Vespasiano, Tito Flavio
Imperatore romano. Nato presso Rieti nel 9 d.C., diede buona prova di sé nel cursus honorum e quando Nerone lo inviò a domare la rivolta in Giudea era un generale di alto prestigio, su cui finì per convergere il consenso di buona parte dell'esercito negli anni che videro le tragiche meteore di Galba, Ottone e Vitellio. Proclamato imperatore nel 69 mentre assediava Gerusalemme, lasciò al figlio Tito la continuazione dell'impresa e, giunto a Roma, assunse formalmente il potere dedicandosi al ristabilimento della situazione politica e amministrativa, gravemente compromessa nei torbidi degli anni precedenti.
La severità delle misure economiche volte a restaurare le finanze dello stato gli valsero una proverbiale fama di avarizia: in realtà quando V. morì, nel 79, buona parte del suo programma di risanamento era felicemente realizzata, e di questi risultati positivi gli diede atto la tradizione storiografica delineandone un ritratto di principe saggio e arguto.
La presa di Gerusalemme compiuta da Tito nel 70, con gli atroci episodi che le fanno contorno, s'inquadra nella tematica medievale della ‛ Vindicta Salvatoris ' che coinvolge, oltre Tiberio (v.) e Tito (v.), anche V.; difatti in D. l'accenno di Pg XXI 82 e di Pd VI 91-93 alla vendetta compiuta da Tito si riporta al primo anno del principato di Vespasiano. Là dove Beatrice precisa che la Passione vengiata fu da giusta corte (Pd VII 51) si può enucleare un pensiero implicito analogo a quello che D. esprime a proposito della prima vendetta del peccato originale, materialmente permessa da Pilato ma solo per investitura ricevuta de sursum dal legittimo imperatore Tiberio. Anche Tito non ancora imperatore (e la sua posizione vicaria nell'impresa di Gerusalemme era chiaramente rilevabile in Giuseppe Flavio) mutuerebbe perciò l'efficacia del proprio operato come realizzazione del disegno divino dalla legittimità del potere nel cui nome agisce: quello di V. appunto, cui le parole giusta corte devono quindi intendersi riferite.