Livio, Tito
La città di Verona, per due volte soggiorno di D., rappresenta un anello fondamentale per la trasmissione di L.: nel periodo di transizione dall'età carolingia al risveglio dei secoli XI e XII è da collocare Raterio (ca. 887-974), per tre volte vescovo di Verona, il cui merito più grande deriva dall'esemplare della I Deca di L. (il Laurenziano 63 19), scritto postillato e corretto nello scrittoio della cattedrale di Verona, e di cui un codice gemello finì nella cattedrale di Worms. È necessario notare, col Billanovich, che nel 968, quando il vecchio vescovo lasciò per sempre Verona, il Livio Laurenziano restò nella cattedrale della città scaligera. Ma D. conobbe Livio? Prima di rispondere a questa domanda conviene procedere all'esame dei passi danteschi in cui L. è direttamente chiamato in causa come garante della verità dei fatti narrati.
Il primo dubbio sorge dall'esame di Cv III XI 3, dove D., parlando di Pitagora, chiama a testimone, sebbene cautamente, L.: E che ello [Pitagora] fosse in quel tempo [sotto Numa Pompilio], pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio ne la prima parte del suo volume incidentemente. Ma L. (I XVIII), come ha giustamente notato il Toynbee (D. Studies, p. 92; Ricerche e note, I 8; e cfr. anche E. Moore, Studies in D., I 277), nega che Pitagora sia vissuto sotto Numa Pompilio, preferendo datare la sua presenza in Italia sotto il regno di Servio Tullio, come fanno anche Cicerone (De Orat. II 37) e Aulo Gellio (Noct. Act. XVII 21).
Noi sappiamo che la data della nascita, dell'arrivo in Italia e della morte del filosofo di Samo si può indicare, dato il contrasto delle fonti, solo con molta approssimazione, ma il confronto con L. esclude che D. possa aver tenuto sott'occhio lo storico patavino quando scriveva questo passo del Convivio. Secondo il Toynbee (D. Studies, p. 93) alla base del passo dantesco potrebbe esserci s. Agostino Civ. VIII 2, che appare molto vicino a quel che D. dice subito dopo. Ma il problema va visto attraverso l'esame degli altri passi del Convivio, dove si parla del filosofo di Samo. Qui basti ricordare quanto già notato da Busnelli-Vandelli (ad l.), che non escludono che D. si sia servito per questo passo di s. Tommaso Comm. Metaph. I 3, 56 (cfr. E. Bodrero, D. e i presocratici, in " Arch. di Storia della Filosofia " I [1932] 199-204); v. PITAGORA.
A L., come a infallibile autorità, si appella D. in If XXVIII 12 (la lunga guerra / che de l'anella fé sì alte spoglie, / come Livïo scrive, che non erra), evocando la battaglia di Canne, di cui si parla anche in Cv IV V 19 (qualche codice tardo in If IV 141 legge Livio anziché Lino, ma è escluso [cfr. Petrocchi, ad l.] che nel Limbo D. potesse alludere a L.).
I versi dell'Inferno non desterebbero sospetti e si potrebbe spiegare alte spoglie con il " tantus acervus " che secondo L. (XXIII XII 1) si formò con ‛ le anella ' dei Romani uccisi a Canne, se nel Convivio non si parlasse di tre moggia d'anella, mentre L. riferisce la notizia solo per negarla.
È evidente che se D. avesse tenuto scrupolosamente presente L., che non erra, avrebbe dovuto rispettare la rettificazione dello storico (che parla di un solo moggio). La fonte di questo passo è stata già indicata dallo Schück (pp. 269-270), seguito dal Moore (Studies in D., I 274-275), in Orosio (Hist. IV XVI 5 " in testimonium victoriae suae tres modios anulorum aureorum Carthaginem misit "). Si può solo aggiungere, senza con ciò spostare la conclusione sulla derivazione di questo particolare, quanto notato dal Renucci (p. 161 n. 416), che di tre moggia parlano, oltre Orosio, anche s. Agostino (Civ. III 19) ed Eutropio (Hist. Rom. Epitome III 11). Lo Scherillo (pp. 331 e 341), che ricorda F. Frezzi Quadriregio II 9 " non quella che riempie i moggi d'anella ", ha notato (p. 320 n. 2) che Livio... che non erra richiama la mente che non erra di If II 6, e altri simili luoghi, e ha indicato dei passi che inducono a dare valore formulare all'espressione dantesca (Fazio degli Uberti Dittamondo V XXIV 28, il quale chiama Solino " quel savio accorto che non erra " e ripete [I XXI 10]: " E se l'opinione mia qui non erra ").
Oggi, tenendo anche conto dei rinnovati tentativi di difendere l'autenticità dantesca del Fiore e del Detto d'Amore, è da ritenere fondato quanto suggerito da Guido al fratello Giuseppe Billanovich (in " Italia Medioev. e Uman. " VIII [1965] 39), che D. si fosse ricordato che Jean de Meung nel Roman de la Rose (v. 5634) aveva detto " se Titus Livius ne ment " (cfr. vv. 6324 ss. " Si cum dist Titus Livius / Qui bien set le cas raconter "; e v. Scherillo, p. 339 e n. 1).
Dello scoraggiamento dei Romani in seguito alla sconfitta e dell'intervento provvidenziale di Scipione giovane (Cv IV V 19) parla L. (XXII LIII); ma il passo dantesco sembra rispecchiare soprattutto Orosio (IV XVI 6), come già notato dallo Scherillo (p. 325) e dal Toynbee (D. Studies, p. 124; Researches and Notes, I 18). L'espressione Scipione giovane D. potrebbe averla desunta da Orosio Hist. IV XVII 13 (" Scipio... admodum adulescens ").
Oltre all'esaltazione di Scipione in If XXXI 115-118, D. ricorda lo scontro tra Scipione e Annibale, in forma duelli bellum gerentibus, in Mn II IX 18, come esemplificazione di ciò che costituisce il suo principale propositum, cioè che romanus populus per duellum acquisivit Imperium (II IX 21), ma dichiara qui espressamente di servirsi di più fonti (sicut Livius et alii romanae rei scriptores testificari conantur).
La minaccia di Annibale, giunto alle porte di Roma, evitata solo a causa di un violentissimo temporale, è ricordata da D. in Mn II IV 9 come esemplificazione del principio che romanum Imperium ad sui perfectionem miraculorum suffragio est adiutum; ergo a Deo volitum; et per consequens de iure fuit et est (II IV 4). Già il Witte, nel suo commento alla Monarchia, ha ritenuto che Orosio e non L. è in realtà la fonte di questo passo. Anche allo Scherillo (p. 334) il passo di Orosio (Hist. IV XVII 5), appare più vicino che il corrispondente passo di Livio (XXVI XI 2).
La lettura del passo dantesco non ci consente però di stabilire precise rispondenze terminologiche o espressive a favore di una delle due fonti. In questo caso il problema va posto in termini diversi, data la strettissima corrispondenza esistente invece nella terminologia e nella struttura del periodo tra L. e Orosio, fatto, questo, sufficiente a togliere validità alla supposizione del Witte e di quanti lo hanno seguito.
La soluzione dipende qui dall'espressione Livius in Bello punico inter alia gesta conscribit, che insieme con la citazione di Mn II IV 5 (Livius in prima parte testatur) e IX 15 (hoc diligenter Livius in prima parte contexit) costituisce un indizio a favore dell'ipotesi che D. abbia potuto leggere direttamente, per questi episodi, L., anche se non ha potuto in seguito disporne per i necessari riscontri. Giustamente perciò il Vinay, nel suo commento alla Monarchia, ritiene che in questo caso D. (che del resto poteva conoscere l'episodio anche da altre fonti, per es. s. Agostino Civ. III 20) sembra volersi richiamare espressamente alla narrazione liviana della guerra annibalica nella III Deca.
Anche in Mn II IV 7, a proposito dell'assedio dei Galli al Campidoglio (cfr. anche Cv IV V 18), il richiamo a L. è stato, e a ragione, fortemente messo in dubbio. Si è obiettato, infatti, che lo storico (V XLVII) non parla di una sola, ma di più oche (anseres) sacre a Giunone, che svegliarono Manlio " clangore... alarumque crepitu ". In verità D. non chiama in causa il solo L., ma anche multi scriptores illustres. Ma per il particolare di una sola oca, v. FLORO, L. Anneo.
D'altra parte nel giudizio di Mn II III 6 D. considera sommo testimone della verità storica delle vicende di Roma Virgilio, accanto al quale gode di altissima stima la testimonianza di L., che conferma (contestatur) quella virgiliana. Ma Virgilio è citato nella Monarchia dopo L., e la discordanza tra D. e L., come avviene in altri casi in cui lo storico patavino, chiamato direttamente in causa dal poeta, non risulta essere poi il suo testimone, ha indotto lo Schück (p. 269) a supporre che l'espressione dantesca stia per " Florus und Verfasser von Sagen " e ad avanzare l'ipotesi, smentita in modo inoppugnabile dall'esame di altri passi, che D. non conoscesse Floro, la cui opera passava come estratto da L., sotto il suo nome, ma lo chiamasse addirittura ‛ Livio '.
I due passi in cui è ricordato Cincinnato (Mn II V 9 e Cv IV V 15) hanno una diversa intonazione: nel Convivio egli è uno degli eccellentissimi che furono strumenti con li quali procedette la divina provedenza ne lo romano imperio e le cui mirabili operazioni furono accompagnate da alcuna luce de la divina bontade (IV V 17); nella Monarchia Cincinnato è ricordato come exemplum libere deponendi dignitatem, in quanto si propone il bene pubblico che coincide col fine del diritto (quicunque... bonum rei publicae intendit, finem iris intendit, § 1) in antitesi con la tesi agostiniana, secondo la quale non c'è giustizia dove non c'è vero Dio. Anche in questo passo della Monarchia D. si appella all'autorità di L. (ut Livius refert), e subito dopo cita un passo di Cicerone (Fin. II IV 12; cfr. Senect. XVI 56). Ma L. (III XXVI 7 ss., XXIX 7) non dice nulla del ritorno di Cincinnato ai buoi. Soltanto formale deve considerarsi il richiamo a Orosio (Hisi. II XII 8) fatto dal Fraticelli, cui si oppone lo Schück (p. 270), e dal Witte, citato dal Moore (Studies in D., I 276). D. ha letto l'episodio anche in s. Agostino (Civ. V 18) e in altre fonti scolastiche (cfr. Vinay, comm. alla Monarchia, p. 137), ma quando scriveva il passo della Monarchia egli, com'è stato già notato oltre che dal Moore (cit.) dallo Scherillo (p. 332 ss.), aveva sotto gli occhi per i riscontri Floro (I 5 [I 11]: " sic expeditione finita redit ad boves rursus triumphalis agricola ").
Neanche del secondo esilio di Camillo (Mn II V 12, e cfr. Cv IV V 15) L. sa nulla, né D. d'altra parte mostra di sapere (come ha già notato lo Scherillo, p. 332) ciò che L. dice (V XXXII, XLIII, XLV, XLVI ss.).
Non vale supporre, in questo caso, con lo Schück (p. 266 ss.) seguito da Busnelli-Vandelli, ad l., che D. si sia richiamato a Floro (I 17 [22, 4]), fraintendendo l'espressione " hic melior in capta urbe consenuit ", o perché non ricordava bene o perché interpretava male, ritenendo che il vincitore dei Galli, dopo la liberazione di Roma, ritornasse a trascorrere il resto della sua vita in esilio. D. aveva letto l'episodio in più fonti (cfr. anche Aurelio Vittore De Viris illustribus 23; Agost. Civ. II 18, III 17), ma è probabile, come ha già notato lo Scherillo (p. 342) seguito dal Renucci (p. 161 n. 419), considerato anche che nella Monarchia egli si appella all'autorità di Virgilio, di cui cita Aen. VI 825, che egli tenesse presente il commento di Servio ad l. (II p. 116, ediz. Thilo-Hagen), dove si legge: " post hoc tamen factum [dopo la vittoria sui Galli], rediit in exilium, unde rogatus reversus est ".
Neanche in Mn II V 13 (a proposito di Lucio Giunio Bruto, e cfr. Cv IV V 12), è possibile fornire una prova incontrovertibile della derivazione dei passi danteschi dallo storico patavino. Di Bruto L. parla a lungo (I LVI-LX, sua elezione al consolato insieme con L. Tarquinio, e II VI, guerra contro gli Etruschi e morte di Tarquinio e di Bruto) e ricorda con ampiezza di particolari la condanna e l'esecuzione dei suoi figli (II V 7). Con una tecnica strutturale analoga a quella degli esempi precedenti egli ricorda l'esaltazione che di Bruto fa Virgilio in Aen. VI 820-823, ma cita solo i primi due, pienamente rispondenti all'economia della sua tesi.
Il Pézard (in " Romania " LXX [1948-49] 28) ritiene possibile risalire a Giovanni di Salisbury, che in Policraticus IV 11 dice: " Ego quidem, etsi parricidium perhorrescam, consulis non possum non approbare fidem, qui maluit salutem liberorum suorum periclitari quam populi ". Forse più vicina al vero è l'opinione del Silverstein (On the Genesis of ‛ De Monarchia ' II V, in " Speculum " XIII [1938] 328-329), il quale chiama in causa Tolomeo da Lucca, che sottolinea in quell'episodio lo " zelus iustitiae apud romanos " (continuazione di s. Tommaso Regim. princ. III V, ediz. Spiazzi, p. 950).
Per quel che concerne Muzio, ricordato in Mn II V 14 oltre che in Pd IV 84 e Cv IV V 13, D. poteva leggere non solo in L. (II XII) alla cui autorità egli si richiama - sebbene sia impossibile raggiungere anche qui la prova di una diretta utilizzazione, ulteriormente indebolita dalla stessa espressione dantesca etiam Livius, con cui egli allude a più fonti - ma anche in Aurelio Vittore De Viris illustribus XV e in Floro (I 4 [10]).
Il sospetto che D. abbia utilizzato - anche se sotto forma di lontana reminiscenza - Floro anche in Mn II V 15-16 sorge spontaneo ove si consideri quanto egli dice a proposito dei Deci dei quali celebra il sacrificio della vita pro salute patriae, chiamando subito dopo a testimone, e citandone il passo, Cicerone (Fin. II XIX 61; cfr. anche Tusc. I XXXVII 89), che dei tre Deci fa una solenne esaltazione. L. (VIII XI e X XXVIII) ne ricorda solo due (P. Decio Mure, sacrificatosi nel 340 a.Cr. e il figlio omonimo, sacrificatosi nel 295 a.Cr.); due ne ricordano Valerio Massimo V VI 5-6, Aurelio Vittore De Viris illustribus XXVI e XXVII, Servio nel commento a Virgilio Aen. VI 824-825 (" Quin Decios Drusosque procul... / aspice "), da cui si deve intendere derivato Cv IV V 14 (cfr. Toynbee, D. Studies, p. 290). L'episodio è ricordato da s. Agostino (Civ. IV 20, V 14 e 18), da Giovenale VIII 254 ss., Seneca Epist. LXVII 9 e Giovanni di Salisbury Policr. IV 11, I 272, oltre che da Floro I 9 [14], che ne parla assai concisamente. La qual cosa indusse lo Scherillo (p. 341), sulle orme di J. Schück (pp. 266-267), a sospettare che nell'espressione dantesca ut Livius, non quantum est dignum, sed quantum potest glorificando renarrat si nascondesse " qualcosa di più essenziale di un complimento rettorico ".
Nel II libro della Monarchia D. parla di coloro che tentarono di stabilire un impero universale prima dei Romani, i soli destinati dalla Provvidenza divina a realizzarlo per accogliere il miracolo dell'incarnazione, e indica in Alessandro Magno l'ultimo della serie e nello stesso tempo colui che più di tutti si era avvicinato alla palma imperiale (VIII 8). Ma L. parla delle imprese di Alessandro solo incidentalmente a proposito di Papirio Cursore (IX XVI 19). Per il resto lo storico si limita a chiedersi " quinam eventus Romanis rebus, si cum Alexandro foret bellatum, futurus fuerit " (XVII 2), né poteva esprimersi diversamente dal momento che dichiara che i Romani non lo conobbero neppure: " quem ne fama quidem illis notum arbitror fuisse " (XVIII 6).
Come si vede, il passo della Monarchia non trova conferma in L., che D. cita. Né è possibile pensare (per es. Scherillo, p. 335) a Orosio (Hist. III XX 1-4), solo perché l'Ormista parla di ambasciatori inviati al conquistatore dell'Oriente dai popoli d'Occidente. In questo caso il problema d'indicare la fonte è disperante: il passo di Orosio, che D. naturalmente conosceva, contiene molti elementi non riscontrabili in quello dantesco; né le fonti medievali (Chronicon di Ottone di Frisinga II 25, citato dal Toynbee, che segue Orosio, tranne la particolare menzione di Roma; Goffredo da Viterbo [Pantheon, part. XI]; Gualtiero di Châtillon nella Alessandreide [cfr. R. De Cesare, Glosse latine e antico-francesi all'Alexandreis, Milano 1951, 14]) ci offrono elementi concreti per una possibile soluzione. Bisognerà pertanto concludere che l'ut Livius narrat di questo passo resta per noi un enigma. E valore d'ipotesi ha, finché non si troverà una prova, ogni tentativo tendente a dare una risposta alla questione. Si potrà pensare a una glossa al testo di Orosio dove D. aveva letto certamente l'episodio, o a quello di Lucano che egli cita nel passo in questione, ovvero (Vinay, comm. alla Monarchia, 163 n. 13) che D. aveva letto L., ma non ricordava bene e non poteva neanche procedere a un riscontro. Vero è che egli sentiva la necessità di richiamarsi all'autorità e alla fede del più grande storico di Roma.
Infine in Mn II IX 16 D. si appella all'autorità di L. parlando dei Sabini e dei Sanniti (segue Phars. II 135-138). Qui si tratta del duello combattutto non da pochi uomini, ma da popoli interi (cfr. Mn II VII 7 e soprattutto IX 3 e 18). Anche in questo caso è però impossibile raggiungere la prova di una diretta utilizzazione della testimonianza di L., che parla dei Sabini in I XXX, e dei Sanniti in VII XXIX ss. Come ha fatto altre volte, D. adduce a conferma della fonte liviana i versi di Lucano, che riporta.
A conclusioni non diverse ci conduce l'esame di Cv IV V 13, dove D. parla del tentativo di corruzione di Manio Curio Dentato a opera dei Sanniti, derivando la notizia da altre fonti.
Si veda infine Mn II IX 15 ad ultimum de comuni assensu partium, propter iustitiam cognoscendam, per tres Oratios fratres hinc et per totidem Curiatios fratres inde in conspectu regum et populorum altrinsecus expectantium decertatum est: ubi tribus pugilibus Albanorum peremptis, Romanorum duobus, palma victoriae sub Hostilio rege cessit Romanis. Et hoc diligenter Livius in prima parte contexit, cuius Orosius etiam contestatur (cfr. Cv IV V 18 E non puose Iddio le mani proprie a la battaglia dove li Albani con li Romani, dal principio, per lo capo del regno combattero, quando uno solo Romano ne le mani ebbe la franchigia di Roma?). Questo è l'unico passo che ci consente di stabilire con sufficiente certezza dei rapporti col corrispondente passo di Livio.
Dallo storico patavino D. sembra derivare alcuni precisi elementi caratterizzanti l'episodio, il cui significato egli sintetizza nel Convivio nell'espressione per lo capo del regno combattero (cfr. Livio I XXIV 2 " ibi imperium fore unde victoria fuerìt "). L. scrive: " Si vera potius quam dictu speciosa dicenda sunt, cupido imperii duos cognatos vicinosque populos ad arma stimulat " (I XXIII 7), e poco appresso: " ineamus aliquam viam qua utri utris imperent sine magna clade, sine multo sanguine utriusque populi decerni possit " (§ 9) e, narrando l'episodio, rileva, pur accettando la versione più diffusa, l'impossibilità di stabilire con certezza da quale parte stessero gli Orazi e da quale i Curiazi (" nominum error manet, utrius populi Horatii, utrius Curiatii fuerint. Auctores utroque trahunt; plures tamen invenio qui Romanos Horatios vocent; hos ut sequar inclinat animus ", I XXIV 1). D. nella Monarchia mostra di voler osservare l'incertezza della fonte, indicando con hinc e inde le due parti, senza ulteriore specificazione, e trova modo d'informarci della scrupolosità di L., che hoc diligenter... in prima parte contexit e, di riflesso, della sua, intesa a non deformare la fonte, dove (I XXIII-XXV), come noi sappiamo, l'episodio è narrato con grande ricchezza di particolari.
A conferma della narrazione liviana D. ricorda Orosio (cuius Orosius etiam contestatur; per contestatur, cfr. Mn II III 6, IV 7, III IX 14). Dal confronto con le Historiae (II IV 9) si possono dedurre elementi per asserire con certezza che D. in questo passo aveva sott'occhio Orosio (cfr. Mn II IX 15 in conspectu regum et populorum altrinsecus exspectantium decertatum est, che richiama Hist. II IV 9 " et diu altrinsecus spe incerta "), ma anche per supporre che egli non si è attenuto esclusivamente a questa fonte, priva com'è dei particolari che invece leggiamo nel passo dantesco. Orosio, infatti, si limita a rilevare che " pessimos exitus et dubios eventus compendiosa tergeminorum congressione finisse " (§ 9). Se si considera che Floro (I 1 [3]) narra l'episodio in maniera assai succinta, e se prescindiamo da s. Agostino (Civ. III 14), dove l'episodio è ricordato (a esemplificazione dell'interpretazione agostiniana) come ‛ scelus ' dettato dalla ‛ libido dominandi ', che non trova posto nella dottrina di D., il quale nel Convivio sottolinea il processo provvidenziale del costituirsi dell'Impero romano (E non puose Iddio le mani...) e nella Monarchia la sua legittimità e il suo carattere di universale giurisdizione, non possiamo fare a meno di concludere che L. resta in questo caso fonte principale e attendibile.
D., che pure conosceva bene l'interpretazione cristiana delle gesta romane in Orosio e s. Agostino, cita degli storici romani solo L., confermando la sua testimonianza con citazioni da Virgilio, Lucano, Cicerone. Ma le citazioni dallo storico, come ha già notato il Moore (Studies, pp. 15 e 274), sono quasi sempre vaghe e imprecise. Ciò che lascia perplessi è che il riscontro con i corrispondenti passi di L. non ci consente di stabilire dei punti fermi a favore della tesi di una disponibile diretta utilizzazione dello storico patavino. In verità in molti casi D. dichiara espressamente di non servirsi del solo L.; così in Cv IV V 11 (noi trovare potremo per le scritture de le romane istorie, massimamente per Tito Livio), dove egli, seguendo in realtà Floro, dà notizia sulla varia natura dei re di Roma; o in Mn II IV 7 (Livius et multi scriptores illustres concorditer contestantur, e cfr. Cv IV V 18), dove il particolare dell'anser non ante visus non trova riscontro nel corrispondente passo liviano; o in Mn II IX 18 (a proposito di Zama: sicut Livius et alii romanae rei scriptores testificari conantur).
Altre volte sembra potersi rintracciare nella sua citazione solo l'eco di una lontana lettura, non il segno di un riscontro con la fonte: Cv III XI 3 (a proposito di Pitagora) pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio, e in un certo senso anche Mn II V 14 (cfr. Cv IV V 13 e Pd IV 84), a proposito di Muzio Scevola quod etiam Livius admiratur testificando. In questi casi il richiamo a L. si potrebbe spiegare con la necessità che D. aveva di richiamarsi a un'indiscussa autorità di storico.
Nei casi in cui unico garante della verità storica è L., D. cita sempre accanto allo storico un'altra fonte, riportandola. Ciò potrebbe costituire un indizio dell'impossibilità per D. di procedere ai riscontri con i passi liviani, ma non un segno comprovante la sua mancata lettura delle Deche, specialmente perché in qualche caso non è difficile rintracciare elementi a favore di una diretta anche se parziale conoscenza dello storico patavino. Infatti non possono che creare perplessità espressioni come Livius in prima parte testatur (a proposito di Numa Pompilio) in Mn II IV 5, o Livius in bello punico inter alia gesta conscribit (su Annibale) in Mn II IV 9, che fanno pensare alla conoscenza, anche se indiretta e strutturalmente imprecisa e inorganica, degli Ab Urbe Condita, e soprattutto et hoc diligenter Livius in prima parte contexit (a proposito degli Orazi e dei Curiazi) in Mn II IX 15, dove D. dimostra di aver rispettato con scrupolo la narrazione liviana, nel cui riscontro sembrano trovare conferma alcuni elementi caratterizzanti il passo dantesco.
Non si può perciò escludere l'eventualità che egli abbia potuto disporre per qualche breve lasso di tempo delle Deche di L. o - ciò che è più probabile - di un'antologia contenente passi liviani e fissare nella sua memoria impressioni e immagini che poi ha utilizzato associandole a quelle di altri storici e poeti a cui egli si accostava con precisi interessi e che erano oggetto della sua quotidiana meditazione.
In base agli studi condotti dal Billanovich sulla tradizione manoscritta di L., saremmo autorizzati a pensare che D. non abbia potuto studiare sistematicamente le Deche. Ma è possibile che la menzione di L. rappresenti l'eco di lontane, anche se parziali letture, interrotte dalle peripezie del doloroso esilio.
Bibl. - Sulla tradizione manoscritta di L. sono fondamentali: G. Billanovich, Petrarch and the textual Tradition of Livy, in " Journal of the Warburg and Courtauld Institutes " XIV (1951) 137-208; ID., Dal L. di Raterio al L. del Petrarca, in " Italia Medioevale e Umanistica " II (1959) 103-178; ID., Tra D. e Petrarca, ibid. VIII (1965) 1-44. Sugli epitomatori: M. Galdi, Gli Epitomatori di L., nel vol. miscellaneo Studi Liviani, Roma 1934, 237-272. Utile in generale: G. Martellotti, D. e i classici, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 125-137; inoltre, J. Schück, Dantes Klassische Studien und Brunetto Latini, in " Neue Jahrbücher für Philologie und Paedagogik " XCII (1865) 265 ss.; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, ad indicem; M. Scherillo, D. e Tito Livio, in " Rendic. Ist. Lombardo " s. 2, XXX (1897) 330 ss.; N. Zingarelli, D. e la Puglia, in " Giorn. d. " VIII (1900) 388 ss.; P. Toynbee, D. Studies and Researches, Londra 1902; ID., Ricerche e note dantesche, I, Bologna 1899, 13 ss.; ID., Dictionary, Oxford 1968²; T. Silverstein, On the Genesis of ‛ de Monarchia ' II 5, in " Speculum " XIII (1938) 326-349; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952, ad indicem; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954, ad indicem. Infine, su questioni particolari: P. Meyer, Alexandre le Grand dans la Littérature française du moyen-âge, II, Parigi 1886, 372-376; L. Meyer, Les légendes des matières de Rome, de France et de Bretagne dans le " Panthéon " de Godefroi de Viterbe, ibid. 1933, 108-112; G. Cary, Medieval Alexander, Cambridge 1956.