Tintoretto
Il pittore delle grandiose composizioni e dei contrasti luminosi
Tintoretto è uno dei massimi innovatori del Rinascimento veneziano, nella stagione successiva a quella di Tiziano. Ama le grandi scene drammatiche, le prospettive ardite, le gradazioni luminose e i contrasti di luce e ombra dove prevalgono intensi sfondi scuri, diametralmente opposti alla pittura solare del contemporaneo Paolo Veronese
Jacopo Robusti nasce a Venezia nel 1518 o nel 1519, e dal padre, tintore di panni, gli deriva il suo soprannome, Tintoretto. Talento precoce, la tradizione lo vuole allievo di Tiziano. Conciliare il «colorito di Tiziano col disegno di Michelangelo» sembra sia stato il motto appeso sulla porta della sua bottega. Il pittore vuole dunque armonizzare la tradizione veneta di Giorgione e Tiziano, basata sulla funzione espressiva autonoma del colore, con la cultura fiorentina e romana, che punta invece sul ruolo primario del disegno.
Fin dalle prime opere di Tintoretto si nota una forte impronta della cultura figurativa del manierismo, legata alla produzione di Michelangelo e di Raffaello.
La componente manierista, caratterizzata da composizioni mosse, non simmetriche, con equilibri precari, corpi muscolosi, panneggi rigonfi e torsioni innaturali si ritrova impressa nelle sue opere giovanili, tanto che si è ipotizzato un suo viaggio a Roma.
Alcuni studiosi hanno invece supposto un soggiorno a Mantova, dove viveva il fratello. In questa città Giulio Romano, geniale seguace di Raffaello, aveva diffuso il linguaggio manierista.
A partire dal 1530, dopo la fuga da Roma dei maggiori artisti a causa del sacco della città del 1527, e grazie soprattutto all’intensa circolazione di stampe e disegni, il manierismo arriva a Venezia, dove prende caratteristiche originali. Soprattutto con Tintoretto, luce, colore e figure sembrano fondersi perdendo consistenza fisica e avvicinando i dipinti a vere e proprie visioni.
Fin dalle prime opere di Tintoretto – Cristo e l’adultera, Salomone e la regina di Saba, Miracolo di s. Marco che libera lo schiavo, con l’improvvisa comparsa del santo dall’alto – risulta evidente la propensione del pittore ad affidare un ruolo determinante ai forti contrasti tra luce e ombra.
Si manifesta in questi anni anche un particolare interesse per motivi architettonici ripresi dal teatro. Tintoretto allestisce lo spazio dei suoi quadri come un palcoscenico, basandosi soprattutto sulla scena tragica di Sebastiano Serlio, architetto, scenografo e autore di trattati attivo a Venezia nel secondo decennio del Cinquecento.
All’impostazione teatrale delle scene di Tintoretto si collegano anche l’intonazione enfatica dei personaggi e la drammatizzazione dei loro gesti, elementi che assieme, all’uso degli effetti contrastati di illuminazione, puntano al coinvolgimento emotivo dello spettatore. A tale proposito Carlo Ridolfi, uno scrittore d’arte veneto del Seicento, racconta che il pittore studiava gli effetti di luce delle sue opere basandosi su teatrini con manichini di cera e di creta, «entro picciole case e prospettive composte di asse e di cartoni, accomodandovi lumicini per le fenestre, recandovi in tal guisa i lumi e le ombre».
Nell’ultimo ventennio della vita il pittore è impegnato in ritratti dell’aristocrazia e in importanti commissioni pubbliche. Per il Palazzo Ducale, con molti aiutanti, affronta i teleri – cicli con vaste composizioni su tela – con l’esaltazione delle glorie della Serenissima; dipinge le quattro tele dette i Fasti gonzagheschi, che consegna a Mantova nel 1580, ed esegue i cicli dal Vecchio e dal Nuovo Testamento per la Scuola di S. Rocco. Per la chiesa di S. Giorgio Maggiore dipinge l’Ultima cena, dove è evidente il riferimento all’istituzione dell’Eucaristia. Nella tela una luce fumosa riempie lo spazio affollato, dando forma nella parte alta a presenze angeliche incorporee che osservano la scena. Il dipinto è la testimonianza della religiosità del maestro e del suo tempo, l’epoca dei fermenti spirituali della Controriforma. Terminato nell’anno della sua morte, il 1594, esprime forse i tormenti interiori di un uomo al termine della vita.