CARAFA, Tiberio
Nacque a Chiusano il 27 genn. 1669 da Fabrizio principe di Chiusano e da Beatrice della Leonessa dei duchi di Ceppaloni. Dopo aver ricevuto una prima educazione da maestri del luogo, il C. si trasferì a Napoli, dove si dedicò all'apprendimento delle cosidette arti cavalleresche. In giovinezza, secondo quanto egli stesso afferma nelle sue Memorie, manifestò molti degli atteggiamenti tenuti da gran parte della nobiltà del tempo come "la vanagloria e la sciocca insussistente stima propria, il disprezzo altrui, la pronta vendetta, e per l'ingiusti capricci la troppa prodigalità della propria vita... [e] l'ira" (Memorie, I, f. 3). Nell'anno 1692 il C. sposò Giovanna Carafa dei duchi di Forlì, vedova del duca di Capracotta e, successivamente, del duca di Campolieto. Il matrimonio era stato voluto dal padre del C., interessato ad assicurare al figlio la pingue eredità del Campolieto. Questi, legato da una lontana parentela ai principi di Chiusano, li aveva lasciati eredi dei suoi feudi, vincolando, tuttavia, l'usufrutto di questi e i beni burgensatici a favore della moglie.
Il progetto matrimoniale del principe Fabrizio incontrava, però, la resistenza di ambedue gli interessati a causa sia della notevole differenza di età - la duchessa di Campolieto aveva trentacinque anni, il C. ventitré - sia di altri interessi sentimentali che allora tenevano impegnato il C., il quale, essendosi anche "invogliato della gloria militare" (ibid., I, f. 35), aspirava ad entrare nell'esercito. Il matrimonio non era, peraltro, ben visto, per ovvi motivi di interesse, neppure dai fratelli della duchessa e dal figlio avuto dal duca di Capracotta. Alla fine il C. si lasciò convincere soprattutto da motivi economici, poiché il patrimonio dei Chiusano negli ultimi anni era ridotto in condizioni assai precarie. Una volta superate anche le incertezze della duchessa di Campolieto, il matrimonio fa celebrato a Chiusano il 10 maggio 1692.
Con la moglie il C. si trasferì a Campolieto, dove si interessò soprattutto della amministrazione dei suoi beni, senza, peraltro, tralasciare di dedicarsi agli studi, in particolar modo a quello della Sacra Scrittura.
Gli ultimi anni del sec. XVII, durante i quali giunse a maturazione il problema della successione spagnola, videro determinarsi a Napoli un certo spirito di irrequietezza di cui si faceva portatore soprattutto un gruppo di giovani nobili. Alla base dell'agitazione che andava prendendo piede in una parte dell'aristocrazia vi era "l'insofferenza feudale per il controllo regio persistente anche in un periodo di difficoltà per la Monarchia, il timore che tale controllo potesse diventare più rigido se sul trono napoletano si fosse assisa una dinastia di più viva energia assolutistica, una esaltazione di tipo letterario e dottrinario" (Galasso, p. 526).
Il C., che, insieme con Francesco Spinelli, duca di Castelluccia, rappresentava all'interno del gruppo la nobiltà più giovane e più impegnata politicamente e culturalmente, può essere considerato l'ideologo del gruppo stesso. I valori cui si ispirava non erano, però, quelli della nuova cultura sviluppatasi a Napoli nella seconda metà del '600.
L'interesse dimostrato dal C. nelle sue Memorie per le polemiche religiose del tempo, le affermazioni giurisdizionalistiche, la simpatia per le filosofie moderne non vanno intese, infatti, come espressione di un impulso culturale rinnovatore, ma piuttosto di precisi interessi politici. E che la dimensione di fondo del C. fosse sostantata di tradizionalismo sembra evidente anche da certe sue scelte, come quella del gesuita Tommaso Strozzi a sua guida spirituale o di s. Agostino come modello morale. Il richiamo alla tradizione anticlericale della aristocrazia napoletana era, dunque, strumentale sia in opposizione alle tendenze filofrancesi in materia di successione sul trono spagnolo - tendenze che avevano il loro centro nella Curia e nel cardinale Cantelmo - sia in rapporto alla condizione dell'aristocrazia stessa, che poteva vantare, dal momento del pieno consolidamento dell'assolutismo regio nel Regno in poi, come unico motivo di affermazione politica solo la propria tradizione anticuriale. L'importanza del C. nel gruppo, e nel movimento cui esso diede luogo, è legata, tra l'altro, all'elaborazione, compiuta in tempi molto brevi, di un programma e di una linea d'azione precisi.
Nell'estate del 1699 si ebbero i primi scambi di idee circa la possibilità di una comune azione aristocratica da avviare in previsione dell'estinguersi della linea asburgica madrilena. Gli obiettivi erano: l'assunzione del potere da parte del gruppo alla morte del re e il trasferimento di esso agli eletti di Napoli per conseguire o l'autonomia del Regno o la possibilità di sceglierne il sovrano. Fu deciso che, per procurarsi le informazioni e gli aiuti necessari, il C. si sarebbe recato a Venezia. I contatti che egli vi ebbe, nel 1700, non furono particolarmente fruttuosi, in quanto gli esponenti politici veneziani non vollero spingersi al di là di generiche assicurazioni di appoggio. Ritornato nel Regno, il C., dopo qualche breve soggiorno a Benevento presso il principe di Riccia; anch'egli appartenente al partito patrizio, e a Napoli, si ritirò a Campolieto, dove riuscì ad attirare dalla sua parte un considerevole numero di nobili molisani. Alla morte di Carlo II di Spagna il programma del "partito patrizio" si rivelò, tuttavia, irrealizzabile: l'ascesa di Filippo di Borbone al trono spagnolo vanificava ogni possibilità di rendere Napoli autonoma da Madrid e di rivendicare una iniziativa napoletana nello scegliere il proprio sovrano. Fu giocoforza, a tal punto, mutare gli orientamenti del movimento e cercare di dargli uno sbocco inserendolo nella contesa tra Borboni e Asburgo. Ci si proponeva, sfruttando la reazione antifrancese e il sentimento dinastico dei Napoletani, di giungere alla acclamazione di un principe austriaco come re di Napoli. Su questa base il C. svolse un'azione di contatto con gli ambienti popolari, attraverso la mediazione anche del ben noto padre Torres.
Frattanto il "partito" avanzava a Vienna le sue richieste (fra gli estensori di queste fu il C. stesso) a tutto vantaggio della grande aristocrazia feudale. A promuovere il potere politico di quest'ultima avrebbe dovuto prestarsi la restaurazione del Parlamento del Regno e dei sette Grandi Uffici e la creazione di un Consiglio di Stato dotato di un largo potere di controllo in campo legislativo. In tal modo si sarebbe indebolito il potere assoluto della monarchia e, riducendo l'importanza degli organi amministrativi, si sarebbe privato il ceto civile di alcuni tra i principali strumenti della sua affermazione. A proteggere gli interessi economici dell'aristocrazia mirava, d'altra parte, la richiesta di liberalizzare il commercio estero e di ridurre i dazi gravanti sulle merci, dato che i baroni erano i principali produttori dei generi agricoli che alimentavano l'esportazione. Le richieste, infine, di abolizione del S. Uffizio e di assegnazione di tutti i benefici ecclesiastici ai regnicoli, nella misura in cui si ricollegano alla tradizione anticuriale dell'aristocrazia, confermano la fisionomia aristocratico-feudale del partito.
Per quanto riguarda la dinamica della rivolta, i congiurati si uniformarono al parere del Carafa. Questi, mentre si era dichiarato contrario all'assassinio del viceré Medinacoeli, aveva sostenuto l'opportunità di dare inizio all'impresa con l'occupazione del Castelnuovo. Fallito questo disegno, il 22 sett. 1701, in seguito alla denunzia che ne era stata fatta al viceré, i congiurati decisero, ancora una volta su sollecitazione del C., di non rinviare l'azione, ma di dare il segnale della rivolta nella stessa notte. L'iniziativa ebbe immediata presa sulla plebe: durante la notte e il giorno seguente una gran folla prese d'assalto le carceri della città e devastò i tribunali, ma, venendo a mancare la partecipazione dei nobili, della borghesia e degli strati popolari più qualificati, una prospettiva di successo si presentava problematica. I ribelli riuscirono, tuttavia, a ridurre sotto il loro controllo alcuni importanti punti strategici nel cuore della città, contro cui fu diretta la controffensiva delle forze governative. Il C., insieme allo zio Girolamo Malizia, comandava il presidio asserragliato nel campanile di S. Chiara, ma la resistenza ebbe breve durata ed egli fu costretto a fuggire con una trentina di uomini. Con ciò venne meno una delle più importanti posizioni dei ribelli e ogni possibilità di successo fu definitivamente pregiudicata. Unitosi al principe di Macchia e a Giuseppe Capece, il C. raggiunse dapprima il convento di S. Pietro a Cesarano e poi quello dell'Incoronata nei pressi di Montevergine. Essendo stato scoperto il rifugio e sbarrata la strada dagli uomini del preside di Montefusco, il C. e il Macchia riuscirono, tuttavia, a salvarsi per l'aiuto di un prete che li condusse a Summonte. Il C. passò, poi, a Chiusano e, quindi, si recò in Puglia per imbarcarsi, insieme con il Macchia, alla volta di Venezia. Di qui il C., essendo stata accolta la sua richiesta, si trasferì presso l'esercito imperiale di stanza in Italia, comandato da Eugenio di Savoia, alle cui dipendenze partecipò alla presa di Cremona, all'assalto di Mantova e alla battaglia di Luzzara.
Nel novembre 1702 si recò a Vienna dove, mentre non tralasciava di dedicarsi ad alcune avventure amorose, svolse una azione mediatrice per comporre i contrasti da cui erano divisi gli esuli napoletani. La stima che il C. si era acquistato presso i ministri, l'esercito e la stessa famiglia imperiale e quella di cui godeva presso i suoi compatrioti gli permisero di ottenere, per qualche tempo, un miglioramento della situazione, non tale, tuttavia, da impedire che egli stesso si battesse in duello col duca di Telese. Alla fine del 1703 si recò al seguito di Eugenio di Savoia in Ungheria, dove si erano avute sommosse. Tornato a Vienna, si dedicò nuovamente alla vita mondana ed alle avventure galanti. Nel settembre 1704, postosi al seguito dell'arciduca Giuseppe, prese parte all'assedio di Landau.
Infine, nel luglio del 1707, il C. poté tornare con l'esercito austriaco del Daun a Napoli, dove subito dovette adoperarsi per frenare il popolo che si era abbandonato ad atti di violenza. La decisione dei deputati del Buon Governo, che tennero il controllo della città nei giorni successivi all'entrata delle truppe austriache in Napoli, di sciogliere la milizia urbana, perché si temeva che potesse essere causa di disordini, fu giudicata molto negativamente dal Carafa. Mentre per gli eletti delle deputazioni cittadine, che rappresentavano l'unione dell'aristocrazia di "seggio" con il mondo dei forensi, degli arrendatori e dei mercanti, la principale preoccupazione era quella di evitare una rivolta popolare, che poteva essere favorita dalle milizie urbane, per il C., invece, rappresentante del baronaggio provinciale, queste ultime erano elemento essenziale di un Regno indipendente e di una politica autonomistica che permettesse di restaurare in tutte le sue antiche prerogative l'autorità baronale. Il 16 luglio 1707 il C. venne inviato a Barcellona presso Carlo d'Asburgo per dargli notizia dell'avvenuta conquista del Regno e per esporgli e le condizioni in cui esso versava e le disposizioni date da Vienna. Giunto a destinazione, dopo un viaggio alquanto travagliato che lo costrinse a fermarsi presso Tolone, il C. non mancò di esporre a Carlo la propria sfiducia nell'impresa spagnola, mentre era necessario provvedere a riportare la calma nel Regno di Napoli e consolidarne la conquista.
Dopo il colloquio, il C. stese un Parere (cfr. Conti) su ciò che si riteneva "vantaggioso e convenevole alla sua Patria" e che si può considerare la summa delle richieste nobiliari. I quattro punti fondamentali in cui esse si compendiavano erano la riforma legislativa e un nuovo codice, un esercito reclutato esclusivamente tra Napoletani, il rafforzamento della nobiltà più antica, il miglioramento della cultura e della tecnica attraverso la creazione di accademie e di altre istituzioni ritenute tipiche di uno Stato nazionale. Il Parere sembra proporre, in sostanza, a Carlo d'Asburgo una sorta di alleanza con la nobiltà feudale, e che si sarebbe risolta in uno stato di tutela che l'aristocrazia avrebbe assunto nei suoi confronti, o meglio ancora, tramontata la prospettiva del re locale, in una delegazione di potere all'aristocrazia stessa" (Conti, p. 59). La proposta di "riporre la napolitana nobiltà negli antichi suoi diritti" è certo la "più indicativa delle dimensioni di classe del Parere", ma va, tuttavia, rilevato come in essa, o meglio negli strumenti indicati come necessari alla sua realizzazione, si esprimano delle prospettive più ristrette rispetto al programma dei congiurati del 1701. Ora il C. non parla più di nuovi organismi di governo, tipo Consiglio di Stato, ma riduce la riforma istituzionale ad un mutamento nella struttura sociale del Consiglio collaterale. Se ciò si può intendere come espressione di una certa "volontà compromissoria", dato che ci si vuole mantenere all'interno delle istituzioni tradizionali, non va, tuttavia, sottovalutato che alcune delle proposte del 1701 non avevano ormai più senso di fronte alla mancata indipendenza del Regno di Napoli. L'altra proposta principale del programma del C. era la redazione di un codice che riorganizzasse l'ordinamento giuridico del Napoletano. La richiesta aveva un preciso scopo politico, quello, cioè, di ridurre il potere del ceto forense - che aveva una posizione di predominio all'interno del ceto civile e che era anche portatore di una più moderna concezione dello Stato - favorito, nel suo processo di rafforzamento, proprio dall'intricato sistema legislativo. Di carattere accessorio appaiono, rispetto a questi due punti fondamentali, le altre richieste esposte nel Parere, nelle quali si conferma, comunque, il punto di vista della nobiltà di provincia di contro a quello della nobiltà cittadina, oltre che del ceto civile. Così la proposta di formare un esercito nazionale "non muove da altro che dall'esigenza di fornire alla nobiltà un'occupazione prestigiosa in alternativa a quella dei pubblici impieghi, costituendo anche il supporto al restaurando potere politico nobiliare" (Conti, p. 60). Nello stesso modo, rispondeva a un preciso interesse economico del baronaggio la richiesta di libertà di commercio, mentre rimane alquanto generica la proposta di restaurare le scienze e le arti, eco, molto probabilmente, del rinnovamento culturale napoletano della seconda metà del '600. A dimostrare, infine, il ripiegamento avvenuto nell'aristocrazia e nel suo programma sta l'assenza nel Parere di alcuni punti importanti delle richieste del 1701, come la non introduzione del S. Uffizio nel Regno e la concessione di uffici e benefici ecclesiastici ai soli regnicoli. È noto, dagli avvenimenti successivi, come questo estremo tentativo del C. di riservare un ruolo politico importante all'aristocrazia sia andato fallito, mentre il ceto civile si riconfermava come la vera classe dirigente.
Alla fine del 1708, trovandosi in difficoltà finanziarie, il C. volle ritornare a Napoli, non senza aver ricevuto da Carlo d'Asburgo il titolo di grande di Spagna ed una pensione annua di 6.000 ducati. Nel giugno dell'anno successivo si recò a Vienna, secondo quanto gli era stato richiesto a Barcellona, per sollecitare l'imperatore ad inviare rinforzi al fratello. Tornato di nuovo a Napoli, ben presto il C., amareggiato dal fallimento dei suoi programmi, decise di ritirarsi fuori città per dedicarsi a una vita di studio e di meditazione. Le sue condizioni economiche non dovevano essere particolarmente brillanti (Memorie, XV, f. 104). La fedeltà a casa d'Austria non gli aveva portato grande vantaggio, anzi aveva addirittura peggiorato lo stato delle sue finanze. Per affrontare la missione a Barcellona aveva dovuto vendere "il miglior e maggior capitale" della dote di sua madre (Napoli, Bibl. naz., ms. XIII. D. 8, Opuscoli, f. 279) e lo stesso esilio volontario a cui si era ridotto sarebbe stato in parte determinato dall'esigenza di ridurre le spese. Nel 1711, alla morte del padre, il C. aveva ereditato il titolo principesco con il feudo di Chiusano, le cui rendite erano notevolmente basse, intorno ai 300 ducati annui. La pensione di 6.000 ducati che il C. aveva ricevuto da Carlo d'Asburgo gli era stata assegnata sulle entrate del feudo di Rossano, già appartenente al principe Borghese, e poi, una volta che questi era stato reintegrato nella sua proprietà, sulle entrate della provincia di Principato Citra. Le difficoltà di esazione della somma, che intanto era stata ridotta a 4.000 ducati, furono, tuttavia, tali da spingere il C. ad affrontare un viaggio a Vienna, nel 1724, e ad avanzare una supplica a Carlo VI, per chiedere "lo stabilimento o almeno l'onesto riparo della [sua] casa quasi abbattuta e cadente" (Napoli, Biblioteca naz., ms. XIII. D. 8, Opuscoli, f. 281). Il disinteresse di cui il C. aveva dato prova fin dal tempo della congiura del 1701, e che lo aveva distinto dai suoi compagni, sembra qui ancora una volta evidente, dato che la sua richiesta si limitava alla riconferma del beneficio già ottenuto e a un ordine di esecuzione di esso. Ancora nel 1730, in una sua lettera all'imperatore, il C. doveva, tuttavia, lamentare le sue difficoltà economiche, dato che la pensione gli era stata ridotta a un quinto dai competenti organi amministrativi, mentre il fisco avanzava una serie di pretese su quanto rimaneva del patrimonio. Dal suo ritiro il C. uscì in occasione della guerra che avrebbe condotto alla fine del dominio austriaco nel Napoletano.
Di quegli avvenimenti egli stese una Relazione divisa in 4 libri: nei primi due vengono esposte le cause della guerra di successione polacca, negli altri due si narra, invece, la conquista del Regno di Napoli ad opera di Carlo di Borbone nel 1734. Nella Relazione emerge chiaramente la delusione del C. nei confronti dell'Austria, quando recrimina sulla scarsa fiducia dimostrata da Vienna e dal governo vicereale nei confronti della nobiltà napoletana.
Fin dal 1730 egli aveva espresso le sue critiche alla politica imperiale nel Napoletano e ora, all'approssimarsi dell'esercito spagnolo del Borbone, ribadiva al viceré G. Visconti (1733-34) la necessità di chiedere l'aiuto dei baroni e di formare milizie nazionali. Ma il Visconti, oltre che dalla propria debolezza e inettitudine, era fortemente impacciato dalla scarsa autonomia di cui godeva rispetto al Consiglio d'Italia e perciò diede ben poco ascolto al Carafa. Anche le lettere che questi aveva scritto all'imperatore per sollecitarlo a prendersi maggiore cura delle condizioni militari del Regno ebbero scarso successo, poiché si riteneva la Lombardia il fronte decisivo della guerra. Nel dicembre del 1733 il C. venne nominato vicario generale della provincia di Principato Ultra, alla cui difesa cercò di provvedere nel miglior modo possibile, benché si trovasse scarsamente provvisto di mezzi sia finanziari sia militari. Costretto ad abbandonare la provincia per l'avanzata dell'esercito nemico, il C. si ritirò, al seguito del viceré, prima in Capitanata e poi in Terra di Bari. Di questa ultima provincia assunse il governo - dopo essersi rifiutato di abbandonare i castelli di Bari e di Barletta come avrebbe voluto la linea strategica seguita dal comando militare - riportando all'obbedienza Bitonto e mantenendo sottomesse Bari, Trani, Terlizzi, Giovinazzo, Bisceglie, Molfetta.
Caduto il Regno nelle mani dell'esercito borbonico, il C., nel maggio 1734, si imbarcò per Venezia donde si recò a Vienna. Qui, essendo rimasto vedovo fin dal 1734 si risposò nel 1741 con Maria Giuseppa Pinelli dei duchi di Tocco, che gli portò una dote di 20.000 ducati con i quali il C. poté forse rinsanguare un poco le sue finanze, tanto più che, all'avvento del nuovo regime, tutti i suoi beni erano stati sequestrati, compreso il feudo di Chiusano, poi messo in vendita nel 1746 a istanza dei creditori del principe. Da nessuno dei due matrimoni nacquero eredi al C. che ebbe invece, solo una figlia naturale, Maria Anna, morta a Chiusano nel 1764.
Il 9 dic. 1742 il C. si spense a Vienna.
Tra gli scritti da lui lasciati, maggiore rilievo hanno certamente le sue Memorie, rimaste finora inedite (Archivio di Stato di Napoli, Biblioteca, nn. 76-76/5), ricche di notizie relative alla politica europea degli anni a cavallo tra la fine del XVII secolo e il primo decennio del XVIII e di acute osservazioni sulle condizioni politiche e sociali del Regno di Napoli nello stesso periodo. Tra gli altri scritti del C., di scarso interesse è la Storia compendiata della città e Regno di Napoli, anch'essa, come le Memorie, inedita (ibid., n. 75). Il gusto del C. per la poesia è testimoniato dai numerosi versi da lui lasciati, per lo più di argomento patriottico o morale, e da una "favola boschereccia" intitolata Iliso o l'amante generoso (Napoli, Biblioteca naz., ms. XIII. D. 8). Degli interessi di argomento religioso che il C. aveva nutrito in alcuni momenti della sua vita, e che si andarono accentuando col progredire dell'età, rimangono tracce in alcune Meditazioni e nella raccolta di numerosi brani estratti dalle opere dei ss. Padri. Un'accentuazione del tono moraleggiante, che già si può riscontrare in molti suoi versi, caratterizza gli Opuscoli del C., scritti presumibilmente in età già avanzata secondo quanto egli stesso afferma nel proemio. Dedicandosi alla riflessione su argomenti come l'amore platonico, l'amicizia, l'onestà e la disonestà, il C. si proponeva di fare opera di "edificazione e di profitto" non solo per gli altri ma anche per se stesso, dal momento che, malgrado l'età, egli avvertiva ancora le sue passioni "stimolanti e maldome" (Napoli, Bibl. naz., ms. XIII. D. 8, Opuscoli, f. 217). A Vienna, negli ultimi anni della sua vita, scrisse, infine, la Relazione della guerra in Italia nel 1733-1734 (edita a cura di B. Maresca in Arch. stor. per le prov. napolet., VII [1882], pp. 110-40, 293-328, 555-91, 685-712), di notevole interesse per le indicazioni che offire sia sugli avvenimenti militari che portarono alla caduta del regime austriaco nel Regno di Napoli sia sulle condizioni politiche e sociali del Regno stesso negli ultimi anni della dominazione asburgica.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Spoglio Significatorie Relevi, III, f. 160v; Ibid., Biblioteca, n. 74: T. Carafa, Corrispondenza; Napoli, Biblioteca nazionale, ms. XIII. D. 8: "Raccolta di rime e prose non ancora terminate di Tiberio Carafa principe di Chiusano"; D. Confuorto, Giornali di Napoli dal 1679 al 1699, a cura di N. Nicolini, II, Napoli 1930, pp. 4, 10; G. B. Vico, Principum Neapolitanorum coniurationis anni MDCCI historia, in Scritti stor., a cura di F. Nicolini, Bari 1939, ad Indicem; A. Granito, Storia della congiura del principe di Macchia, Napoli 1861, ad Indicem; S. Volpicella, Studi di letter., storia ed arti, Napoli 1876, pp. 27-36; G. Ferrarelli, T. C. e la congiura di Macchia, Napoli 1883; L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari 1950, pp. 40, 42; R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche del viceregno napol. (1656-1734), Roma 1961, pp. 136-140, 167-174, 222 5.; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, pp. 623 130, 132, 225-231; L. Marini, Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna e a Roma, Bologna 1970, pp. 36, 83, 114-118, 133 s., 147 ss.; G. Ricuperati, L'esperienza civile e relig. di Pietro Giannone, Milano-Napoli 1970, pp. 81, 89, 93-98, 110, 1117; Id., Napoli ed i viceré austriaci(1707-1734), in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, pp. 349, 354 s., 357, 362, 440; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica,cultura,società, Napoli 1972, ad Indicem; V. Conti, Il parere di T. C. a Carlo d'Asburgo, in Il pensiero politico, VI (1973), pp. 57-67; P. Litta, Le famiglie celebri italiane,sub voce Carafa di Napoli, tavv. XXXIII s.