tiranno
Il vocabolo (dal greco τύραννος), secondo il primitivo ed etimologico significato, altro non voleva indicare che re, sovrano, monarca; soltanto l'uso violento e crudele del potere gli attribuì un valore peggiorativo. Si vuole, anzi, che t., già sinonimo di principe, abbia assunto il suo significato peggiore da Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa (il Dionisio fero di D.), di cui Stazio scrive: " tristes caedibus edidit annos " (Achill. I 80). T. è, quindi, chi si è impadronito del potere con arbitrio e lo detiene con la violenza, conculcando i diritti e le libertà individuali e politiche. Non solo, ma i t. cercano di trarre a proprio vantaggio i pubblici diritti, che dovrebbero servire all'utilità di tutti: qui publica iura non ad communem utilitatem, sed ad propriam retorquere conantur (Mn III IV 10). I t., d'ordinario, sono coloro che, di famiglie potenti o capi di fazioni, prendono il sopravvento in una città e vi esercitano di fatto un'autorità assoluta. E D. indica come fosse facile da capo di fazione conquistare il supremo potere in modo non legittimo: Ché le città d'Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene (Pg VI 125); ma definisce anche la condizione dei reggitori (tiranni) e dei sudditi: Oh miseri che al presente reggete! e oh miserissimi che retti siete! ché nulla filosofica autotitade si congiunge con li vostri reggimenti né per propio studio né per consiglio, sì che a tutti si può dire quella parola de lo Ecclesiaste: " Guai a te, terra, lo cui re è fanciullo, e li cui principi la domane mangiano! " (Cv IV VI 19). E ancora: - e dico a voi, Carlo e Federigo regi e a voi altri principi e tiranni -; e guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine de l'umana vita per li vostri consiglieri v'è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine volare basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime (§ 20).
D. ricorda anche come questi t. siano in lotta fra loro e come vi siano guerre fra città e città, soddisfacendo il desiderio di Guido da Montefeltro di sapere quali erano le condizioni delle città italiane: Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni (If XXVII 38). L'uso della rapina, da parte dei t., è condannato da D. come qualcosa di sacrilego, con la similitudine di chi levi il drappo di sull'altare per coprire la sua mensa: E che è questo altro a fare che levare lo drappo di su l'altare e coprire lo ladro la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere, tiranni, de le vostre messioni, che del ladro che menasse a la sua casa li convitati, e la tovaglia furata di su l'altare, con li segni ecclesiastici ancora, ponesse in su la mensa e non credesse che altri se n'accorgesse. Udite, ostinati, che dice Tullio contro a voi nel libro de li Offici: " Sono molti, certo desiderosi d'essere apparenti e gloriosi, che tolgono a li altri per dare a li altri credendosi buoni essere tenuti " (Cv IV XXVII 14); quindi la rapina è riprovevole anche quando si ruba per dare agli altri. Ora, insieme con la concezione aristotelica della distinzione delle forme di governo, dove la tirannide, nella sua deformazione, viene indicata fra le cattive, D. sembra far sua la dottrina tomistica, per cui i t. sono coloro " qui maximas violentias subditis inferunt " (Sum. theol. II II 118), e questa violenza ha da intendersi nelle persone e nelle cose; donde il cenno reso a Malatestino de' Malatesta come tiranno fallo in If XXVIII 81, e al gran tiranno di rime CV 7, forse Filippo il Bello (Contini, Rime 181).
D. dimostra di che sorta siano questi t. ponendoli fra i violenti contro il prossimo, condannati a cuocere dentro un fiume di sangue bollente, il Flegetonte, dove sono immersi nel sangue fino al ciglio, sorvegliati da centauri pronti a saettarli: E' son tiranni / che dier nel sangue e ne l'aver di piglio (If XII 104): quindi uccisioni e spoliazioni. Il centauro Nesso li addita e li nomina, secondo la natura e la gravità delle lor colpe: Alessandro, Dionisio, Ezzelino da Romano, Obizzo II d'Este, come poi nomina Attila, Pirro e Sesto. Così il dodicesimo canto dell'Inferno, fra storia e mitologia, è tutto dei violenti in altrui: dai centauri ai bolliti, che fanno alte strida, la cui elencazione, pur nell'incertezza della vera identità di alcuni, corrisponde alla loro indole delittuosa.
Per la bibliografia, si vedano le voci relative ai singoli personaggi.