TIBULLO (Albius Tibullus)
Poeta latino. Ben poco sappiamo della sua vita. Ignoto è l'anno della nascita; con qualche probabilità si può stabilire che sia morto nel 18 o nel 19 a. C. Lo desumiamo da un epigramma di Domizio Marso, che dice aver mandato la Morte il poeta degli amori, Tibullo, ancor giovane, agli Elisi, compagno a Virgilio, il poeta delle epiche guerre, donde si presume che i due poeti sian morti a breve distanza (Virgilio morì il 21 settembre 19). Per la data della nascita i critici sono incerti e la portano chi al 49 chi al 48, chi più addietro, sino al 54. Certo in quel torno deve essere nato, se circa il 19 o il 18 egli morì in giovane età, e Ovidio lo poté dire successore a Properzio nell'elegia, e se fece il suo servizio militare verso il 31. Nacque, ci dice una magrissima biografia, di valore molto discusso, di famiglia equestre; e senso di nobiltà emana dalla sua poesia. Ricorda egli la ricchezza degli avi (Eleg. I, 1, 19 segg.; 41 sgg.) e vi oppone la sua povertà presente.
Povertà relativa, se Orazio, in una graziosa epistola poetica, rivolta con grande probabilità a lui (Epist., I, 4), gli dice che gli dei l'hanno fatto ricco. Probabilmente egli pure soffrì delle confische delle terre distribuite ai veterani dopo la battaglia di Filippi. Certo della guerra gli rimase un ricordo amaro; e almeno, in parte, provenne forse dall'inquietudine dei tempi della sua fanciullezza e dell'adolescenza l'impronta di melanconia a cui diede particolare fascino nei suoi versi. È tra i pochissimi fra gli scrittori antichi che ricordi la madre e la sorella. Ovidio le fa assistere al funerale del poeta. La vita campestre, quegli affetti familiari femminei tra cui crebbe la sua adolescenza, gli amori appassionati di donne amanti, per cui arse e si consumò la giovinezza di T., contribuirono a dare il tono particolare alla sua arte, mite, di una tristezza dolce, pur tra le inquietudini ed i tormenti d'amore. Non fece parte, pare, dei poeti che si accoglievano intorno a Mecenate ed Augusto, e che, come Orazio e Virgilio, sentirono con particolare intensità il fascino dell'ideale civile di quel sovrano, quell'ideale di Roma che Virgilio vede elevarsi in missione di eterna grandezza nella maturità dei tempi. Le sue amicizie letterarie ebbe nel circolo di Messala Corvino, che egli seguì in guerra e lodò nei versi. Circolo più raccolto e più conforme alla sua poesia in ombra d'intimità e amica di tranquillità pacata. Pur tuttavia questo poeta "amico della pace e della quiete", due volte segue Messala in spedizioni di guerra, nell'Aquitania, e nell'Oriente, nel 31 o nel 30, e nel 29.
Nella prima, a Corcira, la malattia lo colse ed egli si sentì presso alla morte, come ci dice in una delle sue più belle elegie (I, 3), così moderna per l'intimità dei ricordi familiari, e dell'amore per Delia. Più che la milizia di guerra l'assoggettò la milizia d'amore. Due donne ed un giovanetto amato appaiono nei suoi versi: Delia, Nemesi, e Marato. Se diversa da Delia e da Nemesi sia la Glicera del cui amore crudele Orazio vuole consolare T. in una sua ode (I, 33), non è possibile stabilire. Delia ci dice Apuleio, era uno pseudonimo per Plania. Pur senza perdere un suo vago mistero di grazia, essa è una delle donne più vive della poesia antica, attraverso alla passione dolente e gentile del poeta. Questa giovane donna, a cui T. diede un nome apollineo di purità e di bellezza, non appartenne alla nobiltà romana, come la Lesbia di Catullo; era una piccola borghese, probabilmente maritata, di una fine bellezza bionda, di cuore mutevole, bramosa di un lusso negatole dalla sua condizione oscura, e pronta a sacrificare ai doni di un amante più ricco l'amore del poeta. L'umiltà di questi sfondi borghesi, di questa casa, ove Delia abita con una vecchia madre compiacente, che chiude un occhio sulle scappate della figlia, e per cui il poeta ha parole non finte d'affetto, dànno una verità, una mestizia e una grazia nuova alla prima poesia d'amore di T., in quella sua dedizione rassegnata e in quella delicatezza con cui cerca di perdonare alla donna che ama e di crearle una gentilezza d'anima che è la bellezza di poesia di quel suo amore infelice. Amore che ha il fuoco tormentoso di una prima passione, e che T., con delicatezza rara nell'amore antico, si illude possa vincere la stessa vecchiezza e la morte. La passione per Delia bene si accorda, per la sua intimità gentile, con quegli sfondi campestri fra cui ama vivere il poeta, incurante della povertà, purché con lui sia la sua Delia. Quest'amore non durò lungamente: delle infedeltà di Delia pare si sia vendicato il poeta con una cortigiana di grande bellezza a cui diede il nome significativo di Nemesi. Ma fu egli stesso vittima della sua vendetta di amore. La nuova donna entrata nella sua vita, non era meno infida di Delia, né meno avida di piacere e di lusso, senza avere quella certa grazia ingenua che il poeta giovane aveva amata nella prima amante. T. pare non si sia liberato più di questo fascino dominatore; il suo secondo amore dovette essere l'ultimo della sua vita, spentasi del resto ancor giovane. Ovidio pone le due donne al letto del poeta nell'ultima sua ora a contendersi l'orgoglio di essere la più amata.
Amore, amicizia, vita campestre, sono le note della poesia di T. Poesia di stretto ambito, ma di una schiettezza e di una intimità piena di fascini eterni. Uno dei caratteri più moderni della poesia di T. è il perdersi nelle cose e nelle persone che egli ama, più ancora, per dir così, che donarsi interamente ad esse. La sua passione d'amore lo prende tutto, per essa è pronto ad obliare sé medesimo: "At iuvet in tota me nihil esse domo". Egli non sente di valere un sol pianto della donna amata: "Non ego sum tanti, ploret ut illa semel". Morrà rassegnato, se potrà, morendo, sentire nella sua la mano di Delia: "Te teneam moriens deficiente manu". Con lo stesso abbandono si è dato alla vita campestre. Il suo amore della campagna non è un puro amore letterario, o un andazzo di tempi raffinati, e neppure nasce da quella sazietà stanca della vita cittadina, che rende non durevoli questi ritiri alla campagna e queste improvvisate vocazioni campestri che Orazio deride in un suo arguto epodo rivolto al fenerator Alfius. T. non è solo l'amante volubile dei campi, ma, per quanto può essere un poeta che è soprattutto artista, è l'uomo dei campi. Non si vergogna di maneggiare la zappa, e di portare a casa in seno un agnello o una capretta stanca di seguire il gregge: "Nec tamen interdum pudeat tenuisse bidentem Aut stimulo tardos increpuisse boves; Non agnamve sinu pigeat fetumve capellae Desertum oblita matre referre domum". E insieme con la campagna ama i suoi costumi, i suoi dei agresti; sentimento che appare in lui più schietto forse che in alcun altro poeta latino. Ma ciò che in un poeta più conta è che questa schiettezza di sensazioni e di sentimenti, questa freschezza di note di anima, non sono espressioni ingenue e un poco approssimative di un poeta, per dir così, primitivo e quasi inconscio della sua arte: T. è tra i poeti latini uno dei più raffinati, se raffinatezza vuol dire possesso sicuro della sua tecnica, conquista di uno stile proprio, consciamente formatosi attraverso a una ricca esperienza artistica. La nitidezza dello stile tibulliano è perfezione di arte che nasconde sé stessa. Non forse altrettanto perfetta è la tecnica della composizione. T. ama la composizione sapiente e un poco artifiziosa dell'arte alessandrina: e quell'affollarsi dei motivi e un certo intrico delle idee e dei trapassi, se giova talora al carattere delle sue elegie, perché esprime un certo vagare dell'anima, sperdentesi nelle proprie sensazioni, il quale ben si accorda con la tonalità del suo spirito, che più si abbandona alle cose e ai sentimenti di quanto non li domini, è pur vero che talvolta non raggiunge quella pienezza di perfezione artistica che dà l'illusione della naturalezza. Purtroppo poi, il non aver compreso quanto questo modo di comporre fosse consono allo spirito di T., produsse l'errore, sempre rinascente, di quei filologi i quali si adoperano, con dannosa insistenza, a porre ordine con trasposizioni là dove il poeta aveva voluto un poetico disordine.
T. diede con il campestre all'elegia una nota sua, e in qualche misura, veramente nuova. Non che la campagna, la bella natura, non sia uno dei motivi dell'arte ellenistica e uno spunto dell'arte romana del tempo; ma in T. la natura non è semplicemente "la bella natura" ellenistica: essa ha fascini tutti proprî di vita e di arte. Non è sfondo ma la stessa vita del poeta, passione dell'anima e conquista di semplicità e di pace. Vi è in questo amore campestre qualcosa di etico e quasi, in una gradazione discreta, di religioso - pur senza pompa di moralizzazione - che ne sgombra la letteratura e dà il senso di una profondità nuova e intimamente latina. Questo poeta delle relazioni irregolari d'amore, amante di donne tanto a lui inferiori, ha un senso antico e castamante latino della famiglia: "Et fetus matrona dabit, natusque parenti Oscula comprensis auribus eripiet, Nec taedebit avum parvo advigilare nepoti Balbaque cum puero dicere verba senem". Il suo idillico non è artifizioso, ma nota di cuore profondo. Non ama la guerra, anzi la depreca; ma l'ha fatta; e questo dà al suo amore della pace un sentimento più sincero, proprio di chi ha conosciuti i pericoli e le inquietudini del guerreggiare. E insieme con la pace, l'amicizia. Il suo affetto per Messala ha tutta la pienezza dell'animo suo che tutto si dona ai suoi sentimenti. L'epitafio che egli compone per sé, quando in terra straniera gli pare di sentire avvicinarsi la morte, non ha minor dedizione dei versi che compose per Delia o per Nemesi: "Hic iacet immiti consumptus morte Tibullus Messallam terra dum sequiturque mari".
Ai caratteri del sentimento ben si accordano quelli della dizione e della metrica. Il suo linguaggio, senza mai essere umile, è puro e schietto. Tutti i migliori intenditori dello stile latino hanno sempre ammirata la finezza della sua espressione linguistica. Non ha la fecondità e la mobilità d'improvvisazione di Ovidio, l'ingegnosità sua compiaciuta e che sente del gioco letterario, e neppure l'arditezza travagliosa e, nella sua artisticità, non di rado oscura e forzata, di Properzio. La stessa mitologia non è in lui un ornamento artistico, come in Ovidio, o pompa erudita, come non di rado in Properzio; i suoi dei non sono solamente numina inscripta Musarum albo, ma vivono, per lo più, nella sua poesia, del vivo sentimento del cuore e del senso religioso della tradizione. Anche l'apparire nelle sue elegie di accenni a fervidi culti dell'Oriente, che in questo periodo di crisi di anime hanno tanto fascino per gli spiriti religiosi, è prova della sincerità del sentimento religioso di T. e della sua aderenza alla realtà presente. La sua semplicità d'anima gli conciliò calde ammirazioni, allo stesso tempo che indusse critici meno fini ad accusarlo di povertà. Ma questa pretesa povertà di T. è, essenzialmente e piuttosto, quella misura e quella schiettezza di rappresentazione, senza forzare il proprio potere espressivo, che è il vero magistero dei classici e di cui da poeti e da critici che amano l'effetto si è dimenticato il segreto.
Né meno dello stile è fine il magistero metrico. Catullo nel distico ha talora durezze un poco eccessive; sebbene l'evitare il levigato dia forza alla sua poesia. Ovidio ha conquistata un'arte musicale del ritmo che diviene monotonia. Properzio sa alternare certe clausole greco-ellenistiche con quelle più consone al verso latino, con molta arte, che però sente talora lo sforzo e la bravura: T. è musicale con finezza e con una varietà discreta che vien da orecchio esercitato, ma sopra tutto da un dono di natura, oltre che da un'educazione sapiente nel magistero dell'arte.
Le poesie di T. ci sono giunte nei codici in un insieme che si usa denominare Corpus Tibullianum, composto di quattro libri nei codici recentiores, tutti di elegie, eccetto la prima poesia del libro IV, poemetto di oltre duecento versi esametri, il Panegirico di Messala, di arte troppo inferiore a quella di T. Né può essere un poemetto scritto alquanto tempo innanzi alle prime elegie che noi abbiamo di lui, giacché la data pare sia da collocarsi con sufficiente sicurezza nel 31 a. C., che è la data probabile delle sue prime elegie, ben superiori a questa esercitazione letteraria, senza animà né vero soffio di poesia. L'autore è sconosciuto; certo appartenne al circolo di Messala, onde fu confuso fra l'eredità letteraria del poeta più caro e più celebre di quel cenacolo d'artisti. Il terzo libro contiene elegie di un poeta che si chiama da sé Ligdamo e che canta una donna di nome Neera. Poesie che sono un piccolo romanzo di intimità appassionata di amore. Il poeta è fidanzato a una fanciulla, col consentimento dei parenti di lei. E a questa pienezza, che egli crede ricambiata, di amore, si abbandona con gioia confidente. Ma la fidanzata gli preferisce un altro, e il poeta cerca di ritrarla a sé con la sua poesia, né sa dimenticarla, né dispera di chiamarla un giorno sposa sua, se pur qualche volta vuol rassegnarsi a non vedere in lei se non una sorella. La data che Ligdamo ci dà della sua nascita (il 43 o il 44 a. C.) non pare possa accordarsi con quella di T. Perciò i critici, ormai concordi, veggono in Ligdamo non uno pseudonimo di T., ma un altro poeta del circolo di Messala la cui opera letteraria fu confusa con quella del nostro. Che fosse un liberto o uno schiavo pensarono alcuni; ma tale non appare dai cenni che dà di sé nelle sue poesie. È dunque un poeta romano della società di Messala che nascose il proprio nome sotto uno pseudonimo. La somiglianza di anima con T. può avere agevolata la confusione. Egli è infatti in qualche modo un T. un poco in minore, ma non senza grazia. Diversa è in qualche misura la sua tecnica metrica. I critici però furono talvolta troppo severi con lui.
Nel quarto libro, dopo il Panegirico di Messala, seguono tre gruppi di poesie; le prime cinque sono, a giudizio dei critici, di T. stesso: una successione di piccoli canti elegiaci scritti in nome di una donna, Sulpicia; con ogni probabilità la figlia di Servio Sulpicio Rufo, che esprime in essi il suo amore per un uomo di condizione inferiore alla sua. Seguono ad esse sei elegie assai brevi, che la critica, dopo il Gruppe, concorda nel considerare scritte da Sulpicia stessa, e che sono dei deliziosi piccoli biglietti d'amore all'amato. Raramente la poesia romana ha avuto accenti così spontanei e appassionati come in questi versi, in cui, non senza ragione, il Gruppe trovò l'espressione del "latino femminile". Il ciclo si chiude con due altre elegie che i critici ritengono ancora tibulliane, di amore ancor esse, calde di passione rovente e dolorosa, per l'abbandono di una donna amata. Anche qui è chiaro che chi raccolse l'eredità poetica di Tibullo è un tardo editore di altri poeti del medesimo gruppo artistico.
Edizioni e commenti: Tibullo ebbe molti editori nel Rinascimento e prima della seconda metà dell'800, fra cui degni di ricordo, G. Scaligero A. Vulpius e Ch. Heyne, che molto fecero per l'interpretazione delle sue poesie, senza però fondare la critica del testo su di una discriminazione scientifica dei migliori manoscritti. Utile e fine il commento del Heyne e quello di L. Dissen. E. Baehrens ha il merito di aver messo in luce due dei codici migliori, ma la sua edizione del 1878 non soddisfa, anche perché troppo abusa di correzioni. Seguono, la buona edizione di E. Hiller del 1885 e quella, ancor migliore, del 1891, che mettono la critica tibulliana su miglior via. Recenti quella di M. Ponchont (1924) della collezione Budé, con traduzione francese, quella di F. W. Levy (1927), edita dal Teubner, di F. Calonghi nel Corpus Paravianum (1928).
Bibl.: Le questioni sollevate dallo studio di T. sono state in parte ricapitolate dal Cartault, in À propos du Corpus Tibullianum, Parigi 1906. Si consultino anche M. Schuster, Tibullstudien, Vienna 1930; K. Witte, Tibull, Erlangen 1924.