Gracco, Tiberio Sempronio
Tribuno della plebe (n. 162-m. 133 a. C.). Figlio dell’omonimo console del 177 e del 163, e di Cornelia, figlia di Scipione l’Africano; fratello maggiore di Gaio Sempronio. Fu presente con il cognato Scipione Emiliano alla caduta di Cartagine e si distinse nell’attacco finale. Nel 137 fu questore del console Ostilio Mancino nella guerra numantina e quando l’esercito cadde nelle mani del nemico si dovette a G. se si giunse alla liberazione con un trattato che fu però rinnegato dal Senato. Quando (133) fu eletto tribuno della plebe, egli aveva un preciso programma politico, mirante a risolvere la crisi di cui soffriva lo Stato romano dopo la sua rapida espansione mediterranea. G. propose, con alcune attenuazioni, il rinnovamento di una delle leggi attribuite dalla tradizione a Gaio Licinio Stolone e L. Sestio, per cui le parti di ager publicus in possesso di privati eccedenti i 500 iugeri (750 per chi avesse un figlio, 1000 per chi ne avesse due o più) venivano rivendicate dallo Stato (che ne era il proprietario) e distribuite in lotti ai cittadini poveri. L’aristocrazia si servì del collega di Tiberio, Ottavio, per porre il veto alla discussione della proposta. Tiberio, dopo aver inutilmente cercato di venire a un accordo, propose ai comizi tributi la destituzione del collega, accusandolo di abusare della carica. Destituito Ottavio, fu votata la legge agraria e l’esecuzione fu affidata ai triumviri agris iudicandis adsignandis (Tiberio e Caio Gracco, e il suocero Appio Claudio): Tiberio propose che con le ricchezze lasciate da Attalo III di Pergamo in eredità al popolo romano si finanziasse l’attuazione della legge. Quando egli, per assicurare tale attuazione, aspirò al tribunato per l’anno seguente, ne nacque l’accusa che volesse stabilire un regime tirannico. Alle elezioni, Tiberio, ostacolato in più modi dagli impedimenti giuridici sollevatigli contro dagli avversari, finì con lo scatenare i suoi seguaci. Rimase padrone dell’area del tempio di Giove Capitolino, ma i senatori adunati in quello di Fides, accusandolo di aspirare alla corona, guidati da Publio Scipione Nasica, seguiti da cavalieri, schiavi e clienti, piombarono nel foro e sgominarono i partigiani di Gracco. Questi fu ucciso a bastonate e gettato nel Tevere.