TIBERTELLI, Luigi Filippo detto Filippo de Pisis
– Nacque a Ferrara l’11 maggio 1896, terzo dei sette figli del conte Ermanno e di Giuseppina Donini.
Trascorse l’infanzia nell’ambiente isolato e cattolico della nobiltà di provincia, ricevendo la sua prima formazione da precettori privati e dedicandosi presto anche al disegno e alla pittura.
In questi anni fu strettissimo il rapporto, intellettuale e affettivo, con la sorella maggiore Ernesta, che iniziò a chiamarlo de Pisis in riferimento all’antenato di origini pisane Filippo Tibertelli. È già con questo pseudonimo che Luigi si firmò in un suo primo zibaldone privato, dove trovarono spazio le precoci passioni per le scienze naturali e soprattutto per la letteratura, in particolare nei confronti di Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli. Appena adolescente, anticipando un’abitudine che avrebbe mantenuto per tutta la vita, allestì con cura un suo studiolo personale negli ambienti di palazzo Calcagnini, dove la famiglia si era trasferita nel 1904 ospitata dal conte Giovanni Grosoli Pironi. Fu anche grazie al supporto di questo influente amico del padre che il ragazzo entrò presto attivamente in contatto con l’ambiente degli studi di storia ed erudizione locale.
Dopo alcune bocciature al liceo Ariosto di Ferrara, nell’autunno del 1915 conseguì la licenza classica presentandosi da esterno al Minghetti di Bologna. Riformato per nevrastenia ed esonerato così dal servizio militare, s’iscrisse alla facoltà di lettere nel capoluogo emiliano. Qui conobbe Giovanni Cavicchioli e Giuseppe Raimondi, incontrando per la prima volta anche Giorgio Morandi. Entrò presto in contatto con la stampa locale, pubblicando articoli di arte antica e prose letterarie. Nel 1916 autofinanziò poi l’edizione delle sue raccolte Emporio e I canti della Croara, di forte ascendenza pascoliana e con prefazione di Corrado Govoni, seguite l’anno successivo da Il Verbo di Bodhisattva, uno scritto di carattere teosofico pubblicato sotto lo pseudonimo di Maurice Barthelou.
Negli anni della guerra si legò anche ad Alberto Savinio e poi soprattutto a Giorgio De Chirico, entrambi di stanza a Ferrara, dove poco più avanti sarebbe arrivato anche Carlo Carrà. I due fratelli, ospiti abituali nelle sue «camere metafisiche» (Zanotto, 1996, p. 87), rappresentarono una fondamentale occasione di confronto con il mondo delle avanguardie e più in generale della cultura contemporanea, dalla recente esperienza futurista alle nuove tendenze dada. A eccezione però di un interessante quanto isolato nucleo di collages, in questi anni il confronto di de Pisis con la pittura avvenne soprattutto a livello teorico, attraverso la pubblicazione di articoli (tra cui Pensieri per una nuova arte, in Valori Plastici, I (1918), pp. 16-18) e conferenze (Pittura moderna, Ferrara 1919; Anamnesi dell’arte, Ferrara 1920).
All’indomani della partenza dei De Chirico, cui avrebbe dedicato il racconto d’intonazione metafisica Mercoledì 14 novembre 1917 (1918), iniziò a percepire con crescente insofferenza l’ambiente emiliano. Fu così che nel 1920, anno della pubblicazione di Prose e del romanzo autobiografico Il signor Luigi B., s’intensificarono i suoi soggiorni a Roma. Qui divenne amico di Giovanni Comisso e, in marzo, tenne la sua prima personale alla Casa d’arte Bragaglia, senza però alcuna risonanza critica.
Conseguita la laurea in novembre, si trasferì stabilmente nella capitale, in via Monserrato 149. La vita di questi anni romani, segnati da un nuovo contatto con i capolavori del passato e dall’ormai piena coscienza della propria omosessualità, venne descritta in Ver-Vert, una delle diverse raccolte di prose edite solo postume a cura di Bona de Pisis e Sandro Zanotto (Torino 1984). Una volta prese le distanze dagli ambienti della destra cattolica cui era indirizzato dal conte Grosoli, de Pisis s’inserì presto nell’eterogeneo mondo dei caffè e dei salotti intellettuali della città. Iniziò quindi a collaborare con varie riviste e a tenere lezioni all’Accademia dell’Arcadia, ma anche da Bragaglia, il suo principale tramite con il mondo dell’arte contemporanea oltre che editore della Città dalle 100 meraviglie, dedicato a Ferrara e pubblicato nel 1923. Nello stesso anno, in corrispondenza con la morte del padre e per sopravvenute difficoltà economiche, iniziò anche a insegnare accettando alcune supplenze, prima ad Assisi, poi nei pressi di Rieti e infine a Roma.
Nella sequenza di opere del catalogo generale, curato nel 1991 da Giuliano Briganti, si assiste intorno a queste date alla definitiva affermazione della vocazione pittorica dell’artista, fino a quel momento considerata solo accessoria rispetto a quella letteraria e critica. Le sue attenzioni si orientarono verso paesaggi e vedute cittadine, ritratti e alcuni primi nudi di modelli, accolti spesso all’interno della «gabbia d’oro» (Zanotto, 1996, p. 170), com’era solito chiamare il suo atelier romano. Già in questi anni fu però particolarmente fitto il confronto con la natura morta, in lavori spesso riconducibili all’influenza di Armando Spadini e caratterizzati da una pittura stesa in larghe campiture e dal disegno netto e conchiuso. Opere che egli stesso avrebbe in seguito definito «un po’ secche» (Note sulla mia pittura, in Gazzetta del popolo, 20 gennaio 1941, ora in F. de Pisis, Confessioni dell’artista, Bologna 1983, p. 72), ma che rivelano anche alcune prime suggestioni vagamente cézanniane e una certa attenzione per la trascorsa esperienza metafisica. Non mancarono poi casi, come quello di Natura morta con nudino e vino rosso (1924), in cui la pennellata iniziò a farsi più libera e la sintassi compositiva meno prudentemente sorvegliata.
Parte di questi dipinti fu acquistata dai coniugi Angelo e Olga Signorelli nel novembre del 1924, in occasione di una nuova mostra allestita nel ridotto del teatro Nazionale. Pochi mesi più tardi, alla III Biennale romana, de Pisis avrebbe esposto Cibi agresti e Natura morta nella stessa sala dell’amico De Chirico, come lui prossimo a lasciare la città.
Nella primavera del 1925 de Pisis si recò infatti per la prima volta a Parigi, dove entrò inizialmente in contatto soprattutto con l’ambiente degli artisti russi e italiani, avvicinandosi in particolare al poeta Marino Moretti. Dopo una prima mostra in giugno alla Galerie Carmine, rientrò per alcuni mesi in Italia, trascorrendo il consueto soggiorno estivo in Cadore con la madre. Nel gennaio del 1926 tenne una personale presentata da Carrà alla saletta Lidel di Milano, seguita dalla partecipazione con Interno tragico, Campagna ferrarese e Campagna del suburbio alla I Mostra del Novecento italiano. Malgrado una certa distanza stilistica dal nucleo milanese, avrebbe poi continuato a esporre con il gruppo di Margherita Sarfatti fino all’inizio degli anni Trenta. Qualche mese più tardi, nella primavera del 1926, prese invece parte per la prima volta anche alla Biennale di Venezia con una Natura morta.
Tornato nel frattempo in Francia, iniziò a lavorare come conferenziere e corrispondente per molte testate italiane, in coincidenza anche con il crescente successo dei propri dipinti, esposti in primavera alla galleria Au Sacre du Printemps, con presentazione di De Chirico, e poi all’Université Mercereau. «Credo che ricorderò questi giorni fra i più beati della mia vita» (Zanotto, 1996, p. 214), scrisse in quei mesi all’amica ferrarese Nina Vendeghini. Si trattò in effetti di un momento particolarmente felice, culminato con il trasferimento nel vecchio studio di De Chirico in rue Bonaparte. Unica nota negativa furono le polemiche scatenate dall’incauta intervista Avec M. de Pisis qui a préféré la France à l’Italie, rilasciata nel novembre del 1927 alla rivista Comoedia.
Specie tramite l’amicizia con Mario Tozzi, alla fine del decennio si avvicinò sempre di più anche agli italiani dell’École de Paris, con cui avrebbe esposto frequentemente in Francia (già all’Escalier nel 1928 e alle gallerie Zak e Bonaparte nel 1929) e in Italia (in particolare alle successive Biennali veneziane e alla galleria Milano nel 1930). Negli ultimi mesi del 1928 Waldemar George, tra i maggiori sostenitori de Les italiens, curò poi la prima monografia dell’artista, sottolineando soprattutto la ricchezza cromatica dei lavori più recenti, messi in relazione con la pittura impressionista e con la grande tradizione veneta: una lettura che negli anni successivi avrebbe goduto di fortuna pressoché ininterrotta.
Che si tratti di nature morte, delle vedute dipinte lungo i boulevards, o dei paesaggi realizzati soprattutto nei soggiorni estivi trascorsi a Cortina, Cannes e poi dal fratello Piero in Guascogna, ci si trova infatti di fronte a opere che coniugano un’inedita animazione della superficie pittorica con una pennellata corposa, eppure già più libera e mossa rispetto al periodo romano: un linguaggio figurativo ricco e originale, che riflette le predilezioni dell’artista nei confronti della pittura secentesca e di Giambattista Tiepolo, ma per cui si rivelano cruciali anche la nuova conoscenza e la personale rielaborazione della moderna tradizione francese, in una linea che va da Eugène Delacroix a Édouard Manet, fino alle più recenti ricerche postimpressioniste d’inizio Novecento. Pochi anni dopo, su Dedalo, Cesare Brandi (1932) ne avrebbe sottolineato la «felicità cromatica», precisando però come si trattasse di «un’arte di evocazione, di ricordo e non di mimesi» (pp. 391, 395). Sulla stessa linea Gino Severini (1932), presentando i diciassette dipinti esposti alla Biennale del 1932 (per lo più nature morte e vedute cittadine), vi avrebbe rintracciato la stessa «spigliatezza degli impressionisti», stemperata però da un «tono locale sapientemente e sensibilmente contrastato» (p. 103).
In questi primi anni parigini de Pisis iniziò a confrontarsi sempre più frequentemente con una delle maggiori costanti della sua intera produzione: il nudo maschile, tanto in pittura, con opere come il Piccolo Bacco (1928), quanto soprattutto in disegni e acquerelli. Corpi giovanili resi con un tratto sintetico e corsivo, spesso in posizioni di piacevole abbandono o esplicitamente erotiche, che riflettono l’immediato impulso emotivo e la partecipazione affettuosa con cui viene registrato il preciso attimo dell’incontro con il modello. A questa produzione affiancò il lavoro sulle nature morte marine, altro genere di grande fortuna critica e collezionistica. Si tratta di dipinti, come Natura morta con scampi (1926), in cui l’atmosfera di spaesamento e l’instabile equilibrio nell’orchestrazione spaziale tra oggetti in primo piano e sfondo suggeriscono una nuova riflessione, più matura e personale, intorno alla pittura metafisica e alle più recenti suggestioni surrealiste. Sull’argomento il pittore sarebbe ritornato con particolare attenzione ancora con l’articolo La cosiddetta ‘arte metafisica’, pubblicato nel 1938 su Emporium (n. 11, pp. 257-265), tentando di rivendicare un ruolo di precursore e protagonista al fianco di De Chirico.
Gli anni Trenta avrebbero segnato la sua definitiva affermazione in Italia e in Francia, accompagnata dalla costante partecipazione a collettive d’arte italiana allestite in tutta Europa e presto – grazie a Dario Sabatello e Libero De Libero – anche negli Stati Uniti.
Dopo la sofferta morte della madre nel settembre del 1929, tornato a Parigi, de Pisis si stabilì definitivamente in un appartamento in rue Servandoni 7, che presto adornò di tutti gli oggetti di quella sorta di Wunderkammer personale che aveva cominciato ad allestire fin dalla gioventù. Qui avrebbe vissuto per i dieci anni successivi, alternando periodi di serenità a improvvise crisi, spesso causate da disturbi nervosi o dalle minacce dei propri modelli e amanti che chiedevano denaro. Fu però soprattutto un periodo d’intensa vita mondana, trascorso in stretto contatto con molte delle figure centrali della cultura parigina del tempo.
Già nelle prime settimane del 1931 iniziarono a moltiplicarsi le occasioni di visibilità anche in Italia: le personali alla galleria Milano e alla Galleria di Roma, la presenza di cinque opere alla I Quadriennale romana e la prima monografia italiana per Hoepli, curata da Sergio Solmi e riedita nel 1941 e nel 1946. Lo stesso de Pisis pochi mesi più tardi pubblicò due interessanti interventi – tra i primi dei molti dedicati alla propria pittura negli anni successivi – sulle riviste L’Arte e Il Selvaggio, descrivendo il suo lavoro come mosso da motivazioni poetiche e letterarie, con esiti che «ancor prima di un loro valore pittorico e costruttivo, ne debbono avere per me uno lirico e interiore» (F. de Pisis, La pagina dell’artista. Confessioni, in L’Arte, n.s., II (1931), p. 232): posizioni legate a un’idea di narrazione intimamente coinvolta, molto distanti dalla lettura puramente formale che a queste date, specie per un genere come la natura morta, andava affermandosi in Italia.
Negli anni seguenti tenne ancora diverse personali tra la galleria Milano (1932, 1933), la galleria Arduini di Roma (1933), palazzo Ferroni a Firenze (1933) e la galleria Rotta di Genova (1935). Continuò a esporre senza soluzione di continuità anche a Parigi: alla Galerie des Quatre Saisons e alla Jacques Bonjean nel 1931, alla Jeune Europe nel 1932 e, nello stesso anno, alla collettiva «Artistes italiens modernes» alla galleria Bernheim-Jeune. Nel 1934 fu invece presentata alla Galerie des Quatre Chemins la mostra «Fleurs de De Pisis», dedicata specificatamente ai quadri di fiori, uno dei temi più frequentati dall’artista. Si tratta di opere come il Gladiolo fulminato (1930), caratterizzate da una felicità sensuale e tutta manetiana della pennellata, il cui spessore arriva in alcuni casi a coincidere fisicamente con il rilievo dei singoli petali e dove spesso la materia pittorica sembra quasi trascendere liricamente sul piano del puro colore.
Nella primavera del 1935, dopo una prima breve visita risalente a due anni prima, de Pisis soggiornò per alcuni mesi a Londra. Qui poté ammirare i paesaggi di William Turner alla National Gallery e iniziò a frequentare l’ambiente della Zwemmer Gallery, dove in maggio tenne una propria personale. Per le strade londinesi, attirando come sempre la curiosità dei passanti, realizzò numerose vedute cittadine: una tappa fondamentale nella direzione di quella nervosa frammentazione visiva, resa per continui disturbi pittorici, tipica dei suoi paesaggi di fine decennio. La concitazione stenografica di queste opere sarebbe poi andata attenuandosi solo nel corso degli anni Quaranta, impreziosita da nuove suggestioni rintracciate nelle vedute veneziane di Francesco Guardi.
Sempre nel 1935 partecipò alla collettiva «L’art italien des XIXe e XXe siècles» al Jeu de Paume, a Parigi, e poi anche alla II Quadriennale nazionale, dove espose diciannove dipinti, tra cui Paesaggio in Guascogna, Natura morta con ghiandaia e Figura in un interno chiaro. La sala personale dell’artista all’esposizione romana non mancò però di suscitare in Italia alcune riserve, tese soprattutto a criticare una certa facilità di esecuzione rintracciata nei dipinti più recenti. Nei lavori degli anni Trenta, anche rispetto a quelli dell’inizio del soggiorno parigino, emergono ulteriormente un apparente disinteresse per i legamenti sintattici e compositivi interni all’opera, la sospesa instabilità nel rapporto tra oggetti e piani di appoggio, una tessitura pittorica epidermica e vibratile che non di rado lascia scoperta parte della tela. Nella monografia dedicata al pittore nel 1937, il critico Paul Fierens avrebbe intelligentemente parlato di una progressiva maturazione di de Pisis verso un’espressività pittorica sempre più spoglia ed essenziale, ma al contempo anche maggiormente sentita ed efficace.
Non si era spenta, intanto, neanche l’originale vena poetica dell’artista che, se all’inizio del soggiorno parigino aveva lavorato soprattutto alle Memorie del marchesino pittore, altro testo di vaga ispirazione autobiografica edito solo postumo (a cura di B. de Pisis - S. Zanotto, Torino 1989), nella seconda metà degli anni Trenta riprese a pubblicare su diversi periodici alcune liriche che anticiparono le due raccolte Poesie, edite rispettivamente nel 1939 e nel 1942.
Poco prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, nell’estate del 1939 de Pisis lasciò Parigi, stabilendosi presto a Milano, prima all’hotel Vittoria e poi in un appartamento in via Rugabella 11, a pochi passi da Marino Marini, Aldo Sinisgalli e Domenico Cantatore. Malgrado le prime avvisaglie della guerra e alcune accuse legate alla sua omosessualità, potenzialmente molto pericolose negli ultimi anni di regime, quello del ritorno in Italia fu soprattutto un momento di serenità e crescente successo.
Nello stesso 1939, dopo una personale alla galleria Barbaroux di Milano e dopo aver esposto Composizione, Notte di luna e Paese di Guascogna alla III Quadriennale romana, de Pisis ottenne il secondo posto al I premio Bergamo con La chiesa di Cortina. Alla fine dell’anno fu poi ufficialmente accettata la sua donazione di dodici dipinti alla Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, subito seguita da un articolo di Giuseppe Raimondi (1939-1940) pubblicato su Le Arti. Tra le opere romane erano anche due ritratti, un genere con cui de Pisis riprese spesso a confrontarsi proprio in questi anni, con una particolare attenzione, condivisa con le prove degli esordi, per la peculiare espressività di alcune figure di anziani e derelitti, come quella del Vecchio cadorino (1942).
Negli anni successivi allestì numerose personali in tutta Italia, riscuotendo ampi consensi critici. Alla Mostra delle collezioni d’arte contemporanea, inaugurata nell’estate del 1941 a Cortina, la sua produzione fu tra le più rappresentate anche nelle raccolte dei principali collezionisti italiani: da Marco Rimoldi a Carlo Cardazzo ad Alberto Della Ragione. L’anno seguente, quello della sala personale con diciotto dipinti alla Biennale, fu pubblicata una nuova monografia curata da Cavicchioli (la sua prima risaliva infatti al 1932), mentre Giulio Carlo Argan, su Primato (1942), definì il lavoro di de Pisis come una «felice eccezione», la più netta «affermazione di un diritto della fantasia […] soltanto apparentemente istintiva, in un tempo di severe meditazioni formali» (p. 47).
Il soggiorno milanese si concluse però abbastanza presto. Nell’agosto del 1943 l’appartamento di via Rugabella fu colpito dai bombardamenti e de Pisis si trasferì a Venezia, prima affittando su consiglio di Cardazzo un grande studio in campo San Barnaba, e poi acquistando una casa in San Sebastiano. Anche durante questi anni non s’interruppe la sua attività espositiva. Inaugurò una personale alla galleria del Cavallino (1943), prese parte alla IV Quadriennale romana (1943) e poi anche all’Esposizione d’arte contemporanea della Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea (1944-45). In particolare poi, nell’ambiente della Laguna, i suoi lavori conobbero un successo di vendite senza precedenti. Ritenendo infatti che la città sarebbe stata risparmiata dagli attacchi aerei, un folto gruppo di intellettuali, ma soprattutto di industriali e ricchi proprietari vi aveva cercato rifugio, dando vita a un fiorente mercato artistico e librario. In questo clima vennero presto commissionate al pittore anche diverse serie di litografie per alcuni progetti editoriali di lusso, tra cui Soggiorno a Venezia di Marcel Proust per le Edizioni del Cavallino (1945) e i Carmi di Catullo per Hoepli (1945).
Dopo la fine del conflitto l’artista rimase a Venezia, dove fu raggiunto dalla giovane nipote Bona. In questi anni si accentuò anche nell’immaginario comune l’accattivante figura del ‘personaggio de Pisis’, dall’abbigliamento stravagante e con l’inseparabile pappagallo Cocò sulla spalla, che tanto avrebbe attratto certa stampa internazionale. Nel mutato panorama culturale del dopoguerra, però, il sostanziale disimpegno politico della sua pittura, del tutto estranea alla discussione intorno al neorealismo, fu anche al centro di alcune polemiche da parte della critica vicina al PCI, che in essa condannò un certo gusto letterario e decadente. Si trattò comunque di critiche che non compromisero la frequente presenza di sue opere (a fianco delle quali cominciava intanto a svilupparsi un vasto mercato di falsi) in numerose esposizioni d’arte italiana in tutto il mondo, né tantomeno il moltiplicarsi di mostre personali in Italia, culminate con la grande antologica organizzata da Raimondi al Castello Estense di Ferrara nel 1951.
Alla fine del 1947, dopo la pubblicazione a Milano del volume Prose e articoli, l’artista partì con Bona per Parigi, dove ritrovò gli amici Leonor Fini e André de Mandiargues. In seguito a un peggioramento delle proprie condizioni fisiche, fu però costretto a rientrare in Italia già nella primavera del 1948. Alla Biennale di quell’anno, la prima dell’Italia liberata, gli venne allestita da Rodolfo Pallucchini una sala personale con trenta opere. Il primo premio fu tuttavia assegnato a Giorgio Morandi.
Pochi mesi più tardi i medici diagnosticarono a de Pisis una grave forma di arteriosclerosi e, di lì a poco, egli venne trasferito alla clinica Villa fiorita di Brugherio, nei pressi di Monza. Qui, almeno fino al 1953, continuò scrivere e a lavorare a opere come Natura morta con calamaio (1952), segnate da un più attenuato lirismo, da una progressiva semplificazione e diluizione della pennellata e, soprattutto, da una nuova riflessione intorno al problema della trasparenza delle velature pittoriche e del colore bianco.
Mentre l’aggravarsi della malattia lo conduceva a un progressivo isolamento, interrotto negli ultimi anni solo dalle visite in clinica di amici e familiari, vennero pubblicati numerosi studi, articoli e scritti a lui dedicati. Tra questi, il saggio Appunti per una storia di de Pisis di Francesco Arcangeli, pubblicato su Paragone (1951), la monografia curata da Raimondi (1952) e la dettagliata rievocazione fornita da Comisso nel Mio sodalizio con de Pisis (1954).
Morì a Milano, nella casa del fratello Francesco, la mattina del 2 aprile 1956. Due mesi più tardi, alla Biennale di Venezia, sarebbe stata organizzata da Arcangeli, Umbro Apollonio e Marco Valsecchi un’ampia retrospettiva dedicata alla sua opera, con sessantacinque dipinti dal 1916 al 1950.
Fonti e Bibl.: Le maggiori raccolte di documentazione archivistica su de Pisis sono conservate dall’Associazione per Filippo de Pisis, Milano.
Per una bibliografia generale: G. Waldemar, Filippo de Pisis, Paris 1928; S. Solmi, De Pisis, Milano 1931; C. Brandi, Il pittore Filippo de Pisis, in Dedalo, XII (1932), 2, pp. 390-407; G. Cavicchioli, De Pisis, Venezia 1932; G. Severini, Mostra degli italiani di Parigi, in Catalogo della XVIII Esposizione Biennale internazionale d’arte, Venezia 1932, pp. 101-103; P. Fierens, De Pisis, Paris-Milan 1937; G. Raimondi, Dodici dipinti di Filippo de Pisis..., in Le Arti, II (1939-1940), 2, pp. 75-78; G.C. Argan, Pittura di De Pisis, in Primato, 15 gennaio 1942, p. 47; G. Cavicchioli, Filippo de Pisis, Firenze 1942; F. Arcangeli, Appunti per una storia di De Pisis, in Paragone, II (1951), 19, pp. 27-46; G. Raimondi, F. de P., Firenze 1952; G. Comisso, Mio sodalizio con De Pisis, Milano 1954; G. Ballo, Filippo de Pisis, Milano 1956; M. Bontempelli et al., Ricordo di De Pisis, Roma 1956; P. Tibertelli, Mio fratello De Pisis, Milano, 1957; G. Marchiori, De Pisis, Milano 1963; L. Cavallo, Filippo de Pisis, Milano 1968; L’opera grafica di Filippo de Pisis, a cura di M. Malabotta, Milano 1969; G. Testori, Omaggio a de Pisis, Milano 1983; Catalogo della Galleria d’arte moderna Mario Rimoldi, a cura di L. Magagnato - S. Zanotto, Vicenza 1983; N. Naldini, De Pisis. Vita solitaria di un poeta pittore, Torino 1991; De Pisis. Catalogo generale, I-II, a cura di G. Briganti, Milano 1991; S. Zanotto, De Pisis ogni giorno, Vicenza 1996; Filippo de Pisis. Nature morte (catal., Campione d’Italia), a cura di S. Crespi, Milano 1996; Filippo de Pisis. La figura umana (catal., Dronero), a cura di L. Caramel - C. Gian Ferrari, Caraglio 2002; De Pisis a Ferrara. Opere nelle collezioni del Museo d’arte moderna e contemporanea Filippo de Pisis (catal.), a cura di M.L. Pacelli, Ferrara 2006.