TINDARI (Τυνδαρίς, Τυνδάριον, Tyndareum)
Città della costa N-E della Sicilia, fondata da Dionisio I nel 396, in una parte del territorio di Abaceno, per sistemarvi i suoi mercenarî locresi, Medmei e Messeni (Diod., xiv, 78, 5-6).
È discusso se il nome, collegato evidentemente al culto dei Dioscuri (attestato ampiamente in T. attraverso le monete ed i mosaici) preesistesse alla città. La vittoria del 393 di Dionisio su Magone pose T. al sicuro da rivendicazioni territoriali da parte della vicina Abaceno, alleata dei Cartaginesi (Diod., xiv, 90, 2-4). Probabilmente la città fu sempre collegata militarmente con Siracusa. Un gravissimo pericolo per T. rappresentò la conquista di Messina da parte dei Mamertini, fino alla vittoria riportata da Gerone II al Longano nel 269. Durante la prima guerra punica costituì una posizione difensiva dei Cartaginesi, alleati di Gerone II, e rimase anche per alcuni anni in loro possesso; ma, dopo la battaglia navale tra C. Attilio Regolo ed Amilcare, svoltasi nelle sue acque (Polyb., i, 25, 1-5), passò ai Romani. La fedeltà a Roma durante le successive guerre puniche e servili meritò a T. l'onore di offrire, con altre sedici città della Sicilia, una corona a Venere Ericina (Cic., Verr., v, 124). Ebbe, nell'ordinamento romano, la posizione di civitas decumana, e dovette godere di particolare prosperità; ciò si deduce anche dalla narrazione delle numerose rapine commesse in essa da Verre (Cic., Verr., iii, 103; iv, 29; iv, 48). Caposaldo di Sesto Pompeo, fu conquistata nel 36 da Ottaviano, che in seguito vi dedusse una colonia.
In età cristiana, fu sede vescovile (lettere di S. Gregorio ad Eutichio e a Benenato vescovi di Tindari). Fu distrutta da al Fadl ibn Ya' qûb nell' 836 (M. Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, 12, 1933; p. 438).
Urbanistica. La città è stata costruita in posizione militarmente molto forte sull'alto di un promontorio roccioso con pendio ripidissimo accessibile solo per breve tratto del lato E. Il nucleo principale dell'abitato era insediato su un terreno in sensibile declivio da S-O verso N-E ed aveva una pianta regolarissima. Forse tre grandi strade parallele (decumani), di cui due sole per ora accertate dallo scavo, larghe m 8, correvano per tutta la lunghezza del pianoro, a differente quota, in senso NO-SE, e strade più strette (cardines) (larghe m 3) in ripida discesa le intersecavano perpendicolarmente a intervalli regolari di m 30. Sull'asse dei cardines correva un grandioso e perfetto sistema di fognature alle quali si raccordavano le canalizzazioni provenienti dalle abitazioni.
Il decumano superiore doveva essere la strada principale. A monte di esso, appoggiato alla parte più elevata della collina, era il teatro. Al suo estremo S-E, attraverso un propileo monumentale, esso sboccava nell'agorà porticata, oltre la quale, nella zona più elevata (oggi occupata dal Santuario della Madonna del Tindaro) doveva trovarsi l'acropoli sacra della città. Dall'agorà, lungo il fianco dell'acropoli, doveva snodarsi la strada che con ampia curva giungeva all'unica porta. Fuori di questa nel pendio si sviluppava una delle necropoli. L'altra necropoli, non meno importante, si estendeva invece sul dosso dalla sommità pianeggiante che a quota inferiore prolunga verso S-E il colle di T. (Contrada Santa Panta).
È probabile che il tracciato urbanistico risalga alla fondazione della città, come farebbero pensare la posizione del teatro e miseri resti di case di età timoleontea messi in luce sotto le fondazioni delle case romane. Non è facile localizzare la grande frana che, secondo una testimonianza, certo esagerata, di Plinio (Nat. hist., ii, 206), avrebbe inghiottito mezza città.
Le mura. T. dovette avere una cinta di mura fin dal momento della sua fondazione. Le mura dionigiane, come quelle pressocché contemporanee di Alesa Arconidea, erano costruite con campate in opera incerta rivestita di intonaco, intervallate con pilastri formati da una sovrapposizione alternata di blocchi squadrati singoli e a coppie. Tale cinta muraria esisteva solo nei tratti non protetti dalla inaccessibilità delle rupi. Agli inizî del III sec. a. C., si incominciò a sostituire questa struttura con altra più solida a duplice paramento di blocchi squadrati e con riempimento interno di pietrame (nel riempimento monete di Iceta e di Gerone II).
Le nuove mura (larghezza da m 2,50 a m 4,50) erano attraversate da numerosi canali di drenaggio e da postierle. Ad intervalli aggettavano dal loro prospetto delle torri anch'esse a struttura massiccia almeno nella loro parte inferiore oggi conservata. La porta urbica di questa età era protetta da un invito a tenaglia semicircolare fiancheggiato da due grandi torri.
Il teatro. Il teatro di T., già studiato e rilevato negli ultimi decenni del XVIII sec., fu oggetto di scavi archeologici fra il 1842 e il 1845 quando si misero in luce i resti dell'edificio scenico. Ebbe restauri negli anni 1938-39 (Cultrera, Agati) e infine fra il 1960 e il 1964.
Fu costruito probabilmente sul finire del IV sec. a. C. (nelle trincee di fondazione, ceramica dello stile di Gnathia), appoggiato al pendio. Resti notevoli dell'edificio scenico consentono una ricostruzione grafica dell'elevato tentata già dal Bulle (1928) e migliorata in seguito ai recentissimi restauri che hanno portato qualche elemento nuovo. In età imperiale il teatro fu interamente rimaneggiato per adattarlo a giochi circensi. Il teatro nella tarda età imperiale doveva già essere in rovina perché blocchi di esso sono riadoperati nella cinta muraria di questa età e talvolta franati con questa fino al fondovalle.
La basilica. L'edificio chiamato un tempo "il Ginnasio" e più tardi la Basilica, potrebbe esser meglio definito un propileo monumentale dell'agorà. Della basilica infatti ha la funzione, quale sala coperta per riunioni pubbliche, ma non la forma classica. Consta di una grande aula o meglio di una galleria che copre la strada principale della città al suo sbocco sull'agorà. Questa galleria, che aveva una vòlta a botte in calcestruzzo diaframmata da nove archi in conci lapidei, poteva costituire un passeggio coperto, così come i portici che circondavano la piazza, ma poteva anche essere sbarrata con cancelli ai due estremi e diventare una sala di riunione. Il traffico era allora deviato attraverso le due strade a cielo scoperto che fiancheggiavano la galleria.
È un monumento interessantissimo sia per l'unicità della planimetria, sia per le caratteristiche strutturali. Il problema della copertura a vòlta di grandi spazî viene affrontato con una tecnica ancora tipicamente ellenistica a grandi blocchi, non idonea a reggerne la spinta laterale. Per controbilanciare questa spinta vengono creati al di sopra delle stradette laterali archi a cavalcavia destinati a trasmetterla al fianco della montagna o a strutture che potevano fungere da contrafforti. Sui cavalcavia corrispondenti al fronte principale dell'edificio trovano posto le scale di accesso al piano superiore o alla terrazza. Sul prospetto principale verso l'agorà la basilica si presenta con un fronte costituito da cinque archi, di cui quello mediano corrispondente alla grande aula, i due laterali alle strade che la fiancheggiano, i due estremi alle scale che salivano ai cavalcavia. Il prospetto N-O, oggi meglio conservato, era meno regolare.
Questi caratteri strutturali, ancora legati alla tradizione ellenistica, ma già preannuncianti la grande architettura romana, inducono a porre il monumento in rapporto con la deduzione della colonia augustea.
Il fianco a valle della basilica crollò parzialmente durante l'età tardo-imperiale, ma i blocchi conservarono nella caduta il loro allineamento. Sulle rovine di essa vennero a passare le mura bizantine. Del vano principale si conservarono due archi fino agli inizî del XIX sec., ma già alla metà di esso uno di questi era crollato. Il fianco caduto fu risollevato nel 1956 quando fu anche parzialmente ricostruito il prospetto occidentale.
Abitazioni romane. Nell'area urbana è stata scavata fra il 1949 e il 1964 un'intera insula con i tratti dei cardines e dei decumani che la fiancheggiano e con gli edifici a diversi livelli. Sul decumano inferiore si aprivano sei tabernae tre delle quali costituite da un solo ambiente, le rimanenti con ampio retrobottega. Sul ripiano sovrastante trovava posto una ricca abitazione con atrio-peristilio quadrato a dodici colonne, con impluvium e cisterna al centro, in asse col quale era il grande tablinum facente corpo unico con le ali. Atrio e tablinum erano simmetricamente fiancheggiati da aulae e cubicoli che in parte si sovrapponevano alle sottostanti tabernae, e a vasti scantinati retrostanti ad esse. Questa casa costruita con pavimenti in opus signinum e a litostrato, ma anche con qualche bel mosaico policromo nel I sec. a. C., si arricchì nel I sec. d. C. di nuovi pavimenti musivi a tessere bianche e nere.
Su un terzo ripiano un poco più elevato, trovava posto un'altra abitazione consimile, di pianta meno regolare anch'essa con atrio-peristilio a 12 colonne e con tablinum laterale. Su ripiani superiori era uno stabilimento termale con cortile porticato con due piccoli apodyteria fiancheggianti l'ingresso e con stanze decorate con ricchi pavimenti musivi allineati su una sola fila.
Sotto il suolo dell'insula saggi in profondità misero in luce scarsissimi resti di case greche del IV sec. a. C. e tracce di una stazione preistorica dell'Età del Bronzo (XVIII-XV sec. a. C.).
Resti tardo-imperiali e bizantini. Alla fine del mondo antico la cinta muraria greca, da secoli in rovina, fu ricostruita e completata anche sul lato a mare ove non era mai esistita, utilizzando quasi esclusivamente blocchi strappati ai monumenti dell'antica città ormai in rovina e in particolare alla scena del teatro. Sui ruderi delle case signorili della prima età imperiale sorsero povere casupole.
Dopo alcuni secoli, diminuita fortemente la popolazione, la città si ridusse ad una ristretta area intorno all'acropoli con una nuova cinta anche questa interamente costruita con blocchi di secondo impiego.
Sculture. Ve ne sono numerosi resti, in parte scavati dall'inglese Fagan nel 18o8 e, dopo varie vicende (rimasero per anni in abbandono sulla riva del mare), passati al museo di Palermo. Tra le più importanti: uno Zeus del tipo Urios, noto attraverso monete siracusane, un rilievo con dedica ad Artemide Euprassia, e due capitelli in terracotta (un terzo è al museo di Messina), di tipo cosiddetto ionico-siceliota. Un frammento di Nike volante del museo di Siracusa trova riscontro nei frammenti di un'altra Nike di Palermo; forse erano ambedue acroterî di un tempio, tardivi rimaneggiamenti derivati da Paiomos. Della famosa statua di Hermes, citata dalle fonti perché legata a significativi avvenimenti (portata via dai Cartaginesi durante la loro occupazione, fu restituita a T. da Scipione Africano Minore e nuovamente asportata da Verre) non resta che il ricordo su una moneta (A. Holm, Geschichte Siciliens in Altertum, iii, Lipsia 1898, n. 532).
Numerosi pezzi sono venuti in luce nei nuovi scavi: fra questi, oltre a un gruppo di togati, una testa colossale di Augusto, un grande capitello fittile corinzio-italico, ecc.
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(L. Bernabò Brea - A. M. Fàllico)