio princeps, mancante dei libri XXXIII e XLIXLV, di Giovanni Aleriense, Roma circa il 1469; integre di S. Grynaeus, Basilea 1531, e di B. Renano e S. Gelenio, Basilea 1535.
Tra le posteriori noteremo: C. Sigonio con note, Venezia 1555; J. F. Gronovio (edizione critica), Leida 1645 (3ª ed., 1679); A. Drakenborch (con note e coi supplementi del Freinshemio), Amsterdam 1738-46 (Stoccarda 1820-28). - Edizioni critiche recenti: Madvig e Ussing, Copenaghen 1861 segg. (4ª ed., 1886 segg.); A. Luchs (libri XXI-XXX), Berlino 1888 seg.; A. Zingerle, Praga-Vienna 1883-1908; R. S. Conway e C. F. Walters, Oxford 1914 segg. (in corso di pubblicazione); C. Giarratano (libri XLI-XLV), Roma 1933. - Edizioni commentate: di singoli libri moltissime in varie lingue; compiuta e lodevole: W. Weissenborn, H. J. Müller, O. Rossbach, Berlino, Weidmann, in edizioni costantemente rinnovate. Di antologie liviane sia qui citata quella assai garbata di A. De-Marchi, T. L., Passi scelti ad illustrare le istituzioni... di Roma antica, Milano 1904. Le perioche con i frammenti di Ossirinco e il Liber prodigiorum sono edite da O. Rossbach, Lipsia 1910. Classica è la traduzione italiana di L. per Iacopo Nardi (traduzione libera e fatta sopra un testo mediocre), 1ª ed., Venezia, Giunti 1540.
Bibl.: Per un orientamento, oltre le maggori storie letterarie, può vedersi C Wachsmuth, Einleitung in das Studium der alten Geschichte, Lipsia 1895, p. 590 segg.; A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlino 1921, p. 144 segg.; E. Pais, Storia di Roma dalle origini all'inizio delle guerre Puniche, 3ª ed., I, Roma 1926; A. Klotz, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIII, col. 816 segg.; V. Ussani, Storia della letteratura latina, Milano 1929, p. 420 segg.; G. De Sanctis, Problemi di storia antica, Bari 1932, p. 225 segg. Monografie su L.: H. Taine, Essai sur Tite Live, 5ª ed., Parigi 1888; W. Soltau, Livius' Geschichtswek, Lipsia 1897. Manca però una monografia compiuta su L. rispondente allo stato odierno della scienza. Tra le innumerevoli ricerche intorno alle fonti vanno citate: H. Hesselbarth, Historisch-kritische Untersuchungen zur dritten Dekade des L., Halle 1889; W. Soltau, Livius' Quellen in der III. Dekade, Berlino 1894; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, II, Torino 1917, pp. 176 segg., 335 segg., 638 segg.; H. Nissen, Kritische Untersuchungen über die Quellen der vierten und fünften Dekade des Livius, Berlino 1863 (fondamentale), U. Kahrstedt, Die Annalistik von L., B. XXXI-XLV, Berlino 1913; A. Klotz, Zu den Quellen der vierten und fünften Dekade des L., in Hermes, 1915, p. 481 segg.; per la ricostituzione d'una parte dei libri di L., v. per es.; M. Schermann, Der erste punische Krieg im Lichte der livianischen Tradition, Tubinga 1905. Per gli epitomatori di L., v. K. Zangemeister, in Heidelberger Festschrift zur 36. Philol. Vers., Friburgo 1882; E. Kornemann, Die neue Livius-Epitome aus Oxyrhynchus, in Klio, 1904, suppl. 2; H. A. Sanders, The lost epitome of Livy, in Roman historical sources and institutions, New York 1904. Per la tradizione manoscritta, oltre la pref. alle ediz. critiche, v. per es.; E. Chatelain, Paléogr. des classiques latins, disp. 9: Tite Live, Parigi 1895; Th. Mommsen e W. Studemund, Analecta Liviana, Lipsia 1873; L. Traube, Paleogr. Forsch., III, in Abhandl. d. münch. Akad. d. Wiss., XXIV (1904), p. 1; M. Vattasso, Frammenti d'un Livio del sec. V recentemente scoperti, Roma 1906; G. M. Columba, Codici Liviani inesplorati o perduti, in Historia, VII (1933), p. 219 segg.