TINTORETTO
. Iacopo Robusti, detto il T., pittore, nacque in Venezia nel 1518/1519, morì ivi il 31 maggio 1594. Giovinetto, entrò nella bottega di Tiziano, dove rimase, pare, pochissimo. Qualche scrittore moderno suppone che possa essere stato anche alla scuola di Bonifacio veronese: ma gli scrittori antichi non alludono a ciò. Comunque, da un atto di testimonianza, risulta che nel '39 dimorava in campo S. Cassian ed era detto maestro "Giacomo depentor": ciò fa pensare che lavorasse già per proprio conto. La tradizione, raccolta dal Ridolfi, vuole che egli fosse stato costretto ad allontanarsi dal Vecellio, causa l'invidia di quello. Se il racconto non è credibile, è provato tuttavia che fra i due pittori mancò in ogni tempo cordialità di relazioni.
La prima opera datata, giunta a noi, è il Ritratto di Gentiluomo della Galleria di Hampton Court, n. 114, del 1545. Del '47 è la Cena di Santa Marcuola. Nel '48 il pittore abitava a S. Marcillian e attendeva alla pala di S. Marziale con i Santi Pietro e Paolo, tuttora in quella chiesa. Nello stesso anno era finito il Miracolo di S. Marco per la scuola grande di S. Marco, oggi nell'Accademia di Venezia: fu questo quadro che, destando vivaci e discordi commenti, attrasse a un tratto sul giovane artista l'attenzione della città. Circa il '50 egli sposava Faustina de' Vescovi, di secondaria nobiltà veneziana, e ne aveva sei tra figli e figlie: Domenico, Marco, Marietta, Ottavia, Perina e una seconda Ottavia. Nel '50 s'iniziano i pagamentì per i quadri, che "si ànno a poner in Procuratia": da allora i lavori del T. per lo stato si susseguono ininterrotti; a questi s'uniscono, sempre più incalzanti e numerosi, quelli per chiese, per "scuole" o confraternite, per privati.
Il periodo fra il '50 e il '64, che dovette essere attivissimo, è, nella vita dell'artista, il meno illuminato da notizie documentarie. Sono tuttavia databili, per cause diverse, i quadri per la scuola della Trinità (1550-1553), di cui l'Adamo ed Eva, il Caino ed Abele, la Creazione degli animali, si vedono oggi nell'Accademia di Venezia, la Proibizione del pomo, agli Uffizî; il Sant'Andrea e San Gerolamo, il S. Giorgio e la principessa (1552), entrambi già nell'Antichiesetta in Palazzo Ducale, oggi nell'Accademia di Venezia; i Quattro Evangelisti nel coro di Santa Maria del Giglio (1552); i Santi Gerolamo Luigi ed Andrea, provenienti dal Magistrato dei governatori alle Entrate, oggi nell'Accademia di Venezia; il Ritratto di Gentiluomo nella Galleria di Dublinoi datato 1555; l'Invenzione della Croce in Santa Maria Materdomini (1561); le Nozze di Cana nella sacrestia della Salute (1562); altri tre quadri con i Miracoli di S. Marco per la scuola grande del Santo (iniziati nel 1562), di cui due sono nell'Accademia di Venezia (il Trasporto della salma di San Marco e S. Marco salva il Saraceno dal naufragio), il terzo è a Brera (la Scoperta del corpo di S. Marco); la Pietà, per una lunetta del cortile delle Procuratie, pure a Brera.
Nel '64 il T. incomincia il ciclo più grandioso della sua attività di pittore: quello per la scuola di S. Rocco, sul quale si hanno circostanziati regesti.
Da questi si rileva che detta scuola, nel maggio '64, aveva deciso di rifare il soffitto della sala dell'albergo e aveva bandito un concorso fra i pittori di Venezia, invitandoli a presentare un abbozzo raffigurante San Rocco in gloria. Il Robusti, invece dell'abbozzo, offriva in dono alla Confraternita il dipinto, che faceva trovare già collocato al suo posto; dopo ciò riceveva l'incarico, al quale aveva aspirato, fra gli altri, il Veronese. Ultimato il soffitto, il T. passava a decorare le pareti dello stesso albergo: prima fu eseguita la grande Crocifissione (1565), poi le altre Storie della Passione, che vennero collocate nel '66. Successivamente (1567) il Robusti lavorava per la chiesa di S. Rocco, cui, fin dal '59, aveva dato la Guarigione del paralitico; venivano ora collocati il S. Rocco risana gl'infermi e il S. Rocco visitato dalle fiere nel deserto. Nel '74 la scuola decideva di rifare anche il soffitto della grande sala superiore; ed ecco che, nel '76, risultano ultimati i tre quadri maggiori: la Caduta della manna, Mosè fa sprizzare l'acqua dalla roccia, l'Adorazione del serpente di bronzo. Il 21 novembre 1577 il T. rivolge una petizione al Guardian Grande: si offre, cioè, di ultimare il soffitto della sala superiore; di lavorare per la chiesa; di preparare dieci quadri parietali per la suddetta sala; e, in genere, d'eseguire tutti i dipinti, di cui s'avesse bisogno, impegnandosi per tre all'anno, da consegnare il giorno di S. Rocco. A compenso delle sue fatiche chiede una "provvisione" di 100 ducati l'anno da pagarsi fino alla morte, anticipatamente. L'offerta viene accettata. I lavori nella sala superiore (Storie dei due Testamenti) furono ultimati nel 1581 (meno il quadro dell'altare). Fra il 1577 e il 1584 l'artista lavorò ancora per la chiesa di S. Rocco (il Santo malato e confortato dall'angelo, la Cattività del Santo, l'Annunciazione, il Santo dinnanzi al Pontefice). Nel 1583 iniziò la decorazione della sala inferiore (Storia della vita di Maria), e nel 1587 l'ultimò.
Mentre attendeva a così grandioso insieme il T. continuava i lavori per il Palazzo Ducale e per le magistrature dipendenti dallo stato.
Fra il 1559 e il 1567 rappresentava il Doge G. Priuli dinnanzi alla Giustizia nel soffitto dell'Atrio quadrato in Palazzo Ducale; fra il 1567 e il 1577, il Giudizio universale, per la Sala dello Scrutinio, perito nell'incendio del 1577; fra il 1570 e il 1571, la Resurrezione di Cristo con gli avogadori, pure in Palazzo Ducale; nel 1571 riceveva settanta ducati, a compenso di varie opere, di cui sono pervenuti, fra l'altro, i sei Filosofi della Biblioteca Marciana (di essi uno è di scuola); nello stesso anno otteneva con difficoltà, offrendo il quadro in dono, l'incarico della Battaglia di Lepanto per la Sala dello Scrutinio, bruciata anch'essa nel '77; nel '78 erano ultimate le Quattro composizioni allegoriche dell'Anticollegio; nel 1580, la tela di Santa Giustina con i tre tesorieri, oggi nell'Accademia di Venezia. Fra il 1578 e il 1581 erano finite le tele del soffitto della Sala delle Quattro Porte (Giove proclama Venezia regina del mare, Vmezia protettrice della libertà, Giunone reca a Venezia le insegne del potere, Allegorie di otto città); fra il 1581 e il 1584, le composizione per la Sala del Collegio (il Doge A. Gritti dinnanzi alla Vergíne, lo Sposalizio di S. Caterina, il Doge L. Mocenigo dinnanzi al Redentore, alcune figure allegoriche). In questi ultimi dipinti deve vedersi la mano di aiuti, come in quelli, compiuti negli stessi anni, per la Sala del Senato (P. Lando e M. A. Trevisan adorano il morto Salvatore, P. Loredan dinnanzi alla Vergine, Virtù e figure allegoriche). Risultato di collaborazione appaiono pure il Trionfo di Venezia nel soffitto dello stesso Senato, più tardo; la Battaglia di Zara, nella Sala dello Scrutinio (1584-1587); il Trionfo di Nicolò da Ponte, nel soffitto della Sala del Gran Consiglio (1581-1584), e le composizioni a soggetto storico della stessa Sala (Gli ambasciatori veneziani dinnanzi al Barbarossa, Difesa di Brescia, Battaglia di Riva sul Garda, Battaglia d'Argenta, Battaglia di Gallipoli). Tali battaglie, poste nel soffitto e dipinte fra il 1584 e il 1587, appaiono particolarmente estranee, nell'esecuzione, al T., rivelando caratteri di manierismo bassanesco. L'attività dell'artista in Palazzo Ducale, grandiosa anche se alleviata dalla cooperazione altrui, culminò, infine, nell'immensa tela del Paradiso, per la Sala del Gran Consiglio, della quale, non senza contrasti, egli aveva ottenuto l'incarico nel 1588, dopo la morte del Veronese, cui l'opera era stata prima affidata, in unione a I. Bassano.
La vastità delle decorazioni della Scuola di S. Rocco e di Palazzo Ducale non impedi al T. di attendere contemporaneahiente ad altri lavori: numerosi ritratti, fra i moltissimi che portano il suo nome, sono di questi anni; inoltre, nell'80, egli aveva collocato le ultime quattro delle otto Battaglie della Pinacoteca di Monaco, dipinte per il duca di Mantova, celebranti fasti gonzagheschi; nell'87 aveva dipinto per il re di Spagna un Giudizio, oggi smarrito; fra il '68 e il '92 aveva preparato, come i pagamenti attestano, i cartoni per i musaici di S. Marco; aveva infine lavorato per chiese, scuole e privati con la feconda generosità dei giovani anni. È del '68, fra l'altro, il Paxtibi Marce, oggi nell'Accademia di Venezia, dipinto per la Scuola di S. Marco; dello stesso anno sono la Crocifissione e la Discesa di Cristo al Limbo per S. Cassiano; del '76 la Resurrezione di Lazzaro nella chiesa di Santa Caterina a Lubecca; del '77 le Tentazioni di S. Antonio, nella chiesa di S. Trovaso. Un ultimo ciclo il T., prima di morire, ideò, e in parte eseguì, per San Giorgio Maggiore: la Resurrezione (1583-88), la Deposizione (1592-1594), il Martirio dei Ss. Cosma e Damiano (1593-1594, con aiuti), l'Incoronazione della Vergine (1592-1594, con aiuti), la Caduta della manna, l'Ultima Cena (1594).
Sono queste le più significative fra le opere datate del T. Ma molte altre ve ne sono, anche di altissimo valore, intorno alle quali si hanno minori notizie. Basti ricordare, a Venezia, i quadri di Santa Maria dell'Orto (Giudizio universale, Adorazioue del vitello d'oro, Quattro angeli portano la Croce a S. Pietro, Martirio di S. Cristoforo, Allegorie di virtù, S. Agnese resuscita il figlio del prefetto, Presentazione al tempio); la Deposizione, proveniente dalla chiesa dell'Umiltà, la Crocifissione già in S. Severo, la Circoncisione già ai Gesuiti, oggi tutte nell'Accademia di Venezia; nello stesso Istituto, le storie di Santa Caterina, dipinte per la chiesa della Santa, di cui La Santa condotta al supplizio, Il supplizio della ruota, La Santa visitata in carcere dall'imperatrice, non rivelano traccia d'aiuti; l'Ultima Cena, nella chiesa di S. Polo; il Battesimo di Gesù, in quella di S. Silvestro; ecc. Fuori di Venezia: la Sant'Elena a Brera; varî ritratti a Pitti; Gesù e la Samaritana agli Uffizî; il Narciso nella Galleria Colonna a Roma. All'estero: il Duello fra S. Michele e Satana e la Liberazione d'Arsinoe, nella Pinacoteca di Dresda; il S. Giorgio che uccide il drago e l'Origine della via lattea, nella National Gallery di Londra; la Luna con le Ore, nel Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino; il Cristo in casa di Marta e Maria, nella Pinacoteca di Monaco; la Lavanda, nell'Escoriale; le píccole storie bibliche, al Prado; la Susanna e il Paradiso, al Louvre; la Susanna, nel museo di Vienna, ecc.
Tanta produzione, che può sorprendere ancor più, quando si tenga conto delle dimensioni vaste, talora vastissime, delle tele del T., indica, per parte del pittore, un'esclusiva, ardente dedizione all'arte. A differenza di quella di Tiziano, la vita del T. appare, infatti, priva di avvenimenti notevoli, che non siano in rapporto con l'arte. Egli non godé di amicizie cospicue; non intraprese viaggi accertati (tranne quello brevissimo del 1580, a Mantova); non conseguì onori ufficiali. Se ebbe innumerevoli commissioni dalla Serenissima, se ne ebbe da Filippo II di Spagna, dall'imperatore Rodolfo II, dal re d' Inghilterra, dal granduca di Toscana, dai Gonzaga, non trasse tuttavia alcun vantaggio da quei rapporti che non fosse il semplice compenso delle opere. L'artista aspirava a un altro vantaggio, che solo l'arte poteva dargli. Il Ridolfi scrive di lui: "Amò sommamente la gloria, né pensò ad altro mai, con le fatiche sue, che ad aprirsi il calle dell'immortalità". Se non si tien conto di questo sentimento, che ebbe carattere intensamente fattivo, non si comprende il movente della forza di creazione del T. É tale sentimento, che, regolando assoluto il mondo interiore dell'artista, e coincidendo, nel campo pratico, con la sua capacità di operare rapidissimamente, lo indusse a procacciarsi in ogni modo i lavori più notevoli, che in Venezia si offrissero: a procacciarseli, in contrasto con la propria alterezza, in lotta aperta con le aspirazioni di altri, anche a costo di non ricavarne, o quasi, guadagni materiali: donando talora il proprio lavoro; o riscattandone appena le spese; o esigendo, per esso, minimo compenso. Tale condotta, che non poteva al suo tempo essere capita nell'intima causa, diede al T. fama di avido procacciatore, e concorse sempre più ad isolare lui, già di per sé schivo e solitario, nell'ambiente artistico della sua città. Ivi, d'altra parte, la sua pittura destava più stupore e sgomento che comprensione e lode.
Vuole la tradizione che il T. scrivesse sulla porta del suo studio: "disegno di Michelangelo e colorito di Tiziano". Se il fatto sia vero non si può comprovare. Ma testimonianze varie di contemporanei (Pini: 1548; Vasari: 1550 e 1568; Borghini: 1584) fanno credere che il Robusti, seguendò il gusto dell'ora, considerasse fonte d'ispirazione i Fiorentini, "per le cose del disegno"; Tiziano, per "il colorito e l'imitare della natura". I moltissimi suoi disegni, derivati dalle sculture di Michelangelo, confermano, d'altra parte, quanto intensamente, appassionatamente, egli abbia rivissuto l'arte del Buonarroti. Vi sarebbe stato, dunque, nel giovane artista l'intento di conciliare due concetti in teoria opposti: il disegno con il colore, Firenze con Venezia. Alla conciliazione, del resto, con coscienza o no, aspiravano a quel tempo tutti i pittori. E nel Miracolo di San Marco nell'Accademia di Venezia (1548), gl'influssi evidenti di Tiziano e di Michelangelo s'accordano in un suggestivo compromesso; l'azione modica, ma già stilisticamente attiva della luce, rispetta la funzione del colore e dà risalto plastico ai corpi, intensificando il moto dei gruppi, la commozione degli animi. Il genio, cui tutto è concesso, può fare anche di un programma il contenuto dell'arte. Questo fu il caso del giovane T., che Michelangelo e Tiziano aiutarono a trovarsi. Alcuno ha anche visto, specie nelle opere più antiche del T., influssi di Bonifacio, di Schiavone, di Paris Bordone, di Lotto, di Parmigianino. Non si può escludere che tali influssi abbiano agito su quella visione, predisposta, come quella d'ogni grande, a risentire di tutto; ma la loro azione è mal precisabile, perché la potenza fantastica, che ha rinnovato gli apporti del Vecellio e del Buonarroti, ha tanto più travisato quelli di altre personalità.
L'arte del T. del resto, rapidissimamente si è evoluta. Nei dipinti successivi al Miracolo (per es., nell'Adamo ed Eva dell'Accademia di Venezia, o negli Evangelisti di Santa Maria del Giglio, o nei Santi già nell'Antichiesetta) la funzione più esplicita e rigorosa della luce ha dato uno spirito diverso all'insieme e l'effetto di colore, di volume, di spazio appare singolarmente modificato. L' artista ora si controlla meno e lascia liberamente predominare nella composizione l'elemento che meglio serve a esprimere il suo sentimento, impetuoso e profondo: la luce a contrasto con l'ombra. Nei due altissimi quadri della Madonna dell'Orto - il Giudizio e l'Adorazione del vitello d'oro (circa 1560)- l'intento di tutto subordinare ai contrasti di luce e d'ombra è infatti evidentissimo: ma, se il ricordo di Michelangelo, palese nel Giudizio come non mai, non vincola, di fatto, la libertà fantastica del T., il quàle imprime alle immagini un'irreale rapidità, traducendole quasi in guizzanti elementi atmosferici. tuttavia qualche cosa della forza costruttiva del modello in quest'insieme sussiste, e impedisce l'assoluta subordinazione di tutto al principio stilistico dominante. Dell'attuazione non ancora compiuta di opere, peraltro tanto impressionanti, ci si convince dinnanzi ad altri dipinti della stessa chiesa, e, più ancora, dinnanzi ai Miracoli di S. Marco, del '62, nell'Accademia di Venezia e a Brera. Questi confermano che il T., giunto a un certo momento della sua evoluzione, audacemente conseguì, al di là d'ogni programma aprioristico, l'accordo dei due antitetici principî di rilievo e di volume: lo conseguì per la funzione della luce e della rapidità. L'azione della luce, per raggiungere tutta l'efficacia stilistica, esigeva infatti che le scene apparissero dipinte, per quanto possibile, "presto": ché le immagini non avrebbero assunto quella parvenza immediata di oggetti in balia dell'atmosfera e del moto, quando non avessero suggerito idea della maggior sveltezza di spirito e di mano. Senza la rapidità, anzi, sarebbe venuto a mancare il vero e proprio mezzo di quel predominio della luce e delle tenebre. Dalla coincidenza dipendono tutti i caratteri di quella visione: il moto, s'è detto; e la padronanza di quel singolare spazio, che sembra dare idea di vortice; e l'aggrupparsi diagonale delle immagini; e lo svalutamento della qualità del colore; e la deformazione della forma; e l'apparenza di "non finito"; e la libertà della tecnica; deriva, soprattutto, l'intensa drammaticità delle scene. Tiziano, attraverso la vibrazione luminosa, ha reso gioiosamente il senso della peculiare sostanza delle cose. Il T., invece, imprime alle carni, alle stoffe, alle onde, all'aria un unico uguagliante ritmo, che toglie agli oggetti ogni effettiva differenza. La pennellata lunga, staccata, rapida, concorre all'espressione di quella particolarissima resa del mondo esteriore.
Pervenuto a simili effetti, che implicano, nella fantasia dell'artista, lo spostamento d'ogni consueto ideale, il T. non riposa: l'ansia inappagata lo induce a soluzioni sempre più audaci e impreviste. Le facoltà visive, che l'avevano portato ai capolavori del 1562, non mutano; ogni opera, però, è un'espressione nuova di esse; è un tentativo gagliardo per strappare di più al proprio spirito; per intensificare, evolvere, superare, con rinnovato ardore, í risultati già ottenuti. La decorazione della scuola di S. Rocco, ciclo fra i più solenni della pittura italiana, svoltosi fra il 1565 e il 1587, attesta tipicamente la fedeltà dell'artista ai suoi principî di stile e, allo stesso tempo, l'incessante rinnovamento di essi. La grande Crocifissione dell'Albergo, dove la Croce di Gesù si erge nello spazio, perno di un'immensa ruota, attorno a cui si dispongono animatamente i gruppi; il Cristo dinnanzi a Pilato, pure nell'Albergo, dove T., precursore del Caravaggio nel semplificare, ha concentrato l'anima sul Cristo, suggestivamente oscurando tutto il resto; nel soffitto della Sala superiore, il Mosè che fa sprizzare l'acqua dalla roccia, e dà alla composizione un travolgente moto rotatorio, che la luce e il vuoto accentuano; i quadri parietali della stessa sala, dove la molteplicità e la varietà degli oggetti pittorici e l'aperta disposizione di essi significano ogni volta sentimenti nuovi, sempre "furiosamente" espressi; le Storie di Maria nella Sala inferiore, le più tarde, in cui alcuni soggetti paesistici (la Fuga in Egitto, la Santa Maddalena, la Santa Maria Egiziaca) hanno un carattere sorprendentemente attuale: tutta la decorazione di S. Rocco, insomma, attraverso ininterrotte tappe, si evolve secondo un crescendo sempre più lirico, e consegue, nelle estreme prove, le conquiste più impressionanti e audaci. Fuori di quella Scuola, opere come la Cena di S. Polo, come la Pietà delle Gallerie di Venezia, o la Cena di S. Giorgio Maggiore attestano pur esse la libertà inventiva e la coerenza stilistica del T.; il quale conferma queste capacità in modo ancora più impensato in alcune creazioni tarde, non tardissime: nella Susanna del museo di Vienna, nelle Quattro Allegorie dell'Anticollegio in Palazzo Ducale, nell'Origine della via lattea della National Gallery di Londra. Mentre di solito, sotto la forza dei lampi di luce, Iacopo sconvolge l'unità compositiva, scolora le note cromatiche, suggerisce, non concreta, la costruzione dei corpi, nelle opere suddette attua miracolosamente le immagini nella loro interezza formale, e, invece di scomporre e svalutare, fissa, proprio attraverso la vibrante luminosità, l'effetto che dà l'illusione del volume.
V. tavv. CXVII-CXXIV.
E v. inoltre: escoriale, p. 304; italia, tav. CXCII; loredan, p. 490; morosini, tav. CLXII; rinascimento, tav. LXXXII; scorcio, tav. XXII.
Domenico Robusti, figlio di Iacopo, detto Domenico Tintoretto, sarebbe nato, secondo il Ridolfi, nel 1562: egli, invece, deve aver visto la luce assai prima, se nel '77 era sindaco della scuola dei pittori. Morì nel 1635. Prima del giugno 1582, aveva atteso col padre alla decorazione della cappella del Rosario nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, cappella che fu distrutta da un incendio nel 1867; nel 1588 aiutava il padre nel Paradiso di Palazzo Ducale; nel 1591 venivano consegnate le due tele, oggi nell'Accademia di Venezía, con ritratti dei confratelli della scuola dei Mercanti. Fra il '93 e il '94, con Iacopo, lavorava all'Incoronazione della Vergine in S. Giorgio Maggiore. Nel '94 era designato nel testamento paterno come erede "delle cose pertinenti alla professione sua" e come continuatore "delle opere... che restano imperfette". Del '94 è il ritratto del procuratore Contarini, per le Procuratie di sopra. Lavorò a Ferrara nel 1598 e a Mantova nel 1599; nello stesso anno collocava la Crocifissione in S. Trovaso a Venezia; fra il 1602 e il 1609 preparava i cartoni degli Eletti accolti in cielo, eseguiti a musaico in S. Marco da G. Marini e A. Gaetani; nel 1626 firmava la Crocifissione in S. Giovanni Evangelista. Altre notizie della sua attività si riferiscono a dipinti perduti.
La collaborazione al padre fu il fatto saliente della sua vita: essa è palese anche in opere, che, fino a pochi anni addietro, si solevano ascrivere a Iacopo: per es., nei ritratti dei primi 66 dogi nella Sala del Gran Consiglio, di cui soltanto l'assunto dell'incarico è da riconoscersi a Iacopo; nelle grandi tele (la Cacciata di Gioacchino dal tempio e l'Adorazione dei Magi), oggi nel coro di S. Trovaso, ideate da Iacopo per Santa Maria Maggiore "nell'estrema età"; nella Resurrezione, in S. Giorgio Maggiore; e in molte di quelle composizioni di Palazzo Ducale, che, nella voce precedente, vennero dette di Iacopo "con aiuti". Sono invece da ascriversi al solo Domenico, a Venezia, alcune tele nella Sala del Maggior Consiglio; in S. Francesco della Vigna; in S. Giorgio Maggiore; in Santa Maria dell'Orto, ecc.; e altre nelle gallerie di Firenze, di Roma, ecc., tra cui molti ritratti isolati e varie composizioni con committenti, usurpanti, per il passato, il nome di Iacopo.
L'attività di Domenico appare dunque non piccola: ma la qualità di essa non corrispose alla quantità. Le opere migliori sono naturalmente quelle eseguite in collaborazione con il padre, o in continuazione, dopo la morte di lui; ma, poiché non si possono precisare i limiti dei due contributi, queste poco giovano alla conoscenza del figlio. Tutta la produzione di Domenico, del resto, è caratterizzata dall'intento di accostarsi agli effetti di Iacopo: ma, nonostante il suo buon volere e la sua serietà, Domenico dimostra d'essere scarsamente dotato, riduce la grande arte paterna a esteriori contrasti di chiari e di scuri, entro cui le immagini s'impostano con artificio, senza grandezze e senza drammaticità. Il colore, livido e terroso, concorre all'effetto greve, scarsamente poetico dell'insieme.
Marco, suo fratello, vissuto fino al 1637, nominato come pittore nel testamento di Iacopo, è figura ancora del tutto incerta. Gli sono stati attribuiti alcuni dipinti scadenti tintorettiani.
Marietta, detta la Tintoretta, nacque forse poco dopo il 1550; morì, secondo il Ridolfi, nel 1590. Come per Marco, così per Marietta, che fu specialmente ritrattista, manca un punto di partenza da cui procedere alla ricostruzione della sua attività. Sono recenti i tentativi di identificare il suo autoritratto, ricordato dal Borghini, in un ritratto del museo di Vienna (n. 249), e un altro dipinto, ricordato dal Ridolfi, in un ritratto di un vecchio e un giovinetto dello stesso museo (n. 255).
Bibl.: Della copiosissima bibliografia su Iacopo sono qui indicati gli scritti più importanti, oltre ai più recenti. Tra gli antichi hanno importanza di fonti quelli dell'Aretino (Lettere, del 1545, 1548 ecc.), del Vasari (ediz. Milanesi, VI, Firenze 1881, p. 587 segg.), di F. Sansovino, di R. Borghini, del Ridolfi (La vita di G. Robusti, Venezia 1642; Le meraviglie dell'arte, Venezia 1648, II, p. 3 segg., anche nell'ediz. curata dal D. v. Hadeln, II, Berlino 1924, pp. 11-77), di M. Boschini (La carta del navigare pittoresco, Venezia 1660; Le miniere della pittura veneziana, ivi 1664 e nelle ristampe); di F. Corner, Chiese venete. Sono da consultare le guide antiche di Venezia, e inoltre: A. M. Zanetti, Della pittura veneziana, Venezia 1771; J. Ruskin, Stones of Venice, Londra 1863; G. B. Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del palazzo ducale, Venezia 1868. Da ricordare le monografie dello Ianitschek (1879), del Prestor Stearns (1894), del Thode (1901), del Helborn (1907), del Soulier (s. a.), del Waldmann (1921), di E. v. Bercken e A. L. Meyer (1923), di M. Pittaluga (1925), di F. Fosca (1929).
Tra gli studi particolari ricordiamo: D. v. Hadeln, Beiträge zur Tintorettoforschung, in Jahrb. d. preuss. Kunsts., XXII (1911), pp. 25-58; id., Beuträge zur Geschichte des Dogenpalastes, ibid., XXII (1911), Beiheft, pp. 1-33; E. von Berckën e A. L. Mayer, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte Tintorettos, in Münchener Jahrbuch, 1916-18, pp. 239-65; D. v. Hadeln, Die Vorgeschichte von Tintorettos Paradies im Dogenpalast, in Jahrb. der preuss. Kunsts., XL (1919), pp. 119-25; M. Pittaluga, Notizie sul T. della parrocchiale d'Alzano, in L'Arte, XXIII (1920), pp. 241-44; id., Criteri paesistici del T., ibid., XXIII (1920), pp. 163-80; Berliner, Die Thätigkeit Tintorettos in der Scuola S. Rocco, in Kunstkronik und Kunstmark, XXXI, 5 e 12 marzo 1920; D. v. Hadeln, Zeichnungen des Tintoretto, in Jahrb. d. preuss. Kunsts., XLII (1921), pp. 82-103, 169-89; id., Handzeichnungen des J. T., Berlino 1922; id., Early works by T., in The Burl. Mag., XLI (1922), pp. 206 segg., 278 segg.; L. Venturi, Contributi a Tiziano, a T., in L'Arte, XXXV (1912), p. 498; E. v. Berken, Unbekannte Werke des J. T. in der Sammlung Italico Brass in Venedig, in Pantheon, XV (1935), pp. 24-30. Tra gli studî complessivi di maggiore importanza anche per le attribuzioni particolari: A. Venturi, Storia dell'arte italiana, IX, iv, Milano 1929, pp. 403-616 (con ampia bibliogr.); B. Berenson, I pittori italiani del Rinascimento, Milano 1936.
Per Marietta, oltre la bibl. in Iacopo, vedi: A. Venturi, St. dell'arte italiana, IX, iv, Milano 1929, pp. 655, 684 segg.; E. Tietze-Conrat, Marietta Robusti, fille du Tintoret, in Gaz. d. beaux-arts (1934), III, pp. 258-62.