TIMOLEONE o Timoleonte (Τιμολέων, Timolĕo)
Generale corinzio del sec. IV a. C. Nacque di famiglia cospicua, intorno al 400.
Segnalatosi in un combattimento di cavalleria in cui salvò la vita del fratello Timofane, più tardi, quando Timofane cercò di farsi tiranno della patria con l'aiuto dei mercenarî che i Corinzî avevano assoldato a propria difesa, si mise a capo di una congiura per liberare la città. Ucciso Timofane, T. giudicato variamente dai suoi concittadini, si tenne per circa 20 anni lontano dalla vita pubblica. Frattanto in Sicilia la spedizione di Dione contro Dionisio il Giovane aveva avuto per effetto di abbattere la potente monarchia militare dei Dionisî e di far cadere l'isola nell'anarchia. Di questa aveva profittato Dionisio II per tornare circa 10 anni dopo la sua fuga dall'Italia in Siracusa (316) e impadronirvisi di nuovo del potere. Molti Siracusani si rifugiarono a Leontini che era stato già un punto di appoggio di Dione. Ivi dominava un antico partigiano di Dione, Iceta. Di lì essi mandarono un'ambasceria a Corinto, a madrepatria di Siracusa, sollecitando l'intervento dei Corinzî per porre fine all'anarchia nella città e nell'isola (346-45). I Corinzî prepararono una piccola spedizione della quale fu affidato il comando a T. ritenendo che il fratricidio da lui compiuto dava sufficiente garanzia che non avrebbe, come si riteneva avesse voluto fare Dione, abbattuto una tirannide per sostituirvene un'altra. Forse per il timore ispirato loro dal ritorno di Dionisio o per quello dell'intervento corinzio, i Cartaginesi che già avevano profittato dell'anarchia per estendere di nuovo su varie città greche della Sicilia il loro dominìo, inviarono nell'isola una spedizione che con grande esagerazione viene computata a 50-60.000 uomini e 150 triremi. Subito Iceta e altri tiranni si accordarono Gon essi e Iceta, che prima aveva favorito almeno in apparenza le richieste dei fuorusciti siracusani a Corinto cercò poi, d'accordo coi Cartaginesi, d'impedire la spedizione. All'uopo i Cartaginesi inviarono una squadra nello Stretto di Messina. T. con 10 navi e 700 uomini costeggiando l'Italia meridionale giunse a Metaponto e di qui proseguì per Reggio (344). Frattanto Iceta era riuscito a impadronirsi di Siracusa, salvo la cittadella fortificata nell'Isola di Ortigia, dove si sosteneva ancora Dionisio. Ciò era avvenuto tre giorni prima della partenza di T. da Metaponto. Tanto più i Cartaginesi a Reggio insistevano d'accordo con Iceta perché T. non varcasse lo stretto. Ma egli, d'intesa coi Reggini, ingannata mediante uno stratagemma la sorveglianza delle navi cartaginesi, da Reggio pervenne, invano inseguito dai barbari, a Tauromenio, dove Andromaco, il padre dello storico Timeo, che vi era signore, lo accolse entusiasticamente come liberatore dell'isola. Iceta marciò subito alla sua volta con forze soverchianti (si dice che disponesse di 5000 uomini, mentre T. ne aveva 1000 o poco più). Ma T. lo attaccò e sbaragliò con gravi perdite presso Adrano. Dopo di che gli si diede Adrano e si alleò con lui il tiranno di Catania Marco o Mamerco, valoroso soldato di origine italica. Ciò che più monta, gli si arrese Dionisio, e T. mandò un piccolo reparto di Corinzî a prendere possesso della rocca, dove trovarono copia di rifornimenti e si aggregarono 2000 mercenarî del tiranno. Dionisio, allora o poco dopo, fu inviato con parte dei suoi averi a Corinto. Frattanto Iceta per poter meglio bloccare la rocca dominata ora dai Corinzî, aveva fatto entrare la flotta dei Cartaginesi nel Porto Grande e sbarcare nella città truppe cartaginesi. Con queste, prolungandosi l'assedio, egli mosse contro Catania, donde T. inviava, violando il blocco, soccorsi agli assediati. Del momento profittarono i Corinzî, chiusi nella rocca per una sortita con cui riuscirono a impadronirsi dell'Acradina. Di ciò informato, Iceta tornò addietro ma non riuscì a ricuperare il perduto. Anzi, sospettando di lui e dei Siracusani, i Cartaginesi abbandonarono la lotta ritirandosi nell'occidente dell'isola. T., il quale aveva ricevuto da Corinto un soccorso di altri 2000 uomini, con gli aiuti di varie città siciliane amiche mosse contro Siracusa e assalì da tre parti la città. Si dice che l'assalto vittorioso non costò la vita neppure a uno dei suoi soldati. Certo è che egli s'impadronì di Siracusa mentre Iceta fuggiva a Leontini (343-42). T. abbatté le fortificazioni erette dai tiranni nella cittadella e iniziò subito la sua opera di riorganizzazione e di ripopolazione di Siracusa. Nello stesso tempo continuò la lotta contro i tiranni dell'isola e chiamò a libertà città greche sottoposte ai Cartaginesi. Inviò anche truppe contro l'antica provincia cartaginese, dove fu occupata Entella. I Cartaginesi allora mandarono a Lilibeo un grande corpo di spedizione. T., che aveva frattanto fatto pace e alleanza con Iceta, mosse contro di loro con circa 12.000 uomini e attaccò audacemente l'esercito cartaginese assai superiore di numero (la cifra però di 70.000 fanti e 10.000 cavalli è esageratissima), mentre con parte delle forze aveva passato il fiume Crimiso. La disfatta dei Cartaginesi, aggravata da un improvviso temporale che fece rigonfiare il Crimiso, fu totale. Incerto è il campo di battaglia (cfr. crimiso, XI, p. 900) e incerto l'anno (341 o 339). Ora peraltro i tiranni che avevano fatto causa comune con T. contro lo straniero, Iceta di Leontini, Mamerco di Catania, Ippone di Messina, intimoriti dai suoi progressi, gli si ribellarono alleandosi coi Cartaginesi che mandarono navi e mercenarî a Messina. Con questi riuscì a Mamerco di distruggere un reparto delle truppe di T. mentre un altro, rimasto dopo la battaglia del Crimiso nella provincia cartaginese, fu distrutto dagli stessi Cartaginesi. Iceta invase il territorio siracusano e vi fece ricco bottino. Ma al ritorno, assalito di sorpresa da T., fu disfatto con gravi perdite, e un'altra disfatta T. inferse a Mamerco presso Catania. I Cartaginesi allora piegarono a consigli di pace e la ottennero a condizioni abbastanza favorevoli, conservando la loro provincia a occidente dell'Alico, cioè il territorio che avevano alla morte di Dionisio il Vecchio. I tiranni abbandonati alle proprie forze furono sopraffatti. Iceta, allora o già prima, consegnato dalle sue stesse truppe a T., fu condannato a morte. Catania aperse le porte a T. Ippone e Mamerco tentarono di difendersi ancora in Messina, ma furono entrambi fatti prigionieri e giustiziati ignominiosamente. La stessa sorte subirono altri tiranni. Così T. poté dedicarsi tutto all'opera di ricostruzione, già del resto energicamente iniziata. Richiamò dappertutto i fuorusciti e invitò nelle città siciliane, spopolate da tanti disastri, nuovi coloni dalla Grecia e dall'Italia. A Siracusa concentrò anche la popolazione di Leontini. Riformò le leggi siracusane rivedendo e adattando l'antica legislazione di Diocle con l'aiuto di due Corinzî, Cefalo e Dionisio. Istituì nella città un'oligarchia moderata che metteva il potere in mano alla classe possidente. La direzione degli affari era affidata, pare, a un sinedrio di 600 membri. Il potere degli strateghi era limitato alle cose militari; l'eponimia, puramente onorifica, spettava a un magistrato sacrale annuo, l'anfipolo di Zeus Olimpio. Una lega stringeva Siracusa con le altre città greche libere dell'isola.
Compiuta la sua opera di restaurazione, T. che aveva perduto la vista ed era abbastanza avanzato in età, depose nel 337-36 la strategia che aveva tenuto per 8 anni. Visse fino alla morte nella sua patria d'adozione circondato dalla stima di tutti.
Il successo ottenuto da T. con pochissime forze, cioè la liberazione quasi integrale della Sicilia greca dai tiranni e dallo straniero, ha del prodigioso e gli stessi antichi non si saziavano di esaltare fino al ridicolo la sua fortuna. In realtà il prodigio si spiega anche più che con le doti non comuni di T. come politico e come generale col vivissimo desiderio di ordine, di pace, di libertà che ferveva nei Sicelioti, e con la fiducia che ispiravano ad essi la sua probità e il suo disinteresse. Come generale, egli eccelleva soprattutto nell'attaccare arditamente, di sorpresa, il nemico superiore di forze, ma impreparato, con truppe agguerrite e disciplinate. Come politico, egli diede nuovo vigore all'elemento greco di Sicilia e gli assicurò alcuni anni di benessere. Ma non costruì durevolmente. La lega tra le città siciliane non solo non fu una simpolitia come la Lega Olintiaca, o come quella fallita tra Argo e Corinto, ma non ebbe neppure una salda organizzazione federale come la Lega Beotica o la Lega Arcadica. Le esperienze greche e siciliane degli ultimi anni non appresero nulla a T. il quale non si avvide che la polis greca, come organismo pienamente sovrano, aveva fatto il suo tempo ed era impotente ai suoi compiti di difesa interna ed esterna.
Fonti. - Fonti principali sono la vita plutarchea di Timoleone e Diodoro, XVI, 65-70; 72-73; 77, 4-8; 82-83; 90,1; senza importanza la vita di Nepote. Plutarco e Diodoro risalgono in massima, a Timeo; ma non mancano tra i due contraddizioni che non tutte sono da spiegare con la loro intelligenza nel compendiare.
Bibl.: J. F. Arnold, Timoleon, Gumbinnen 1850; A. Holm, Storia della Sicilia, trad. it., II, Torino 1901, p. 377 segg.; E. A. Freeman, History of Sicily, IV, Oxford 1894, p. 293 segg.; K. J. Beloch, Griechische Geschichte, III,M Berlino 1922-23, i, pp. 192 segg., 581 segg.; ii, p. 380 segg.; R. v. Scheliha, Dion, in Das Erbe der Alten, II, xxv (1934), p. 85 segg.; Stier, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI A, col. 1276 segg. - Per gli ordinamenti timoleontei, W. Hüttl, Verfassungsgeschichte von Syrakus, Praga 1929, p. 120 segg. - Per la monetazione dell'età timoleontea, della quale emblema caratteristico è il Pegaso corinzio, v. G. F. Hill, Historical Greek Coins, Londra 1906, p. 86 segg.; W. Giesecke, Sicilia numismatica, Lipsia 1923, p. 72 segg.