Hobbes, Thomas
Filosofo (Westport, Malmesbury, 1588-Hardwicke 1679). Studiò a Oxford, dove conseguì nel 1607 il diploma di baccelliere delle arti. Fu introdotto presso la potente famiglia del barone William Cavendish, poi conte di Devonshire, come precettore del figlio. Ebbe inizio così una consuetudine con questa famiglia, destinata a durare, tranne qualche intervallo, tutta la vita. Viaggiò lungamente in Europa, specie in Francia e in Italia, ed ebbe contatti con la cultura e con alcuni dotti del tempo. Nel corso del suo terzo viaggio sul continente, tra il 1634 e il 1636, avvicinò padre Mersenne a Parigi e Galilei a Pisa. Tutte queste esperienze favorirono in lui la consapevolezza dell’insufficienza delle vecchie nozioni scolastiche e l’esigenza di un rinnovamento della sua cultura. Si dedicò così allo studio dei poeti e degli storici antichi, tradusse le Storie di Tucidide, lesse con particolare interesse gli Elementi di Euclide. Lo studio di Euclide gli offrì il modello di una scienza rigorosa e deduttiva, che egli pensò di poter applicare anche alla scienza politica. Nella filosofia politica, la parte più nota del pensiero di H., il punto di partenza è costituito da proposizioni semplici ed evidenti. Sussiste evidentemente, afferma H., un desiderio naturale per cui ciascuno richiede per sé l’uso di cose che sono in comune, e una ragione naturale, per cui ciascuno si sforza di evitare la morte violenta come il più grande dei mali naturali. Ora, lo stato di natura risulta dall’espandersi incontrastato del desiderio naturale, ed è perciò una condizione di sopraffazione, di lotta di tutti contro tutti. Condizione infelice perché mancante di tutte le caratteristiche proprie della vita associata, quali la produzione di beni, la distinzione di giusto e ingiusto, di mio e di tuo. Gli uomini sono perciò spinti a uscire dallo stato di natura per passare a quello civile, cioè a uno stato di pace. L’esigenza della pace è dunque un dettato della ragione. Tale passaggio è configurato in termini contrattualistici: gli uomini si accordano nel rinunciare ai propri illimitati diritti di natura in favore di un terzo, uomo o assemblea, da cui farsi governare. Ora, questo terzo non è contraente, cioè il suo potere non è condizionato dal patto. Esso è dunque fornito di tutti i poteri, è la sede stessa della razionalità. Ogni diritto del singolo o di comunità minori si riduce a una concessione sovrana. La stessa Chiesa è intesa da H. come un’associazione privata, a cui è lasciata la cura delle cose spirituali, cioè esclusivamente religiose, ma senza possibilità alcuna di interferenze politiche o giuridiche. Costituzione dunque tipicamente assolutistica, di un assolutismo «laico», ossia fondato su basi razionali, e non tradizionali e religiose, e rispecchiante il correlativo fenomeno storico dell’affermazione dell’autorità monarchica contro i privilegi di origine feudale (pur accogliendo la tripartizione tradizionale delle forme di governo, H. dice che quella monarchica è meglio adatta all’esercizio della sovranità). Unico limite della sovranità hobbesiana è l’inalienabile diritto del singolo all’autoconservazione. Il singolo può disobbedire al sovrano solo se questi gli comanda di compiere atti contrari a tale suo diritto, se gli comanda, poniamo, di uccidersi o di ferirsi. Ma in questo caso è il sovrano che viene meno alla sua ragion d’essere, e in sostanza cessa di essere sovrano. Infatti questi casi estremi equivalgono a quelli di vacanza del potere, quali si verificano per es. quando in un regime monarchico non si abbia successione. Allora lo stato civile cessa e si ricade nella libertà naturale.