Timeo di Locri
Nome, secondo la tradizione, di uno dei filosofi pitagorici più antichi; nulla di storicamente determinato può essergli ascritto, a contraddistinguerlo in seno all’atmosfera semileggendaria da cui è pervaso tutto il primo pitagorismo. Gli fu attribuita un’operetta in dialetto dorico, intitolata Περί ψυχᾶς κόσμω καὶ φύσιος («Intorno all’anima del mondo e della natura»), affine per contenuto al Timeo (➔) platonico. L’opera, menzionata per la prima volta da Nicomaco di Gerasa e quindi necessariamente antecedente al 2° sec. d.C., fu a lungo considerata la fonte più diretta del Timeo di Platone, il quale, entrato in possesso dello scritto del pitagorico T., avrebbe avviato la redazione del dialogo che da questi prende il nome (Proclo, In Timaeum, I, 7, 18 Diehl; Giamblico, In Nicomachi Arithmeticam Introductionem, 105, 10 Pistelli). In realtà questo testo riassume il contenuto dello scritto platonico, inserendovi talvolta sfumature aristoteliche, e può in certo senso essere considerato come la più antica interpretazione del Timeo pervenutaci in forma completa e quindi come un’importante testimonianza circa l’attività esegetica relativa al Timeo precedente a quella degli altri commenti superstiti. L’operetta risale in realtà a un periodo compreso tra il 1° e il 2° sec. d.C.: tale attribuzione è indicativa sia di quanto, in generale, il neopitagorismo tendeva ad accreditare le proprie concezioni facendole apparire come proprie dei più antichi rappresentanti della scuola, sia dell’interesse, all’interno di tale scuola, a ritrovare, come opera autentica di T., il nucleo delle dottrine che il vecchio e pitagorizzante Platone gli aveva letterariamente fatto esporre nel grande dialogo intitolato al suo nome e del quale il presunto scritto di T. non era, invece, che un tardo estratto e commento.