Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Thomas Hobbes sviluppa un sistema che comprende una logica, una fisica, un’antropologia e una politica: da una teoria convenzionalistica del linguaggio, secondo cui la ragione non è altro che calcolo di nomi, attraverso una fisica meccanicistica e deterministica in cui nessuno spazio è lasciato al possibile e al contingente, giunge a una antropologia materialistica in cui è negata ogni forma di libero arbitrio a vantaggio di una concezione della libertà come assenza di ostacoli al moto. Su queste basi arriva a formulare una teoria dello Stato in cui il sovrano, monarca o assemblea, istituito da un patto stipulato in uno stato di natura conflittuale, lo trascende dando vita al grande Leviatano, dio mortale legibus solutus.
La vita
Thomas Hobbes nasce il 5 aprile 1588 a Malmesbury. Studia grammatica e logica a Oxford fino al conseguimento del baccellierato. Iscrittosi all’università di Cambridge, ottiene nel frattempo un posto di precettore presso la famiglia Cavendish cui rimane legato per tutta la vita e grazie a cui ha la possibilità di frequentare alcuni dei più grandi filosofi del tempo tra cui Francis Bacon (1561-1626) e Herbert di Cherbury (1583-1648). Tra il 1610 e il 1630 si dedica allo studio del greco e del latino, dei poeti e degli storici antichi: di questo periodo ci resta una sua traduzione delle Storie di Tucidide. Sul finire degli anni Venti è situabile l’incontro con gli Elementi di Euclide, modello di scienza rigorosa, e, grazie a un viaggio in Francia e in Italia fatto tra il 1634 e il 1636, con l’ambiente scientifico parigino e con Galilei (1564-1642). Da questi incontri nasce in lui la convinzione di poter scrivere un’opera in cui tutti gli aspetti della realtà siano riducibili a movimento: non solo la scienza naturale, ma anche l’etica e la politica devono poter essere spiegati secondo un modello meccanicistico. Quest’opera, gli Elementi di filosofia , dovrebbe articolarsi nelle trattazioni del Corpo, dell’Uomo e del Cittadino. Poiché tuttavia la fondazione generale della scienza risulta assai complessa, Hobbes si risolve a scrivere nel 1640 un’opera più agile, gli Elementi di legge naturale e politica, che circola manoscritta tra gli amici e viene pubblicata solo nel 1650 in due parti separate (Natura umana e Il corpo politico). In quello stesso anno, non sentendosi più al sicuro in una Inghilterra ormai sulla soglia della guerra civile, Hobbes si traferisce a Parigi, dove nel 1641, su insistenza di Mersenne (1588-1648), scrive le Obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Descartes (1596-1650), tra le quali è celebre quella in cui critica la sostanzializzazione del pensiero, in realtà funzione del corpo. Nel 1642 Hobbes pubblica il Cittadino in cui riprende e amplia i temi politici presenti negli Elementi , dedicandosi poi, fino al 1646 a studi di filosofia naturale, di cui sono l’esito alcuni trattati sull’ottica e un manoscritto sul moto, il luogo e il tempo in cui viene difeso il Dialogo sui massimi sistemi di Galilei dagli attacchi di un teologo cattolico. Lo scritto più significativo di questo periodo è quello Sulla libertà e la necessità che Hobbes stende per fissare i termini di una discussione sulla questione avuta con il vescovo John Bramhall la cui risposta sarà l’occasione della pubblicazione nel 1656 di un testo più ampio, Le questioni riguardanti la libertà, la necessità e il caso. Negli anni Quaranta riprende la scrittura del Corpo, abbandonandola successivamente per scrivere un’opera in cui fossero riprese le tematiche già esposte negli Elementi e nel Cittadino: vede così la luce la sua opera più famosa e controversa, il Leviatano, pubblicato a Londra nel 1651 contemporaneamente al suo ritorno in Inghilterra. In essa egli espone con maggiore ampiezza, ma senza variazioni di un qualche rilievo, le sue teorie fisiologiche, gnoseologiche, antropologiche e politiche. Quasi del tutto nuovo invece il contenuto della terza e della quarta sezione dell’opera, dedicate rispettivamente ai rapporti tra potere religioso e potere politico e alle dottrine oscure (“regno delle tenebre”) utilizzate dalla chiesa cattolica per perpetrare il dominio sugli uomini. Nel 1655 vede infine la luce la sua opera sul Corpo, fondamento di tutto il sistema, composta di una logica, una filosofia prima, una geometria, una meccanica ed una fisica. Infine, con l’Uomo, pubblicato nel 1658, Hobbes conclude la trilogia degli Elementi di filosofia , il cui progetto aveva concepito quasi vent’anni prima. A quest’opera Hobbes attribuisce il compito fondamentale di legare la fisica alla politica. Dopo il 1658 Hobbes non pubblica più alcuna opera sistematica, dedicando il suo tempo alla stesura di scritti polemici sia di argomento scientifico che politico: tra questi ultimi val la pena di ricordare il Dialogo tra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra (1666), in cui sostiene il primato della legge scritta sulla consuetudine, ed il Behemoth (1668), che è una storia delle cause della guerra civile in Inghilterra. Muore nel 1679 a Hardwick.
La logica
Hobbes ritiene che tutti i nostri pensieri abbiano origine dalla sensazione, la cui causa è il corpo esterno che agisce sull’organo proprio a ciascun senso, mettendo in moto un meccanismo fisiologico che produce l’immagine o fantasma dell’oggetto. Dopo che l’oggetto ha colpito direttamente o indirettamente i nostri organi di senso noi continuiamo a trattenerne un’immagine, benché più oscura: questa facoltà è chiamata da Hobbes immaginazione o memoria. Il linguaggio surroga la debolezza della memoria, fornendoci la possibilità di fissare i pensieri e di richiamarli alla mente attraverso i nomi. Questi hanno una duplice funzione: 1) sono “note” in quanto hanno la funzione di richiamare alla mente i pensieri e 2) sono “segni” in quanto servono a comunicarli. Hobbes fa dunque propria una posizione rigorosamente nominalistica, caratterizzata da due punti di estrema importanza: 1) il rapporto tra le parole e le cose è arbitrario; 2) gli universali non sono il nome di qualcosa esistente in natura, ma nome di nomi. In questa prospettiva la ragione non è che calcolo di nomi generali. Quanto alla scienza, è la conoscenza della dipendenza di un fatto da un altro, che ci permette di prevedere il futuro e di utilizzarlo a nostro vantaggio. La chiave del discorso scientifico è la definizione, che deve suscitare nella mente l’idea della cosa definita attraverso la sua generazione (per esempio l’idea di cerchio si può ottenere facendo ruotare il raggio intorno al centro): se non si ha questa idea nella definizione, non la si potrà avere nella conclusione del sillogismo e tantomeno in una serie di sillogismi, cioè in una dimostrazione. Tuttavia la definizione non è l’essenza della cosa, ma un tentativo tra quelli possibili di significazione di essa, cioè, in ultima analisi, una convenzione. Secondo Cassirer in questo modo “le leggi logiche e matematiche si risolvono […] in leggi giuridiche; in luogo delle relazioni necessarie e insopprimibili tra le nostre idee intervengono norme pratiche, che regolano la denominazione” (E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, 1953). Sempre Cassirer interpreta ciò come il sintomo della penetrazione dell’ideale politico-giuridico di Hobbes nella sua logica: il sovrano assoluto, che ha anche il compito di stabilire il significato delle parole, “non sarebbe così soltanto il dominatore delle nostre azioni, ma anche dei nostri pensieri e della verità e della falsità delle loro connessioni” (Ibidem).
Hobbes distingue due procedimenti dimostrativi: il primo è quello in cui si muove dalle cause agli effetti ed è del tutto certo, il secondo dagli effetti ricerca le cause ed è invece ipotetico. Agli uomini è stata concessa una scienza del primo genere, con una dimostrazione a priori, solo nel caso di quegli oggetti “la cui generazione dipende dall’arbitrio degli uomini stessi”(Th. Hobbes, De Homine, 1658), come la geometria, l’etica e la politica: sia le figure che le leggi e i patti sono infatti creati da noi. Per quanto riguarda le cose naturali, esse non sono in nostro potere e non possiamo dedurne le proprietà dalle cause, poiché non le vediamo: “ci è invece concesso procedere deducendo le conseguenze da quelle stesse proprietà che vediamo, fino a poter dimostrare che le loro cause abbiano potuto essere tali o tal altre. E questa dimostrazione si chiama a posteriori, e la scienza stessa, fisica” (Ibidem).
La fisica
La mossa iniziale della filosofia della natura di Hobbes consiste nella formulazione di un’ipotesi originale: la ficta universi sublatio o rerum annihilatio, ossia l’esperimento mentale dell’annichilazione del mondo eccezion fatta per un solo uomo. Quest’ipotesi evidenzia per una via paradossale la natura del nostro ragionare, poiché mostra come il pensare sia un calcolo di nomi che noi abbiamo imposto alle idee o fantasmi delle cose e non un calcolo delle cose stesse.
Attraverso quest’ipotesi Hobbes giunge a definire i concetti fondamentali della sua fisica in termini di fantasmi ossia ricordi della mente. Se infatti ricordiamo una cosa che esisteva prima dell’annichilimento considerandola non nella sua determinatezza ma solo nella sua esistenza al di fuori della mente, abbiamo secondo Hobbes il concetto di “spazio”, uno spazio immaginario, perché appunto mero fantasma, e in quanto tale caratterizzato non dal fatto di essere già occupato, ma di poter essere occupato. Se poi ricordiamo quella stessa cosa in movimento otteniamo il concetto di “tempo”, poiché esso lascia nella mente il fantasma del suo movimento nel passare in una successione continua da uno spazio ad un altro. Per mostrare questo legame tra il tempo e il moto dei corpi Hobbes porta degli esempi: “quando vogliamo conoscere in quali momenti il tempo scorre, ci serviamo di un movimento, come del sole o di un orologio o di una clessidra, o tracciamo una linea sulla quale immaginiamo che si muove qualcosa; ed in nessun altro modo appare il tempo” (Th. Hobbes, De Corpore, 1655).
Al concetto di sostanza poi, che egli pensa esclusivamente come corporea, Hobbes giunge attraverso la supposizione che ciò che si è riproposto dopo la ficta universi sublatio “non solo occupi una parte dello spazio di cui si è detto, o che coincida e si coestenda con esso, ma anche che ci sia qualcosa che non dipende dalla nostra immaginazione” (Ibidem). Se poi pensiamo questa sostanza corporea in quanto occupa uno spazio oppure si muove, notiamo, a parere di Hobbes che la coestensione del corpo con lo spazio e il movimento non si identificano con lo stesso corpo: essi sono accidenti del corpo. In questo senso la distinzione tra qualità primarie e secondarie è fondata sul fatto che mentre “l’estensione, il moto, lo stato di quiete o la figura” sono accidenti dei corpi, “il colore, il calore, l’odore, la virtù, il vizio e simili” (Ibidem) sono riducibili a moti dei corpi o a moti della mente che percepisce.
Hobbes distingue poi, contro Descartes, tra la grandezza di un qualunque corpo e lo spazio che coincide con essa, spazio che egli chiama luogo. Il luogo è infatti immobile e il movimento è definito di conseguenza da Hobbes come “l’abbandono continuo di un luogo e l’acquisto continuo di un altro luogo” (Ibidem). In quanto immobile il luogo può essere pensato tanto come pieno quanto come vuoto, benché Hobbes neghi il vuoto assoluto, affermando che lo spazio tra i corpi è occupato da una materia fluida e omogenea.
Infine la causalità è l’azione di un corpo su un altro. Si dice che un corpo agisce su un altro quando “genera o distrugge in questo un accidente” (Ibidem): si dice causa il corpo che agisce ed effetto il corpo che patisce. La “causa semplice o intera” è definita da Hobbes come “l’aggregato di tutti gli accidenti” tanto nel corpo che agisce che nel corpo che patisce: la presenza di questo aggregato implica necessariamente il prodursi dell’effetto, mentre l’assenza anche di uno solo di questi accidenti implica il non prodursi di esso. Utilizzando e allo stesso tempo ridefinendo la terminologia aristotelica, Hobbes definisce l’aggregato degli accidenti nell’agente “causa efficiente” e l’aggregato degli accidenti nel paziente “causa materiale”; la “causa formale” e la stessa “causa finale”, che egli ammette solo nella considerazione dell’agire umano, sono ricondotte dal filosofo inglese alla causa efficiente. L’universo descritto dalla fisica hobbesiana è perciò totalmente deterministico: in esso ogni evento accade necessariamente quando sono presenti nell’agente e nel paziente tutte le condizioni del suo apparire. Non v’è alcuno spazio per le categorie di possibilità e di contingenza: ciò che esiste è necessario e ciò che non esiste è impossibile, e il futuro è pensato come contingente solo perché s’ignora la catena causale che lo produrrà.
L’antropologia
L’antropologia hobbesiana è costruita sulle premesse materialistiche della sua fisica secondo cui la sola realtà che possa essere detta sostanza è il corpo: il corpo umano e la dinamica delle sue passioni sono dunque il suo oggetto. Hobbes distingue nell’uomo due tipi di movimento: il primo, ch’egli definisce “vitale” è costituito dai movimenti che regolano il suo ciclo biologico, come la circolazione del sangue, la pulsazione, la respirazione, la digestione, la nutrizione, l’escrezione ecc.; il secondo è il movimento volontario, così definito perché è determinato dal modo in cui la mente precedentemente lo ha immaginato. L’immaginazione è dunque, secondo Hobbes, “la prima origine interna del movimento volontario”. La sensazione (il fantasma) infatti, prodotta dall’azione dell’oggetto sugli organi di senso, non ha solo una portata conoscitiva, ma anche una portata emotiva: rispetto al fatto che l’oggetto assecondi o meno il movimento vitale si producono i sentimenti di piacere o dolore. Con il ripetersi di queste esperienze, si generano nei confronti degli oggetti esterni dei conati (il conato è l’equivalente del punto in geometria, ossia l’unità minima del movimento). Questi conati prendono due forme opposte: di appetito o desiderio nel caso in cui essi si rivolgano verso la causa che lo ha prodotto; di avversione nel caso in cui tendano a evitarla. L’amore è la stessa passione del desiderio e l’odio dell’avversione, se si eccettua che l’amore e l’odio si riferiscono all’oggetto presente, mentre desiderio e avversione all’oggetto assente; il disprezzo infine consiste nell’assenza di reazione nei confronti dell’oggetto e dunque è ciò che noi intendiamo con indifferenza. Sulla base di questo modello meccanicistico della natura umana, Hobbes costruisce una tavola dei valori in netto contrasto con la tradizione teologica e metafisica: buono è l’oggetto dell’appetito, cattivo è l’oggetto dell’odio, e vile e insignificante è l’oggetto del disprezzo. Radicalemente meccanicistica è anche la concezione della deliberazione, ossia della scelta. Essa è secondo Hobbes “l’intera somma dei desideri, delle avversioni, delle speranze e dei timori, protratti fino al momento in cui l’azione venga compiuta o ritenuta impossibile” (Th. Hobbes, Leviatano , 1651), e la volontà non è altro che l’ultimo appetito che precede l’azione o l’omissione. La volontà non è dunque la facoltà in cui risiede il libero arbitrio, bensì un atto, influenzato dalla diversità dell’indole umana, la quale trae origine da sei fonti: 1) dal temperamento, che può rendere l’uomo più audace o più timido; 2) dall’abitudine, che piega la natura umana alle cose a cui nel principio essa oppone resistenza; 3) dall’esperienza delle cose esterne, da cui, a seconda dell’ampiezza, deriva la cautela o la temerarietà; 4) dai beni di fortuna, come ricchezza, nobiltà e potenza politica; 5) dall’opinione di sé, poiché, per esempio, chi si ritiene saggio è inadatto a correggere i propri vizi; 6) dall’autorità altrui, cioè dall’esempio di chi è ritenuto saggio.
Tanto la successione alternata degli appetiti contrari quanto l’ultimo appetito che precede l’azione, ossia la deliberazione e la volontà, sono causate da fattori esterni a essi: le azioni volontarie “hanno, una per una, cause necessarie, e quindi sono necessitate” (Th. Hobbes, Sulla libertà e la necessità, 1654). La libertà per Hobbes non risiede dunque nel “poter volere” liberamente, ma nel fare ciò che si vuole, dunque la libertà non è il contrario della necessità, bensì della costrizione esterna: “così [...] diciamo che chi è legato manca della libertà di andarsene, poiché l’impedimento non sta in lui, ma nei suoi legami, mentre non diciamo altrettanto di chi è malato o è storpio, poiché l’impedimento sta in lui stesso” (Ibidem).
Thomas Hobbes
Il ruolo dei nomi
Elementi di filosofia. De Homine, I, II, 3
Le voci umane connesse in modo tale che costituiscano segni dei pensieri, si chiamano discorso, mentre le singole parti di esso si dicono nomi. Alla filosofia, come abbiamo detto, sono necessari e le note ed i segni (le note per essere capaci di ricordare, i segni per essere capaci di dimostrare i nostri pensieri). I nomi servono all’una e all’altra cosa, ma svolgono prima il ruolo di note che quello di segni. Ed invero i nomi servirebbero ad un uomo, anche se esistesse lui solo al mondo, per ricordare, mentre non potrebbero servire per dimostrare, se non ci fosse un altro a cui dimostrare., i nomi, presi ad uno ad uno, sono note, giacché richiamano i pensieri anche isolatamente, mentre sono segni unicamente in quanto si dispongono in un discorso e sono parti di esso.
T. Hobbes, Elementi di filosofia: L’uomo-Il corpo, a cura di A. Negri, Torino, UTET, 1972
La politica
Nello stato di natura gli uomini sono uguali tra di loro. Benché infatti vi siano delle differenze quanto alla forza fisica, queste non sono tali da impedire che i più deboli riescano a uccidere i più forti attraverso delle macchinazioni o alleandosi fra loro. L’uguaglianza di fronte alla morte dà luogo a una contesa permanente, di cui le principali cause sono la rivalità, la diffidenza e l’orgoglio: “la prima porta gli uomini ad aggredire per trarne un vantaggio; la seconda per la loro sicurezza; la terza per la loro reputazione” (Th. Hobbes, Leviatano, 1651). Al di fuori di un potere comune che li assoggetti, gli uomini si trovano in uno stato di guerra di tutti contro tutti, in cui nulla può essere ingiusto, poiché “le nozioni di diritto e torto, di giustizia e ingiustizia non vi hanno luogo”(Ibidem), così come non esiste proprietà e dominio, “ma appartiene a ogni uomo tutto ciò che riesce a prendersi per tutto il tempo che riesce a tenerselo”(Ibidem). Gli uomini hanno diritto nello stato di natura a “ricorrere a tutti i mezzi, e compiere tutte le azioni, senza cui non [possono] conservarsi” (ius naturale): le virtù cardinali in tempo di guerra sono dunque violenza e frode.
Nello stato naturale vi sono tuttavia passioni che spingono l’uomo alla pace, come “la paura della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie ad una vita piacevole e la speranza di ottenerle con la propria operosità ingegnosa” (Ibidem); proprio facendo leva su queste passioni la ragione suggerisce delle clausole di pace grazie a cui gli uomini possono raggiungere un accordo: le leggi naturali. Queste leggi naturali restano tuttavia delle pure indicazioni della ragione, fino a che non venga istituito un potere coercitivo: “i patti – conclude Hobbes – senza la spada non sono che parole” (Ibidem).
Gli uomini dunque abbandonano lo stato di guerra, che è “un effetto necessario” delle passioni naturali, solo trasferendo tutto il loro potere e la loro forza a un uomo o a un’assemblea di uomini, dando così corpo alla persona artificiale dello Stato. Il grande Leviatano (mostro biblico immane e fortissimo, tra il drago e la balena, citato nel libro di Giobbe), cui gli uomini devono la pace e la difesa, nasce da una serie di patti tra ciascuno e ciascun altro membro della moltitudine, il cui testo è così formulato da Hobbes: “Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni” (Ibidem). Chi incarna la persona nata da questa serie di patti si chiama sovrano, ogni altro si chiama suo suddito. La formula dei patti incrociati attraverso cui ogni diritto, eccetto quello alla vita (perché altrimenti verrebbe meno la ragione fondamentale dei patti), viene trasferito al sovrano, fa sì che i sudditi non possano più cambiare forma di governo, stipulando un nuovo patto, né possano confiscare il potere al sovrano, né protestare contro di lui, né infine, qualsiasi cosa faccia, giudicarlo o punirlo: a questi diritti infatti essi hanno rinunciato nell’atto di istituzione dello Stato. Il sovrano si trova dunque in possesso di una serie di diritti “non trasmissibili e inseparabili”: 1) è giudice di ciò che è necessario fare per la pace e la difesa dei sudditi e delle dottrine che conviene loro insegnare a questo scopo; 2) prescrive le regole che danno luogo alla proprietà; 3) è giudice nelle controversie; 4) ha diritto di fare guerra o pace, “vale a dire di giudicare sia quando l’una o l’altra convenga al bene pubblico, sia l’entità delle forze da radunare, armare e pagare in vista di quel fine, sia di imporre tributi ai sudditi per coprire le spese relative” (Ibidem); 5) di scegliere consiglieri, ministri, magistrati e funzionari; 6) di ricompensare o punire i sudditi in conformità a una legge promulgata, o anche in sua assenza qualora egli lo “giudicherà massimamente efficace a incoraggiare gli uomini a servire lo Stato, o a dissuaderli dal creargli danno” (Ibidem); 7) infine di assegnare onorificenze e onori.
La libertà dei sudditi è definita dal rapporto con le leggi, che sono le catene artificiali che gli uomini si sono dati instaurando il potere statale: in questo senso la libertà risiede “in quelle cose che il sovrano ha trascurato, nel disciplinare le azioni dei sudditi, quali la libertà di comprare, di vendere e fare tra loro altri contratti, di scegliere la loro dimora, la loro dieta, la loro occupazione, di educare i figli come loro stessi ritengono opportuno e di fare cose analoghe” (Ibidem). Questa libertà dei sudditi non limita mai il potere del sovrano, e la sola limitazione che conosce la sua assolutezza risiede nelle leggi naturali in quanto emanazioni di Dio: le azioni del sovrano sono dunque una questione tra Dio e la sua coscienza. Tuttavia vi è una libertà che il suddito possiede indipendentemente da ciò che gli è comandato dal sovrano: la libertà di difendere il proprio corpo. Essendo infatti la paura della morte violenta la ragione dell’istituzione dello Stato, se viene meno la sicurezza della vita, viene meno allo stesso tempo la ragione di tale istituzione.