JEFFERSON, Thomas
Uomo politico americano, nato il 13 aprile 1743, a Shadwell, nella contea di Albermale, morto a Monticello (Virginia) il 4 luglio 1826. Suo padre, Peter, apparteneva alla classe dei piantatori della "frontiera"; sua madre, una Raldolph, alla più pura aristocrazia coloniale. Proprietarî terrieri, i J. possedevano a Shadwell una fattoria. Il J. divise la sua giovinezza tra i campi e il William and Mary College. Compiuti i suoi studî, egli fu messo a praticare legge presso George White, avvocato famoso, uomo fine e colto, che esercitò su J. la più viva influenza intellettuale, e doveva più tardi lavorare attivamente con lui alla riforma delle leggi della Virginia. La guerra dei Sette anni si era chiusa, maturavano allora i primi avvenimenti della Rivoluzione. Eletto nel 1769 alla House of Burgesses della Virginia, J. si unì subito ai sostenitori estremi dei diritti coloniali, già attratto verso le agitazioni popolari e già incline alle soluzioni più radicali dei problemi che in quegli anni si ponevano dei rapporti con l'Inghilterra. Nel 1773 fu degli organizzatori del Committee of Correspondence che doveva stabilire i contatti con le altre colonie e dare unità al movimento rivoluzionario; nel 1774 entrò a far parte del Comitato di salute pubblica e della Convenzione della Virginia, e finalmente nel 1775 del Congresso continentale. Oratore assai debole, egli non prese che poca parte ai dibattiti di queste assemblee; ma una molto notevole ne ebbe nelle polemiche sui diritti del governo regio e nella letteratura politica del tempo, con la sua Summary view of the Rights of Amenca, che fu lo scritto che servì meglio a fissare le idee rivoluzionarie nei paesi del sud. In questo scritto, che procurò a J. una fama nazionale, sono anticipate le teorie che egli doveva poi esporre nella dichiarazione d'indipendenza.
Questo documento, che il Congresso adottò il 4 luglio 1776, fu essenzialmente opera sua. Egli preparò il progetto originale, che Adams e Franklin solo lievemente emendarono. Il Congresso stesso, approvandolo, non vi portò che poche modificazioni, e di queste la sola che avesse veramente importanza fu la soppressione di una frase che suonava condanna dell'istituto della schiavitù. Destinato a essere un "manifesto" la dichiarazione d'indipendenza doveva riflettere il quadro generale del pensiero rivoluzionario, e J. cercò di renderla tale. Non per questo essa riflette meno la preparazione intellettuale di J., le sue idee e la sua interpretazione del significato ideale della rivoluzione: gli uomini sono stati creati uguali, e hanno alcuni diritti inalienabili, come il diritto alla vita, alla libertà, e alla felicità; i governi sono stati istituiti perché gli uomini raggiungano questi fini e derivino i loro poteri dal consenso dei governanti. Quando un governo non risponde a questi fini, il popolo ha diritto di distruggerlo, e di costituirsene un altro. Su questo fondo dottrinario sono poste le ragioni concrete della dichiarazione d'indipendenza. E tuttavia il pensiero intimo di J. è che la rivoluzione non sia in sé solo una reazione agli abusi del governo inglese, e solo una secessione da esso, ma una rivendicazione di diritti, un'affermazione di sovranità popolare, il principio di un regime di popolo: J. ha già in mente un' interpretazione democratica della rivoluzione, quale i suoi colleghi nel Congresso in genere non avevano, e già l'idea che dalla rivoluzione gli Stati Uniti debbano trarre un ordinamento sociale e politico di democrazia. A questa conclusione egli era tratto meno da ragioni teoriche che da ragioni storiche; meno dalla fiducia, che pure egli nutriva vivissima, nella capacità delle masse a governarsi da sé, che dalla convinzione che negli Stati Uniti si fossero realizzate le condizioni storiche nelle quali un regime di popolo poteva essere stabilito.
Poco dopo la dichiarazione d'indipendenza, J. si ritirò dal Congresso, rifiutando di recarsi a Parigi con Franklin e con Silas Deane a sollecitare l'aiuto della Francia. Tornò nella Virginia, ove dal 1776 al 1783 si dedicò esclusivamente all'organizzazione del nuovo stato.
Membro dell'Assemblea legislativa e due volte, nel 1779 e nel 1780, governatore, fu l'iniziatore delle maggiori riforme sociali e politiche, dirette a indebolire la struttura aristocratica della società virginiana. Tre di queste avevano un carattere fondamentale: l'abolizione dei vincoli di sostituzione e di primogenitura nelle successioni; l'insegnamento scolastico pubblico; la separazione della Chiesa dallo Stato e il riconoscimento della libertà religiosa. Esse sovvertirono profondamente il vecchio sistema virginiano. J. aveva in mente anche una graduale emancipazione degli schiavi, ma il suo programma non poté essere attuato per la resistenza opposta dagl'interessi schiavisti dei piantatori. J. Madison, G. Mason e H. L. White, furono i suoi principali collaboratori in quest'opera che pose le fondamenta politiche di quella democrazia agraria, che con J. e con Madison doveva tenere nei primi anni del sec. XIX il governo della Repubblica. Quale fosse allora il pensiero di J. risulta dalle sue Notes on Virginia (1781) nelle quali sono disegnate le prime linee di una teoria degl'interessi degli Stati Uniti come interessi essenzialmente agrarî, e si rivelano le prime opposizioni di J. a ogni forma di concentramento della potenza, o la potenza dello stato o quella del capitale, e quindi i primi elementi del suo dissidio con il federalismo.
Come governatore e come uomo di azione J. non fu molto felice. Egli non dimostrò grandi capacità di organizzatore al momento della invasione inglese e la sua condotta fu aspramente criticata. Nominato delegato al Congresso continentale (1783), rientrò nella politica nazionale, e non ebbe più parte diretta nel governo della Virginia. Fu in questo periodo della sua attività che J. disegnò il primo piano razionale di amministrazione dei territorî del West.
Virginiano e appartenente a una famiglia di piantatori, egli portava in questo problema l'interesse tipico della sua classe sociale e della tradizione espansionista del suo stato. Bisognava in realtà porre le basi dell'impero americano del West e fissare i principî di una politica di colonizzazione del retroterra. Nella mente di J. tale politica non doveva condurre alla creazione di zone destinate a essere permanentemente amministrate dal governo centrale: egli propose dunque di dividere il retroterra a nord dell'Ohio in sedici zone territoriali, ciascuna delle quali sarebbe divenuta uno stato al momento che la sua popolazione fosse divenuta pari a quella del più piccolo dei tredici stati originarî. La schiavitù sarebbe stata esclusa da queste zone. Il Congresso adottò, salvo la clausola della schiavitù, questo progetto che doveva costituire le basi dell'ordinanza del Northwest (1787), e dava intanto una prima forma alla politica di colonizzazione degli Stati Uniti.
Nel 1784, il Congresso chiamò J. a far parte, insieme con Franklin e con J. Adams, della commissione incaricata di negoziare con i maggiori stati di Europa quei trattatí di commercio per i quali il Congresso aveva approvato un piano generale, opera dello stesso J. e fondato su principî assai notevoli per quei tempi, di libertà commerciale in pace e di protezione del commercio neutrale in guerra. Ma nessuno stato, fuorché la Prussia, s'indusse ad abbandonare la propria pratica tradizionale e l'Inghilterra persisté nel suo rifiuto di entrare in negoziati.
J., liberista come tutti i suoi contemporanei in America, trasse da queste difficoltà la convinzione che il liberismo fosse impraticabile e bisognasse difendere il commercio americano rispondendo con misure restrittive alle misure di protezione degli stati europei. Egli non aveva del resto alcuna fiducia in un commercio estero attivo. Lo credeva per l'America un male piuttosto che un vantaggio. Pensava che gli Stati Uniti avrebbero dovuto formare una grande democrazia rurale, e che il commercio, oltre a favorire la corruzione dei costumi, avrebbe potuto obbligare l'America a stringere dei legami politici con l'Europa, che egli, fautore di una politica di rigoroso isolamento, deprecava.
Nel 1785, ritiratosi Franklin, J. fu nominato ministro degli Stati Uniti presso la corte di Francia, e questo ufficio egli tenne sino al 1789. I cinque anni che egli soggiornò a Parigi sono di una importanza grandissima per intendere l'influenza che il movimento liberale francese esercitò sulle sue idee, e per rendersi conto di alcune delle fondamentali premesse della sua politica estera.
Come tutti i suoi contemporanei in America, J. riteneva che l'Europa fosse in un periodo di decadenza morale e politica, le sue istituzioni inique, i suoi governi corrotti, le sue masse popolari abbrutite. La sua viva curiosità intellettuale lo spingeva a interessarsi al movimento della cultura francese, ma le sue inclinazioni lo facevano avvicinare soprattutto alle correnti illuministiche e radicali, nelle quali egli trovava affinità e simpatie con le sue antiche concezioni egualitariste e democratiche. Queste uscirono rafforzate dall'influenza francese che egli subì; e data da allora il suo orientamento verso la Rivoluzione francese al cui nascere egli assistette e partecipò, sollecitato e consultato dai suoi amici parigini, che vedevano in lui l'autore della dichiarazione d'indipendenza e il rappresentante di un'ideale democrazia, quale essi si figuravano che fossero gli Stati Uniti del tempo. Ma dallo studio della situazione europea un'altra sua convinzione riuscì rafforzata. Egli intese come fosse instabile l'equilibrio delle potenze in Europa, e come fosse da attendersi un lungo periodo di guerre: gli sembrò dunque che con più decisione gli Stati U1iiti dovessero evitare ogni legame politico con stati europei, a garantire e preservare la loro neutralità nelle lotte di questi, e dalle divisioni europee trarre vantaggi per sviluppare e consolidare il loro potere sul continente americano.
Quando J. assunse, nel 1789, con l'ufficio di segretario di stato, la direzione della politica estera americana, gli Stati Uniti erano impegnati in una duplice controversia diplomatica con l'Inghilterra e con la Spagna, per il posseggo del West e per la libera navigazione del Mississippi. I tentativi del Congresso di venire a un accordo con Londra e con Madrid erano falliti e dovevano fallire anche quelli intrapresi da J. Egli del resto non trovava appoggio nel suo stesso governo, ché si era già aperto il suo dissidio con A. Hamilton, favorevole a un riavvicinamento con l'Inghilterra, mentre J. aveva l'animo volto verso la nuova Francia rivoluzionaria.
I due uomini erano di fronte: l'uno con la sua concezione di uno stato organizzato sulle basi di un governo centrale forte e dominatore, di un'aristocrazia capitalista e conservatrice, di un'economia di tipo mercantilista; l'altro con la sua concezione di una federazione flessibile e decentrata, con ordinamenti politici a fondo popolaresco e con una sottostruttura economica agraria. Essi del resto rappresentavano due gruppi d'interessi ideali e pratici che, per tutto il Settecento, si erano scontrati e combattuti nella storia americana e che il federalismo non era riuscito né a conciliare né a superare. Da una parte gl'interessi dei piantatori schiavisti del sud, dall'altra gl'interessi degl'industriali e dei mercanti del nord. Da una parte gl'interessi delle classi minute, dall'altra gl'interessi delle classi capitalistiche cittadine. La Rivoluzione francese doveva marcare con più vigore questa opposizione. Ai conservatori gli avvenimenti di Francia apparirono sempre più sotto l'aspetto di una rivolta anarchica, intesa a scuotere le basi della società; ai democratici come il trionfo dello spirito sovversivo, livellatore, egualitario, dal quale essi stessi erano animati. J. era naturalmente tra questi: e come il movimento popolaresco. incoraggiato dall'esempio francese, cercava di ricostituire quelle forze che il conservatorismo federalista aveva represse, egli di queste forze si faceva interprete e assertore. Nella lotta che allora si apriva tra la Francia e la Coalizione, queste classi parteggiavano per la Francia, mentre le classi più alte, dalle quali il federalismo attingeva le sue forze, parteggiavano per l'Inghilterra. J. e Hamilton si trovarono nel gabinetto a rappresentare questo dissidio.
Né l'uno né l'altro pensavano naturalmente all'intervento degli Stati Uniti nel conflitto europeo. Ma quello che J. chiedeva era una neutralità benevola per la Francia, quella che Hamilton sollecitava era la liberazione dagli obblighi creati dal trattato di alleanza del 1778 e un riavvicinamento all'Inghilterra. La neutralità degli Stati Uniti nel conflitto fu proclamata (1793), ma J. si batté per il mantenimento di questo trattato, per ricevere incondizionalmente il cittadino É. Genet come nuovo ministro della Repubblica francese, e per interpretare con larghezza le regole della neutralità: la Francia, per lui, stava combattendo per difendere la causa della libertà coutro il dispotismo, e gli Stati Uniti, pur mantenendo la loro neutralità, non potevano desiderare che la sua vittoria. Egli credeva del resto che in America si stesse combattendo, tra federalisti e democratici, la stessa lotta; e a questa egli intendeva prendere, entro e fuori del governo, la parte più attiva. Era l'ispiratore della critica al governo federalista e l'organizzatore della parte popolare che si cominciava allora a chiamare repubblicana. J. Madison e W. B. Giles agivano su linee che egli tracciava; la National Gazette fondata per sua iniziativa, svolgeva opera come centro d'intesa delle forze democratiche. Egli stabiliva e manteneva i contatti con i capi del movimento repubblicano nei varî stati dell'Unione e dava a questo movimento un piano pratico e un'unità d'azione, che altrimenti sarebbero mancati. Accanita era la lotta che egli conduceva contro Hamilton e contro la politica finanziaria del federalismo, nella quale egli vedeva la base di una struttura sociale aristocratica che avrebbe arrestato il cammino della rivoluzione americana verso le sue ultime realizzazioni di regime di popolo.
Nel 1793, pochi mesi dopo la dichiarazione di neutralità, e mentre il suo dissidio con Hamilton era giunto a una fase estrema di violenza, non sentendosi abbastanza forte in un governo dove prevalevano gl'interessi conservatori, J. si ritirò dal suo ufficio. Tornò nella Virginia, ai suoi studî e alle cure dei campi, ma capo oramai riconosciuto dell'opposizione repubblicana. Ritiratosi Washington nel 1796 egli fu eletto vicepresidente della repubblica, ma il suo aperto dissidio con Adams impedì qualunque sua partecipazione al governo. Erano quelli gli anni più tempestosi della lotta politica fra il movimento popolaresco, in pieno sviluppo, e il federalismo, che per difendersi adottava misure reazionarie. Nell'estate del 1798 il Congresso votò i famosi Alien and Sedition Acts, che davano al presidente poteri straordinarî di polizia. I capi della parte repubblicana, ispirati da J., vi opposero le famose risoluzioni del Kentucky e della Virginia che rivendicarono, contro tali leggi, le libertà costituzionali degli Stati. La popolarità e il prestigio del federalismo caddero. Nelle elezioni del 1800, Hamilton, per impedire che Aaron Burr divenisse presidente, favorì egli stesso la nomina di J. Il 4 novembre 1801 J. assunse il potere.
Egli era persuaso che gli Stati Uniti dovessero essere ricondotti verso una struttura sociale più vicina ai principî egualitaristi della rivoluzione; ma non voleva intanto spezzare ogni legame d'interessi con i federalisti, e assumendo il governo la sua prima cura fu di rassicurarli sui principî del suo governo: "Noi siamo tutti repubblicani e tutti federalisti". Professando la più cieca devozione nel principio della maggioranza, vagheggiò un regime che, pur mantenendo il pieno vigore costituzionale dello stato, avrebbe alleggerito all'interno la politica centralista e intervenzionista, e avrebbe rafforzato verso l'esterno la politica d'isolamento. La sua doveva essere un'America agraria, semplice, frugale, isolata non solo politicamente, ma economicamente e spiritualmente dall'Europa. Egli non avrebbe perciò incoraggiato il commercio, né tentato di allargare l'azione internazionale degli Stati Uniti, né aumentata l'efficienza dell'esercito e della flotta. Erano tutte illusioni: ché al contrario l'agricoltura americana aveva bisogno per vivere dei mercati dell'Europa, e la democrazia agraria era per sua tradizione espansionista, e suoi erano i vasti disegni imperiali sui dominî europei nel Nuovo Mondo. J. del resto questi disegni divideva; e il Nuovo Mondo gli sembrava anzi destinato a essere la culla dell'impero degli Stati Uniti. Le maggiori attività del suo governo dovevano essere infatti di politica estera, la maggior gloria del suo regime l'acquisto della Luisiana.
J. aveva appena assunto il governo quando, con il trattato di San Ildefonso, concluso il 10 ottobre 1800, la Spagna retrocedeva la Luisiana alla Francia. Erano i tempi che Napoleone pensava di ristabilire il dominio francese nell'America del Nord. Nessun avvenimento gli Stati Uniti potevano considerare come più pericoloso per loro, ché una volta ridivenuta la Francia potenza americana, essi sarebbero stati obbligati a combatterla. Inoltre essi consideravano il possesso di Nuova Orleans come indispensabile al loro sviluppo e alla sicurezza del loro commercio. Quello che J. infatti pensava era che gli Stati Uniti dovessero ottenere dalla Francia la vendita di Nuova Orleans o entrare in un'intesa con l'Inghilterra. Quando R. Livingston aprì i negoziati, il disastro di San Domingo aveva già indebolito i piani americani di Napoleone, la guerra con l'Inghilterra sembrava di nuovo vicina e si pensava a Parigi che la Luisiana, in caso di ostilità, sarebbe caduta preda degl'Inglesi. Talleyrand offrì dunque la cessione non solo di Nuova Orleans ma di tutto il territorio. Il 30 aprile 1803 fu concluso il negoziato e otto mesi dopo gli Stati Uniti entrarono in possesso del paese. Le basi del più grande impero americano erano poste.
Il rinnovarsi intanto della guerra europea (1804) riproponeva per gli Stati Uniti i vecchi problemi della loro neutralità. Deciso a non partecipare al conflitto europeo, J. tentò di difendere il commercio americano con dei negoziati diplomatici, ma quando i delegati americani vennero a un accordo, J., considerandolo troppo sfavorevole agl'interessi del suo paese, lo respinse: sembrò che la guerra tra l'Inghilterra e gli Stati Uniti fosse imminente, ma l'idea di J. era piuttosto quella di piegare l'Inghilterra con misure che danneggiassero il suo commercio: e queste furono la legge (aprile 1806) che limitava le importazioni dall'Inghilterra, e il famoso Embargo Act (dicembre 1807) con il quale le esportazioni dagli Stati Uniti e la partenza di navi destinate a porti stranieri erano proibite. Ma l'embargo, anche se di qualche danno all'Inghilterra, era il più grave colpo che si potesse portare agl'interessi mercantili americani. I suoi effetti disastrosi si fecero sentire ben presto. Constatato il fallimento della sua politica e di fronte al malcontento popolare, J. dovette cedere. L'embargo fu ritirato (1809). Pochi giorni dopo, egli, del resto, lasciava il governo nelle mani del nuovo presidente eletto, il suo fedele Madison, e si ritirava a Monticello dove doveva passare gli ultimi anni, i più calmi, della sua vita. Fu in quegli anni che egli scrisse la sua autobiografia, riordinò le sue carte, disegnò la creazione dell'università di Virginia, della quale egli doveva essere il fondatore e l'organizzatore, vecchio sogno della sua vita e orgoglio della sua tarda età.
Bibl.: Gli scritti di J. sono stati più volte ristampati: v. l'ed. di P. Leicester Ford (Writings, voll. 10, New York 1892-99), l'ed. "Federal" (Works, voll. 12, New York 1904-05) e quella di A. A. Lipscomb (Works, 2ª ed., voll. 10, Whashington 1905). Cfr. S. E. Forman, The Life and Writings of T. J., Indianapolis 1900; W. Sarah Randolph, Domestic relations of T. J., New York 1871; H. W. Pierson, J. at Monticello: the private life of T. J., New York 1802; J. T. Morse, T. J., Boston 1883; T. E. Watson, The life and times of T. J., New York 1903; D. S. Muzzey, T. J., New York 1918; Hirst, Life and letters of T. J., New York 1926. - E per l'attività politica in particolare, A. Johnson, J. and his colleagues, New Haven 1921; Bowers, J. and Hamilton: the struggle for Democracy in America, Boston 1925; G. Chinard, J. et les idéologues, Baltimora 1925; L. M. Sears, J. and the Embargo, Durham 1927. Molto importanti anche C. Beard, Economic Origins of Jeffersonian Democracy, New York 1915; O. Vossler, Die amerikanischen Revolutionsideale in ihrem Verhältnis zu den europäischen, Monaco-Berlino 1929; id., Studien zur Erklärung d. Menschenrechte, in Hist. Zeitschrift, CXLII (1930). Infine cfr. Adams, History of the United Notes of America during the administration of T. J., nuova ed., voll. 2, New York 1930.