TINO di Camaino
TINO di Camaino. – Figlio dello scultore e architetto senese Camaino di Crescentino di Diotisalvi (sul quale cfr. Colucci, 2011), nacque, verosimilmente a Siena, intorno all’anno 1280; non si conosce il nome della madre.
La sua formazione artistica è ancora oggetto di discussione, in assenza di documentazione anteriore al 1312 e di opere certe precedenti l’Arca-altare di s. Ranieri, del primo decennio. Si è spesso supposto che possa aver lavorato assieme a Giovanni Pisano, collaborando con lui, fra il 1297 e il 1301, al pergamo di S. Andrea di Pistoia (per Gert Kreytenberg, 1978, nel rilievo con l’Adorazione dei Magi) e/o a quello successivo per il duomo di Pisa; recentemente gli è stata riferita direttamente un’importante scultura pistoiese di ambito giovannesco, il S. Andrea della chiesa omonima (Di Fabio, 2016).
Questa supposizione è contraddetta dalla mancanza del nome di Tino all’interno della cospicua documentazione conservata intorno alle opere di Giovanni e dal ruolo di ‘alternativa’ a Giovanni stesso nell’ambito delle committenze più importanti che Tino occupò a Pisa all’inizio del secolo. Le citazioni elogiative che Tino riserva al padre in due delle sue iscrizioni-firma (nella Madonna di Torino e soprattutto nella tomba del vescovo d’Orso), forse in voluto contrasto con quanto fatto da Giovanni con il proprio padre Nicola, fanno piuttosto pensare a un’educazione avvenuta assieme al padre Camaino nel cantiere del duomo senese; non appare però, in questo contesto, del tutto convincente il riferimento a Tino giovane del danneggiato architrave del portale maggiore dell’edificio, attribuito al maestro da Enzo Carli (1941, pp. 23-25). Gli indubbi caratteri derivati da Giovanni Pisano presenti nelle prime opere di Tino (e che appaiono anche in seguito) si spiegano con la comune cultura giovannea diffusa a Siena, dove Giovanni (e prima di lui il padre Nicola) aveva lavorato a lungo.
L’iniziale attività di Tino si svolse in ambito pisano. La prima opera, in termini cronologici, per la quale la critica accetta il nome di Tino come autore (a partire da Supino, 1904) è l’Arca-altare di s. Ranieri per il duomo di Pisa che, eseguita nel primo decennio del XIV secolo su commissione dell’operaio Burgundio di Tado, potrebbe collegarsi, come termine ante quem, a un documento del 1306 (Novello, 1995, pp. 630 s.).
Citata anche da Giorgio Vasari all’interno del duomo, subì nei secoli spostamenti tra il duomo e il Camposanto, per trovare oggi accoglienza nel Museo dell’Opera della Primaziale. Come rivela la rappresentazione dell’arca all’interno dei suoi stessi rilievi, l’opera è sostanzialmente intatta, anche se priva della policromia e dell’altare originale sottostante. L’arca, pensile, sostenuta da quattro mensole, presenta una cassa con tre rilievi figurati, sormontata da un grande dossale cuspidato con la Madonna col Bambino in trono e altri personaggi, fra i quali è da riconoscere il committente. Complessivamente l’opera è come l’equivalente di una grande pala dipinta; se in diversi particolari lo stile di Tino si mostra dipendente da quello di Giovanni Pisano, nei rilievi lo scultore mostra la distanza della sua concezione da quella di Giovanni, preferendo, come anche in seguito, una plasticità più morbida e meno drammatica.
Nel 1312 (19 ottobre) si colloca il primo documento d’archivio nel quale Tino è citato, una carta notarile pisana nella quale il maestro compare come fideiussore, in un atto di affitto, per la moglie del pittore Piastra (Fanucci Lovitch, 1991; Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 436); si tratta probabilmente del pittore senese Vanni di Bindo detto Piastra, attivo a Pisa negli stessi anni di Tino (su di lui, Pisani, 2010).
Sempre nel 1312 Tino pose il proprio nome sul fonte battesimale eseguito, su commissione dell’operaio Burgundio di Tado, per il transetto destro del duomo di Pisa, nel quale lo ricordava Vasari, che riferiva a Tino anche la decorazione marmorea dell’intera cappella che lo ospitava.
Dell’opera, gravemente danneggiata nell’incendio del duomo del 1595, sono riemersi nel tempo solo quattro piccoli frammenti figurati (uno dei quali rubato successivamente) e resti delle incorniciature (Novello, 1995, pp. 631 s.); un codice cinquecentesco (Bacci, 1920; Novello, 2000) conserva memoria delle iscrizioni esistenti sull’opera. Nella più lunga Tino ricordava in toni elogiativi il committente e si autodefiniva «Tini sculptoris de Senis arte coloris», con una dizione che ha portato alcuni critici a supporre anche una sua attività in ambito pittorico, non altrimenti documentata.
Al soggiorno pisano sembrano da riferire anche un rilievo incompiuto con Annunciazione, Natività, Annuncio ai pastori, forse formella di un pergamo non eseguito (Pisa, Museo nazionale di S. Matteo; attribuito da Carlo Ludovico Ragghianti, 1936) e la raffinata Madonna col Bambino del Museo civico di Torino (dalla collezione D’Azeglio), firmata nel basamento con la seguente iscrizione: VIRGINIS AT TINO FUIT OH Q[U]A(M) CERNIS IMAGHO QUAM GENUERE SEIE CAMAINUS PATER Q[U]AM MAGIS[T]RO (Novello, 1996; Dietl, 2009, p. 1709). Ispirata ai modelli di Giovanni Pisano, l’opera presenta, rispetto a quel maestro, una maggiore plasticità e un sentore aulico che anticipano gli sviluppi futuri di Tino. All’opera torinese si può affiancare una simile Madonna col Bambino, rimasta incompiuta, del Museo nazionale di S. Matteo a Pisa (dalle collezioni del Camposanto), concordemente attribuita al maestro (Baldelli, 2007, pp. 401 s.). In questo stesso periodo Tino potrebbe essere intervenuto, accompagnato da una larga maestranza, anche nella prosecuzione delle cosiddette ‘gradule’ del duomo di Pisa, ovvero lo zoccolo figurato che ne circondava il basamento, iniziato da Giovanni Pisano (per gli elementi riferibili a Tino: Novello, 1995, pp. 623 s.).
L’opera maggiore eseguita a Pisa da Tino fu il grande sepolcro dell’imperatore Enrico VII di Lussemburgo (comunemente chiamato Arrigo VII nella storiografia), originariamente conservato in fondo all’abside maggiore del duomo. I patti tra Tino (che ricopriva l’incarico di capomaestro dell’Opera, non sappiamo da quando) e l’Opera committente furono redatti il 12 febbraio 1315, ma è verosimile che il manufatto fosse già in lavorazione anteriormente e che fosse già stato previsto poco dopo la morte del personaggio, avvenuta nell’agosto del 1313 (Masignani, 1997). Tino ritirò costantemente la retribuzione settimanale dovuta, con la quale era verosimilmente lui stesso a pagare i propri collaboratori; non si presentò, però, al ritiro dell’ultimo pagamento. Il monumento, evidentemente ultimato (ma non tutti concordano su questo), fu comunque messo in opera in tempi rapidi, entro il luglio del 1315, assieme alla decorazione pittorica parietale che lo accompagnava (per i documenti, più volte pubblicati, cfr. Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, pp. 436-438). Il motivo della repentina scomparsa di Tino dal cantiere del duomo fu il precipitare del conflitto fra Pisa e la lega guelfa che le si contrapponeva, della quale faceva parte anche la città di Siena, che portò alla sanguinosa e per i pisani trionfale battaglia di Montecatini del 29 agosto 1315; Tino si unì alle truppe guelfe e partecipò allo scontro. Infatti, qualche anno più tardi, nel luglio del 1322, avutasi evidentemente conoscenza dei fatti, il Consiglio degli anziani del Comune di Pisa dichiarò la decadenza ufficiale di Tino dall’incarico di capomaestro del duomo pisano, «cum sit guelfus et in exercitu et prelio de Montecatino fuerit contra Pisanos», stabilendo inoltre che in futuro nessun guelfo potesse ricoprire quell’incarico (Bacci, 1921, pp. 77 s.; Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 442).
La tomba rimase nell’abside del duomo fino al 1494, quando fu smontata e una parte di essa fu ricomposta alla parete est del transetto destro, all’interno di un nuovo decoro; le parti così conservate subirono ulteriori spostamenti successivi, tra il duomo e il Camposanto, finché Peleo Bacci le riposizionò, nel 1921, nella collocazione quattrocentesca, nella quale tuttora si trovano (su questa ricomposizione moderna, oltre a Bacci, 1921, cfr. Novello, 2008). Del sepolcro dovevano sicuramente far parte gli elementi di questa ricomposizione, ovvero il gisant dell’imperatore con la cassa con i Dodici Apostoli (undici conservati, uno di integrazione), oltre alle statuine dell’Annunciazione, non utilizzate da Bacci ma presenti anteriormente. A questi pezzi si possono aggiungere due figure di Accoliti (Museo dell’Opera), due Angeli con cartiglio con iscrizioni elogiative di Arrigo, individuati pochi anni fa quando ancora si trovavano come acroteri sulla facciata del duomo, e oggi visibili nel Museo dell’Opera (Novello, 1993, pp. 217 s.; 1995, p. 361; Calderoni Masetti, 1994), e i pregevoli frammenti di colonna tortile figurati conservati a Pisa (Museo dell’Opera) e al Victoria and Albert Museum di Londra (Dan, 1980; per altri elementi minori collegati all’opera, Baldelli, 2007, pp. 402 s.). La maggior parte della storiografia concorda oggi nel ritenere che facessero parte del monumento la figura seduta in trono di Arrigo accompagnato dai cosiddetti Consiglieri, quattro dei quali conservati per intero (oggi al Museo dell’Opera), mentre di altri due rimangono solo le teste (una allo stesso Museo, l’altra presso la Villa Reale di Marlia); l’identificazione iconografica esatta di questi personaggi è un punto non ancora chiarito. In assenza di descrizioni e di testimonianze figurative anteriori alla scomposizione, la forma originale del monumento rimane ancora enigmatica, nonostante le numerosissime e a volte fantasiose ricostruzioni proposte soprattutto in tempi recenti (cfr. Novello, 1995, p. 213; Baldelli, 2007, pp. 120 s.; l’ultima, decisamente irricevibile, in Kreytenberg, 2016, p. 33). Si ritiene, in genere, che fosse un grande monumento a parete, molto aggettante, suddiviso in più livelli al di sopra di un altare dedicato a s. Bartolomeo (nel cui giorno Arrigo era morto). Un livello era occupato dalla cassa col gisant, accompagnato dagli Angeli col cartiglio e dagli Accoliti, un secondo (più in alto) ospitava la scena dell’imperatore in trono accompagnato dagli altri personaggi. Lo schema è echeggiato probabilmente dal posteriore monumento funebre pisano dei conti Della Gherardesca (Pisa, Museo nazionale). Le statue conservate mostrano l’evoluzione dello stile di Tino verso una definizione accentuata per masse plastiche delle figure, evidente soprattutto nei cosiddetti Consiglieri, tra le sculture di Tino più apprezzate in tempi moderni (Valentiner, 1935), e forse dovuta anche alla celerità di realizzazione dell’opera.
Fuggito da Pisa, Tino ritornò sicuramente a Siena, dove la sua presenza è attestata sia da documenti sia da opere che gli possono essere attribuite. Durante questo soggiorno eseguì innanzitutto il sepolcro del cardinale Riccardo Petroni (defunto a Genova nel 1314), per il quale un tempo si proponeva una datazione al 1317, probabilmente da anticipare invece al 1315-16 (cfr. Baldelli, 2007, pp. 403 s.).
Il monumento, dopo vari spostamenti subiti all’interno del duomo, si presenta oggi nella ricomposizione novecentesca operata da Carli e si può ritenere l’unica opera toscana di Tino quasi integra, permettendoci di apprezzare in maniera compiuta il lavoro di sviluppo e di definizione dello schema sepolcrale monumentale del quale Tino fu tra i protagonisti nella sua epoca. L’opera è retta da quattro mensole, sulle quali poggia una prima cassa che fa da basamento a quattro figure di Cariatidi. Queste reggono la cassa funeraria vera e propria, decorata con rilievi con Storie della Passione di Cristo (al centro, la Risurrezione), sulla quale poggia la camera funebre con il gisant del prelato, gli Accoliti e gli Angeli reggicortina. La camera è sormontata da un tabernacolo a forma di trittico, marcatamente gotico, con le statue della Madonna col Bambino e di due Santi; al di sopra compare una cuspide a bifora, unico elemento dubbio come pertinenza all’insieme. Si tratta di uno sviluppo originale dello schema di sepolcro d’inizio secolo, che combina elementi di varia provenienza e che fu di riferimento alle successive opere consimili realizzate dallo scultore. I rilievi della cassa rappresentano un punto d’arrivo nella ricerca spaziale e volumetrica di Tino, forse in seguito non eguagliato dallo stesso maestro (Pope-Hennessy, 1955, p. 17).
Fra il 1318 e il 1320 Tino lavorò sicuramente al servizio dell’Opera del duomo di Siena, assieme al padre Camaino; diversi documenti del 1318 (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, pp. 438-440) attestano il lavoro di entrambi nei primi sei mesi di quell’anno. Ugualmente, altri atti di pagamento confermano il lavoro dei due maestri nei primi mesi del 1320; in uno di questi, del gennaio, Tino è definito «chapomastro» (pp. 441 s.). Purtroppo non è possibile distinguere, all’interno dell’enorme lavoro costruttivo e decorativo, l’effettiva parte spettante ai due artisti. Al 1318 risale anche la portata catastale di Camaino e del figlio Tino (p. 440), che risultano proprietari di diversi appezzamenti di terra lavorata, oltre che di una casa in Vallepiatta, segno del raggiungimento di una posizione economica agiata.
Durante il periodo senese Tino eseguì anche alcune opere per alcune altre località vicine. Gli vengono infatti generalmente attribuiti i resti dell’Arca di s. Ottaviano nel Museo diocesano di Volterra (da completare con una Madonna col Bambino del Museum of art di Raleigh, collegata da Annarosa Garzelli, 1969, p. 148; Baldelli, 2007, p. 408), databili al 1319-20 (Martinelli, 2018), nonché i rilievi con Santi di San Gimignano, forse resti di una presunta Arca di s. Bartolo (Baldelli, 2007, p. 410; da integrare con un Santo vescovo in collezione Salini; Bardelloni, 2009) Al periodo senese viene generalmente riferita anche l’unica statua lignea policroma sulla quale si registra unanimità di giudizio in merito all’attribuzione, la Madonna col Bambino della badia di Anghiari (Refice, 2010).
Successivamente, forse già nel 1321, Tino si trasferì a Firenze, per svolgere una attività consistente, ricostruibile solo in parte a causa dello stato frammentario delle opere eseguite. La presenza fiorentina di Tino è attestata innanzitutto da un documento del 29 novembre 1322, nel quale gli ufficiali dell’arte di Calimala chiedevano che «maestro Tino Camaini da Siena si conduca a lavorare nell’Opera di S. Giovanni ne’ lavori da farsi fuori, como parrà a’ consoli e officiali» (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 442). Nello stesso documento si parla anche della volontà di realizzare in metallo le porte del battistero, ma l’indicazione sembra concordare con l’esistenza dei frammenti, quasi concordemente riferiti a Tino, di alcune grandi statue che si trovavano in origine sopra le porte d’ingresso dell’edificio, tolte all’inizio del Cinquecento per sostituirle con altri gruppi (Paolucci, 1994).
I frammenti sono sei, tutti custoditi presso il Museo dell’Opera del duomo di Firenze; due busti e una testa femminili sono stati identificati con Virtù teologali, in origine sulla porta orientale; un busto di Cristo benedicente e una testa del Battista proverrebbero dal gruppo del Battesimo, sulla porta meridionale; un’altra testa del Battista (di attribuzione più incerta) sarebbe quanto resta della Predica del Battista (o del Battista fra un sacerdote e un levita) già sul portale nord (sulle vicende attributive dei frammenti e sulle diverse ipotesi ricostruttive: Baldelli, 2007, pp. 410-412). Ai gruppi del battistero sono state anche riferite una testa virile del Museum of fine arts di Boston (Bartalini, 2001, come parte del gruppo sul portale nord; Baldelli, 2007, p. 413) e la nota statua della Carità nel Museo Bardini di Firenze (pp. 412 s.); si tratta, in entrambi i casi, di opere autografe di Tino collegabili proprio al periodo fiorentino.
Oltre alle statue per il battistero Tino eseguì sicuramente diversi monumenti sepolcrali, tutti purtroppo smembrati nel tempo; l’alto numero di frammenti rimasti, spesso senza una storia ricostruibile, rende complicate e non sempre certe le ipotesi ricostruttive. Tino eseguì innanzitutto il monumento destinato al patriarca di Aquileia Gastone della Torre, morto nel 1318, e datato in genere al 1318-19 (Baldelli, 2007, pp. 40 s.; Novelli, 2011).
Già collocato nella navata destra della basilica di S. Croce, nel Museo dell’Opera di S. Croce ne sopravvive la parte centrale, con il sarcofago, il giacente e due Angeli reggicortina. La struttura generale derivava, in modo ridotto, dal sepolcro Petroni, del quale sono replicati i rilievi della cassa. Sono ritenute parti di questo monumento una Vergine annunciata nello stesso Museo, la Madonna col Bambino detta Sedes Sapientiae (da un’iscrizione posteriore sulla base) nel Museo nazionale del Bargello, un Angelo adorante ora a Palazzo Vecchio (donazione Loeser), due Cariatidi, rispettivamente al Museo del Bargello a Firenze e nel Liebighaus Museum di Francoforte, nonché il gruppo della Commendatio animae dello stesso museo tedesco (Baldelli, 2007, pp. 405 s., dove si ricordano anche i riferimenti di alcuni pezzi ad altri monumenti tineschi).
Il secondo grande monumento funebre realizzato a Firenze deve essere riconosciuto in quello del vescovo Antonio d’Orso, eseguito prima del 18 luglio 1321, quando avvenne la solenne traslazione del presule, morto circa un anno prima. La tomba si trovava nella controfacciata del duomo, fra l’ingresso principale e quello sinistro. Rimossa già nel corso del Trecento e più volte spostata, è stata riportata in parte, all’inizio del Novecento, nel luogo originario, riconoscibile per la presenza dell’iscrizione-firma di Tino direttamente incisa sul paramento murario: +OPERU(M) DE SENIS NATUS EX MAG(IST)RO CAMAINO IN HOC SITU FLORENTINO TINUS SCULPSIT O(MN)E LAT(US) / HU(N)C P(RO) PATRE GENETIVO DECET INCLINARI UT MAGISTER ILLO VIVO NOLIT APPELLARI (Barbavara di Gravellona, 2015).
La struttura della tomba è stata ricostruita in vario modo, attingendo ai pezzi erratici del periodo fiorentino di Tino; le ricomposizioni tendono tutte a indicare una struttura semplificata (il più recente tentativo in Barbavara di Gravellona, 2015, pp. 68 s., a confronto con i precedenti); appartengono sicuramente al monumento originario gli elementi oggi ricomposti in situ, ovvero la grande mensola figurata a doppio arco, contenente una Allegoria della morte ispirata da Francesco da Barberino (esecutore testamentario del defunto), il sarcofago su essa collocato e la statua del vescovo presentato come defunto, ma seduto in cattedra e non sdraiato. Al monumento sono riconducibili anche due Angeli reggidrappo (frammenti di una scena di Elevatio animae), già in collezione Torrigiani e da poco entrati nel Museo dell’Opera del duomo fiorentino.
Di una terza tomba eseguita da Tino a Firenze rimane il gisant, conservato nella chiesa di S. Maria Maggiore, riferito a Tino da Giovanni Previtali (1972) e dallo stesso identificato come Bruno Beccuti, priore della stessa chiesa dal 1317 al 1323.
A questo monumento, del quale tutto s’ignora, e che dovrebbe situarsi nel momento finale del periodo fiorentino, o a un ulteriore sepolcro per un personaggio a noi ignoto, potrebbero essere ricondotti i diversi frammenti riferibili a Tino che per vari motivi non sembrano riconducibili ai due precedenti. Si tratta, in particolare, della Cariatide e dell’Angelo adorante del Museo di S. Spirito a Firenze, nonché dei due Angeli reggicortina del Victoria and Albert Museum di Londra e del perduto Santo francescano del Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino (su tutti, Baldelli, 2007, pp. 407 s.).
Da Firenze Tino si trasferì a Napoli probabilmente alla fine del 1323 o all’inizio dell’anno successivo (Aceto, 2011). Negli anni trascorsi a Napoli, fino alla morte, egli divenne il maggior interprete delle esigenze di autocelebrazione della dinastia angioina, soprattutto attraverso la creazione di una lunga serie di monumenti sepolcrali, in varie chiese cittadine (sulla loro funzione e la loro simbologia, Norman, 2018). Tino lavorò comunque anche come architetto, sovrintendendo ai lavori per diversi edifici. In particolare fu impegnato a lungo (assieme a Francesco de Vico) nell’edificazione della certosa di S. Martino, come attestato da documenti del 1325-26, e poi ancora nel 1331 e nel 1335 (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, pp. 443 s., 447, 450); a lavori di direzione per questo monastero si riferisce anche l’ultimo documento che cita Tino in vita, nel 1336. Tino diresse anche i lavori di Castel Sant’Elmo (affidatigli nel 1329; ibid., p. 446) e lavorò nella fabbrica di Castelnuovo e nell’arsenale e nel porto di Napoli (documenti del 1334-35; ibid., p. 449); i documenti non sono però chiari sull’entità e sul dettaglio dei lavori eseguiti.
Il periodo napoletano di Tino, nel suo versante scultoreo, ha conosciuto nel tempo minore fortuna critica rispetto alle sue esperienze toscane, perché spesso considerato solo un’appendice ripetitiva di queste, con largo uso di modelli già sperimentati e un progressivo emergere nell’esecuzione di una vasta bottega, del resto necessaria per poter eseguire le numerose richieste della corte (cfr. Aceto, 2011, p. 183). Solo in tempi recenti il lungo e prestigioso periodo di Napoli ha trovato una sua più attenta rivalutazione, determinata anche da un ampliamento della conoscenza (anche numerica) delle opere seguite dal maestro.
Il primo monumento sepolcrale eseguito da Tino fu quello di Caterina d’Austria, moglie dell’erede al trono Carlo di Calabria, nella chiesa francescana di S. Lorenzo Maggiore, per il quale nel maggio del 1324 lo stesso Carlo sollecitava l’acquisto a Roma dei marmi necessari (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 442, n. 51). L’opera, un sepolcro ‘a giorno’ fra due pilastri del deambulatorio, ha sollevato spesso perplessità fra gli studiosi sia per la struttura inusuale sia per l’esecuzione; solo a partire dagli studi di Ottavio Morisani (1945) l’autografia tinesca sembra essere stata accettata in pieno e solo studi più recenti (Aceto, 2011, pp. 183 s.) hanno rivalutato la complessa struttura. L’opera successiva di Tino, il monumento di Maria d’Ungheria, nella chiesa napoletana di S. Maria Donnaregina, è considerato il capolavoro del suo periodo napoletano, per la coerenza dell’impianto architettonico e per la sicurezza esecutiva con la quale lo scultore ha affrontato un sepolcro che conteneva anche un programma iconografico importante nelle figurazioni dinastiche angioine del frontale della cassa.
La tomba era in lavorazione nel febbraio del 1325, quando Roberto d’Angiò ordinò ai suoi vicari in Roma di agevolare il maestro Gagliardo Primario per l’acquisto dei marmi necessari (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 442, n. 53); venne saldata, secondo le disposizioni del testamento di Maria, allo stesso Gagliardo e a Tino nel maggio del 1326 (pp. 445 s.; è da notare che in questo atto il nome di Tino è scritto nelle forme «Dyno» e «Dino»; in altri documenti napoletani si riscontrano anche le forme «Cino» e «Gino»). La documentata collaborazione con Gagliardo Primario, conosciuto soprattutto come architetto (per esempio in S. Chiara), è stata interpretata in vari modi, sia come un effettivo processo creativo di collaborazione, che spiegherebbe l’unità architettonica del monumento, sia come una semplice presenza tecnica legata alla ricerca dei materiali e alle necessità pratiche (Aceto, 1995; Baldelli, 2007, p. 415). La struttura generale del sepolcro, non pensile, ma appoggiato al suolo, riprende, sotto una grande arcata gotica, ricca di elementi policromi, molti elementi già presenti nei monumenti precedenti, dagli Angeli-cariatidi alla Madonna col Bambino alla sommità, risolti comunque con uno stile unitario che aggiunge alla consueta solidità plastica una particolare eleganza nei panneggi e nei volti.
Il terzo grande monumento funerario angioino arrivato a noi è quello di Carlo di Calabria, nella chiesa di S. Chiara. Anche in questo caso, sull’esecuzione del monumento siamo informati dalle disposizioni di Roberto d’Angiò per l’acquisto, a Roma e a Terracina, dei marmi necessari, il 12 aprile 1329 (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 447); l’effettiva esecuzione viene però spesso differita dalla storiografia ad anni più tardi, fra il 1333 e il 1335 (Baldelli, 2007, p. 420). Esemplato sul sepolcro di Maria d’Ungheria, ma con soluzioni più enfatiche, questo monumento rivela, per la prima volta, l’estesa presenza di collaboratori di bottega nell’esecuzione. Nella stessa chiesa di S. Chiara è riferibile a Tino anche quanto resta della sepoltura della piccola Maria di Calabria, figlia di Carlo, morta nel 1328 a un solo anno di età, opera verosimilmente eseguita in contemporanea con la tomba paterna e forse già pronta nel 1332 (Baldelli, 2007, p. 421). Ancora in S. Chiara si conservano dei frammenti di sarcofago attribuibili a Tino, per Francesco Aceto (1995) possibili resti di un ipotetico sepolcro realizzato per le spoglie di Ludovica, figlia di Carlo di Calabria, morta nel 1325, e una Crocifissione frammentaria a bassorilievo. Inoltre, in anni più tardi, fra il 1335 e il 1336, Tino eseguì, sempre per S. Chiara, anche in questo caso con ampio intervento di bottega, la tomba di Maria di Valois, vedova di Carlo, ripetendo ancora una volta, in forme semplificate, il modello della tomba di Maria d’Ungheria.
L’attività di Tino si svolse anche in altre chiese cittadine. Nel duomo sono da attribuire a lui la Madonna col Bambino nella lunetta del portale maggiore e la tomba dell’arcivescovo di Salerno Orso Minutolo (Aceto, 1988-1989), che conserva una ricca policromia. È per ora solo un’ipotesi che Tino abbia potuto anche lavorare alle grandi tombe angioine, perdute, fatte eseguire nel duomo dalla regina Sancia all’inizio del quarto decennio; da una di queste potrebbe comunque provenire una pregevole Giustizia tinesca ancora conservata nell’edificio (Aceto, 2011, p. 190). In S. Domenico Maggiore (e nel Museo di S. Martino) rimangono i resti delle sepolture di Filippo di Taranto e Giovanni di Durazzo, e in S. Lorenzo Maggiore spetta a Tino la sepoltura di Giovanni di Capua (Baldelli, 2007, pp. 422, 425 s.); in queste ultime opere l’intervento della bottega appare evidente. Non sappiamo in quale chiesa si trovasse la tomba di Matilde di Hainau, duchessa di Acaia, per il cui sepolcro marmoreo Tino ricevette un pagamento il 14 luglio 1332 (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 447); ha scarso seguito attuale l’ipotesi che un frammento dell’opera sia riconoscibile in una figura femminile giacente del Museo di S. Martino (Baldelli, 2007, p. 422).
L’operosità di Tino non si concentrò tutta nella città capitale del Regno, come evidenziato soprattutto dalle ricerche più recenti, che hanno recuperato frammenti dell’attività del maestro in luoghi limitrofi. L’attività di Tino per la badia di Cava dei Tirreni è ricostruibile attraverso un nutrito numero di frammenti, per lo più ivi conservati, che si riferiscono, secondo le ipotesi più attendibili, ad almeno due opere, la tavola marmorea per l’altare maggiore della chiesa abbaziale, realizzata a bassorilievo in più scomparti (e forse a due facce; Aceto, 2011, p. 189), e un ipotetico monumento funebre, forse dedicato a Filippo de Haya (Baldelli, 2007, pp. 416-419); è possibile che Tino abbia realizzato anche una tavola a cinque scomparti, con al centro la Madonna col Bambino degli Staatlichen Museen di Berlino (Aceto, 2011, p. 189). Resti di opere tinesche si trovano ad Amalfi e a Massa Lubrense (Leone de Castris, 2018b); alla stessa zona potrebbe essere pertinente anche il piccolo, pregevolissimo trittico ricomponibile con la Madonna col Bambino oggi a Castrovillari, il Battista della collezione Alana di Newark (Cavazzini, 2009) e il S. Pietro dell’omonima chiesa di Monticchio a Massa Lubrense (Aceto, 2011, p. 190). Riconducibile a Tino e alla sua bottega è anche la tomba di Enrico Sanseverino nella chiesa di S. Maria Maggiore a Teggiano (Salerno; Baldelli, 2007, pp. 423 s.).
Nel corso del periodo napoletano, e in particolare nella sua parte terminale, Tino eseguì un corposo numero di piccole opere a bassorilievo in marmo, di particolare raffinatezza esecutiva e di possibile esclusiva destinazione regale, create quasi in competizione con la pittura senese e fiorentina del tempo. Spiccano tra queste il rilievo con la Madonna in trono, angeli e la regina Sancia (Washington, National Gallery of art, attribuita da Wilhelm R. Valentiner, 1923), il rarissimo trittico marmoreo a due facce, oggi separate e divise tra la collezione senese del Monte dei Paschi (la faccia con la Madonna col Bambino tra s. Caterina d’Alessandria e s. Giovanni Battista, già Borletti) e la collezione Salini di Asciano (la faccia col Cristo in Pietà tra Maria e s. Giovanni Evangelista; Aceto, 2009), la Madonna col Bambino di Galatina (Chelazzi Dini, 1995), la Madonna col Bambino del Victoria and Albert Museum di Londra e le sue repliche, forse di bottega, una nella collezione Hyde di Glen Falls e due in proprietà privata (un esame di queste opere in Kreytenberg, 2013). Risalgono verosimilmente al periodo napoletano alcune statuette a tutto tondo della Madonna col Bambino conservate a Oxford (Ashmolean Museum), a Fondi (S. Pietro) e a Detroit (Institute of arts), e forse i due Angeli reggicortina del Liebieghaus di Francoforte (per Francesco Aceto, 2000, pertinenti alla tomba di Cava dei Tirreni).
Un documento dell’8 luglio 1336 attesta il pagamento a Tino di una cospicua somma per il lavoro eseguito nella certosa di S. Martino nei precedenti due anni, sette mesi e ventotto giorni (Minieri Riccio, 1883, p. 205; Carmi - Felicetti in Baldelli, 2007, p. 450). Tre giorni dopo, l’11 luglio 1336, due diversi documenti (pp. 450 s.) attestano la sostituzione di Tino nei lavori di S. Martino e Castel Sant’Elmo con Attanasio Primario da Napoli. In tali documenti al nome di Tino è associata la parola «quondam», così da far pensare a una morte repentina (Aceto, 2000 e 2011, indica costantemente il 1336 come data di morte).
Questo contrasta con un documento che ricorderebbe Tino in vita il 2 giugno 1337 (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, p. 451); la prima testimonianza certa della sua morte, in questo caso, risalirebbe al 2 gennaio 1338 (Bertaux, 1899, p. 139); allo stesso anno risale la prima attestazione dell’avvenuta morte del padre Camaino, ancora in vita nel gennaio del 1336 (Carmi - Felicetti, in Baldelli, 2007, pp. 450 s.).
Da atti successivi alla morte di Tino apprendiamo dell’esistenza di almeno tre suoi figli, Cola, Martino e Margherita; a Landa, vedova di Tino (indicato come «marmorarius»), fu pagato nel giugno 1339 il saldo del monumento a Maria di Valois (pp. 451 s.).
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