MAFFEI, Timoteo (al secolo Niccolò Giacomo)
Nacque intorno al 1415 a Verona, da Guglielmo e da Orsolina Maffei. Il padre apparteneva a un'aristocratica famiglia bolognese che, giunta a Verona in seguito al bando comminato all'avo Antonio nel Trecento, era riuscita a diventare parte integrante dell'élite urbana. Il giovane M. frequentò le scuole migliori e fu allievo dell'umanista Guarino Guarini nel periodo tra il 1425 e il 1429, anno in cui il maestro abbandonò Verona per trasferirsi a Ferrara.
La docenza del celebre umanista dovette risultare particolarmente significativa nel processo di formazione del M., visto che anch'egli avrebbe attribuito grande importanza alla conciliazione tra classicità e cristianesimo, improntando il suo impegno al recupero della sostanziale unità della cultura.
Il M. si mise rapidamente in luce e nei primi mesi del 1436 risultava tra gli adulescentes veronesi scelti per recarsi a Firenze al seguito della legazione veneziana guidata da Francesco Barbaro, inviata per trattare con il reggimento fiorentino e con il pontefice Eugenio IV, che si era rifugiato a Firenze a causa della situazione politica romana. Francesco Barbaro aveva il compito di suggellare definitivamente l'alleanza tra Venezia, Firenze e Genova in funzione antimilanese.
Accanto al Guarini altre due figure rivestirono un ruolo assai significativo nella formazione del M.: lo zio Paolo Maffei, teologo e umanista, che apparteneva all'Ordine dei canonici regolari lateranensi, e il colto predicatore francescano Alberto Berdini. Presumibilmente tra il 1435 e il 1436 il M., colpito dalla lettura dell'Enchiridion di Agostino d'Ippona, iniziò a meditare sulla possibilità di entrare nell'Ordine dei canonici regolari di S. Agostino, finché non si decise a chiedere accoglienza nel noviziato di Monte Donico. Tra il 1437 e il 1440 il M. pronunciò i voti solenni assumendo il nome di Timoteo.
Nel 1439 il M. doveva trovarsi presso la badia fiesolana e a Firenze, perché Vespasiano da Bisticci, che lo conobbe personalmente, ne ricorda l'eccellente predicazione e, in particolare, attribuisce alla sua favella infuocata e alla sua autorità numerose conversioni, anche eccellenti.
Il monastero di S. Bartolomeo a Fiesole, più noto come badia fiesolana, era stato annesso alla Congregazione canonicale da Eugenio IV in occasione del trasferimento del concilio da Ferrara a Firenze e, precisamente, l'11 febbr. 1439. Cosimo de' Medici prese da subito molto a cuore la rinascita della badia fiesolana e volle donare ai canonici neoaffidatari una ricca biblioteca. Per tale motivo incaricò proprio il dotto libraio Vespasiano da Bisticci affinché provvedesse a dotare gli armaria monastici di circa 200 codici. Dal canto suo, il M. il 15 agosto inviò dal monastero una lettera a Cosimo per sollecitarne l'aiuto. Per il M. il monastero fiesolano aveva necessità di urgenti restauri a causa della vetustà dell'insediamento e della pericolosità delle antiche strutture. Secondo Vespasiano da Bisticci l'intervento del M. presso Cosimo fu determinante, perché "l'autorità sua con Cosimo non poteva essere maggiore, per avere modi convenienti della gravità e della autorità che assai soddisfacevano a Cosimo, e il simile a tutti quelli che li conversava" (p. 281). L'autorevole gravità del M. e lo speciale ascendente esercitato su Cosimo tornano sia nel Trattato di architettura del Filarete, sia nella Cronaca della badia compilata da padre Isaia da Este sia, infine, in un poemetto celebrativo di Alberto da Vercelli. In ogni caso, l'amicizia tra il M. e Cosimo è accertata e confermata dalla corrispondenza epistolare e da un trattato del M. scritto in lode e difesa di Cosimo de' Medici, conosciuto con il titolo di In magnificentiae Cosmi Medicei Florentini detractores. Il Trattato di Filarete introduce ulteriori e interessanti specifiche relative al M. e, soprattutto, indica in lui l'anima della ricostruzione della badia, suggerendoci l'immagine di un religioso esperto in architettura.
Nell'aprile 1440 il M. si trovava a Venezia, nel monastero di S. Maria della Carità, dove componeva una lunga epistola indirizzata all'amico Ludovico Mazola. Lo scritto, concepito per esortare il Mazola ad abbandonare le cure secolari, è una sorta di breve trattato in lode della vita religiosa e in quanto tale fu discusso e variamente apprezzato nei circoli culturali coevi, a dimostrazione del credito goduto dal M. tra i letterati.
Non è semplice seguire gli spostamenti del M.: coerentemente alla riforma delle costituzioni del suo Ordine, egli era soggetto alla mobilità indotta dalla durata annuale delle cariche oltre che dalla fama personale di intellettuale e di predicatore, in quanto tale richiesto da enti, istituzioni e personaggi importanti. È certo, comunque, che nel 1443 il M. si trovava a Siena, poi fu di nuovo a Firenze e, infine, a Ferrara, dove rimase forse fino al 1444 (salvo tornarci nel 1448 e nel 1455). Nel maggio 1447 il M. intervenne al capitolo generale dei canonici regolari celebrato in S. Giovanni in Laterano.
Il capitolo costituiva un evento di grande rilevanza per l'Ordine poiché era in questione il perfezionamento del passaggio della basilica lateranense alla Congregazione. Quest'ultima, in effetti, l'avrebbe definitivamente annessa poco dopo, potendosi così fregiare del titolo di Congregazione lateranense.
Nel luglio del medesimo anno il M. tornò a Verona e lì, sollecitato dagli Anziani di Parma, scrisse una lunga lettera - una Apologia come egli stesso la intitola - per consolare i genitori del giovane parmense Stefano Genovesi.
Costui stava trascorrendo il periodo di noviziato nel monastero di S. Giovanni in Verdara a Padova, affidato alla cura del priore Orosio da Milano, e il M. aveva avuto modo di incontrarlo in quella sede e di sostenerne la scelta vocazionale. Riassumeva, dunque, la situazione di Stefano ai genitori e cercava di evidenziare la priorità di Dio rispetto al secolo, almeno per quanti, come il loro figlio, fossero radicalmente convinti della propria inclinazione spirituale e così facendo calcassero le orme dei celebri convertiti s. Alessio e s. Francesco d'Assisi. Il M. conosceva bene la comunità di S. Giovanni Verdara e si sarebbe adoperato per incrementarne la biblioteca e per istruirne in teologia i giovani accoliti.
Intanto si era consolidata e diffusa la notorietà del M. come predicatore, perciò Niccolò V gli offrì l'arcivescovado milanese. Il M. rifiutò con una lettera del 1 dic. 1449 volta a giustificare la sua opzione esclusiva per la quiete monastica, lo studio e, infine, la predicazione, ricorrendo agli exempla dei classici Focione, Pitagora e Anacarsi. Nel 1450 il M. fu a Pavia, l'anno successivo a Padova, poi a Milano e a Cremona, finché non raggiunse Bologna per il ciclo quaresimale del 1453 dove tenne prediche assai incisive.
In particolare si ricorda la predica volta a stigmatizzare i lussi muliebri perché ebbe il potere di convincere il legato pontificio, il cardinal Bessarione, a promulgare un editto suntuario il 24 marzo 1453 e, di converso, attirò sul M. le critiche della colta Nicolosa Castellari in Sanuto, autrice di un libello contro le leggi suntuarie bolognesi che circolò in veste anonima, e quelle dell'antico maestro G. Guarini, il quale, pur senza nominare esplicitamente il M., si espresse a sfavore dell'editto del Bessarione. Grazie all'intervento di Matteo Bosso, che da un lato componeva un testo dedicato a Bessarione e volto a respingere le proteste delle donne bolognesi e dall'altro si adoperava per rappacificare il Guarini con il M. in nome dell'antica amicizia e delle istanze morali cui si doveva l'intervento del M. nella società di Bologna, lo screzio tra maestro e allievo si ricompose. La mediazione del Bosso si concluse infatti con successo e i due intellettuali ricostituirono il loro legame sodale.
Ma le polemiche attorno al M. si sarebbero ben presto riaccese, benché per ragioni affatto diverse: avendo accolto l'appello di Niccolò V in favore della crociata, il M. compose una exhortatio dedicata ad Alfonso d'Aragona (1453) dove immagina che i Padri della Chiesa e i filosofi classici deprecassero la situazione italiana, esortando i principi a far pace tra loro e a respingere l'avanzata islamica. Bornio da Sala, tuttavia, copiò l'opera del M. e la fece recapitare a suo nome presso numerose corti italiane; il M. dovette dunque ricorrere al cardinale Domenico Capranica affinché lo aiutasse a difendersi dal plagio.
Dal 1454 il M. assunse cariche rilevanti nella Congregazione, di cui divenne vicario generale e poi rettore fino al 1457. Proseguiva, tuttavia, i suoi viaggi e la sua attività omiletica: nel 1454 fu in Toscana, poi a Roma e nel 1456 di nuovo a Firenze e successivamente a Milano e a Genova, dove nel 1460 fu invitato dal governatore per il re di Francia Carlo VII, Ludovico la Vallée, a ritornare per predicare. In quegli anni (presumibilmente nel 1458) il M. aveva intrapreso un pellegrinaggio in Terrasanta partendo da Pavia.
Gli anni Sessanta del Quattrocento apportarono nuovi onori e oneri al M.: ottenne la docenza di retorica nello Studium fiorentino e in quel medesimo periodo si occupò anche dei menzionati lavori di restauro della badia fiorentina. Tra il 1464 e il 1465 fu nominato priore in S. Giovanni in Laterano, incarico che lo mise in stretta relazione con gli ambienti romani e curiali, per poi diventare visitatore generale della Congregazione nel 1465-66 ma espletando, a latere, attività didattiche in teologia nelle scuole congregazionali e in particolare a S. Giovanni Verdara a Padova e a Milano. Nel 1466, grazie all'interessamento di Piero de' Medici, il M. tornò nell'amata badia fiesolana dove sperava di potersi dedicare quasi esclusivamente agli studia. La speranza andò ben presto delusa: nel giugno 1460 Pio II lo convocò a Roma per discutere con lui come arginare l'avanzata turca, ormai approdata in Albania. Il M. tornò a Firenze, ma certamente si trovava a Roma quando a Firenze si consumò la congiura ordita dal Soderini ai danni di Piero. Al Medici, scampato dal pericolo, il M. inviò una lettera gratulatoria con cui lo elogiava per aver saputo controllare la difficile situazione politica urbana. Il M. scriveva da Roma, dove si trovava, anche perché nel 1466 esercitò la mansione di visitatore apostolico.
La quies fiesolana, agognata dal M. e sempre procrastinata, era però destinata a restare nel dominio dei desiderata, perché nel 1467 il M. accettò la nomina ad arcivescovo di Ragusa offertagli da Paolo II.
L'accettazione della sede diocesana dalmata era motivata da un sentimento di grande riconoscenza nei confronti di Paolo II ma anche - e forse soprattutto - dalla volontà di non sottrarsi alla prova implicita nella nomina. Il M. era infatti costretto a recarsi in una zona che poteva divenire l'ultimo presidio cristiano contro l'avanzata turca. Il M. si impegnò con estrema solerzia nell'arcivescovado, giungendo persino a frizioni con le autorità civili pur di ripristinare la vita religiosa e preoccupandosi di sostenere la popolazione insidiata dal pericolo osmanico.
Il suo fisico, però, fu irrimediabilmente minato da una grave malattia fin dalla primavera del 1469. L'infermità lo costrinse a rinunciare alla Dieta ungherese del 1470 e fu causa della morte che lo colse a Ragusa il 20 apr. 1470. Il suo corpo fu inumato nella chiesa cattedrale.
Acutezza intellettuale, quindi, unita a un'indubbia auctoritas morale e a un'assoluta padronanza degli strumenti retorici e oratori, sembrano essere stati i tratti dominanti del M., addolciti da quelle doti che, secondo Vespasiano da Bisticci, si potrebbero riassumere nella "bellissima presenza" e nella capacità di instaurare rapporti empatici col prossimo: "fu solennissimo oratore di bellissima presenza, umanissimo con ognuno" (p. 281). Se, inoltre, l'allievo Matteo Bosso l'avrebbe fregiato del titolo di eccelsa gloria del pulpito, persino Matteo dei Pasti avrebbe inciso le parole "Dei praeconi insigni" in guisa di icastica didascalia sulla moneta cui affidava il ritratto del M. visto di profilo (cfr. S. Maffei, p. 3). Pur se tali entusiastici commenti vanno assunti filtrandoli attraverso la consapevolezza della vis encomiastica appartenuta a quanti li redigevano, rimangono certi l'abilità e il successo del predicatore e dell'oratore Maffei. Capace, del resto, di allacciare rapporti amichevoli e saldi con molti esponenti dei ceti dominanti: da Cosimo, appunto, a Bianca Maria Sforza, a Francesco Sforza, ai Malatesta, ai pontefici.
Del M. si conservano un vasto epistolario, parzialmente edito, e numerose opere, famose già durante la sua vita. In particolare si ricordano la lettera di rinuncia all'episcopato ambrosiano; la composizione, in forma dialogica, consacrata alla difesa della figura e della munificenza di Cosimo de' Medici; l'epistola esortatoria dedicata ad Alfonso d'Aragona e volta a compattare i principi cristiani in funzione antiturca; il dialogo In sanctam rusticitatem litteras impugnantem (1450 circa) composto per esaltare gli studia humanitatis. Per le edizioni delle opere si veda l'edizione di In sanctam rusticitatem litteras impugnantem. Introduzione, edizione critica e commento, a cura di P.S. De Corso, Verona 2000, pp. 62-116.
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