The Phantom of the Opera
(USA 1925, Il fantasma dell'Opera, bianco e nero/colore, 101m a 20 fps); regia: Rupert Julian, (sequenze aggiunte nella versione sonora) Edward Sedgwick, Ernst Laemmle; produzione: Carl Laemmle per Universal-Jewel; soggetto: dal romanzo Le fantôme de l'Opéra di Gaston Leroux; sceneggiatura: Raymond Schrock, Elliott J. Clawson, (dialoghi della versione sonora) Frank McCormack; fotografia: Virgil Miller, Charles Van Enger; montaggio: Maurice Pivar; scenografia: Charles D. Hall.
Erik, grande talento musicale e voce sublime dal sembiante mostruoso, vive nascosto nei sotterranei dell'Opéra di Parigi, costretto a nascondere le sue fattezze di teschio dietro una maschera. La sua vita reclusa è tutt'uno con quella del teatro; lì vede e s'innamora di Christine, giovane soprano graziosa e inesperta. Senza svelarsi e restando al di là d'una parete, con la sola voce il mostro seduce la bella, la educa con intransigente dedizione, si 'impossessa' di lei, fa sgorgare dal suo petto la musica pura che scioglie ogni cuore. Per portarla al trionfo, non esita davanti al delitto, e uccide la soprano titolare, minaccia l'orchestra, terrorizza il pubblico; quindi rapisce Christine, la porta nei suoi territori nascosti, nell'elegante dimora sotterranea (con vista su un lago) che s'è costruito; lì mostra il suo volto inguardabile, e vede lei, che ama riamata l'ufficiale Raoul, ritrarsi inorridita. L'orrore saprà trasformarsi in pietà, non in amore. Braccato, il mostro si lascia abbattere dalla polizia.
Forse ci si può dolere solo del fatto che Rupert Julian, come del resto tutti gli altri registi che ricavarono film dal libro di Gaston Leroux, non abbia ritenuto opportuno assegnare uno spazio, anche breve, alle "ore rosee di Mazenderan". Leroux era un brioso giornalista parigino, gran viaggiatore e autentico avventuriero, che si era parodicamente autoritratto nel personaggio di Rouletabille, grasso globetrotter indagatore di 'casi' in bilico tra l'umorismo, il romanzo poliziesco e quello di spionaggio. Leroux era nato nel 1868 e morì nel 1927; la parte nel romanzo assegnata al Persiano, che racconta le "ore rosee di Mazenderan", è riferibile al culto per l'Orientalismo e al gusto esotista, ben presenti nei suoi coetanei pittori, musicisti, illustratori. Secondo un'ipotesi accreditata, sembra che la prima idea del suo Fantôme sia nata in Leroux da una specie di leggenda metropolitana che parlava di un laghetto e di una casetta di legno nascosti proprio in fondo ai sotterranei dell'immenso palazzo dell'Opéra. Ma Rupert Julian è estremamente fedele proprio all'essenza recondita del racconto di Leroux. Ecco dunque la particolare atmosfera visiva di quella Parigi dei passages descritti da Walter Benjamin, nei quali camminava anche il giovane Ferdinand in Mort à credit: è la Parigi dei baffuti e barbuti signori che ammirano Jules Verne e a volte anche lo imitano, è la Parigi brillante delle Grandi Esposizioni, capitale di una gioia di vivere che trova se stessa nel can can, nelle luci, negli amori facili e frequenti, nelle delizie di tanti salotti che diventeranno poi componenti della piccola madeleine di Marcel Proust. Si beve champagne, si ride, si ama con scanzonata promiscuità, si crea una moda che tutti imitano nel mondo, si insegna a dipingere come gli impressionisti e si fanno nascere innumerevoli impressionismi nazionali.
Ma non c'è solo questo. La sconfitta di Sedan brucia ancora, Émile Zola denuncia l'orrore dell'antisemitismo, il professor Charcot sviluppa nuove idee sulle malattie mentali di cui si imbeve un suo allievo viennese di nome Sigmund Freud. È la Parigi dei 'fantasmi', come scriverà un nostro grande francesista, Giovanni Macchia. E Rupert Julian riesce, magicamente, inimitabilmente, a raggiungere proprio le viscere, le tetre budella di quest'altra città, dove, come scendendo per gironi infernali, si può trovare Erik, maschera orripilante che cela un viso orrido, da non vedersi mai. Di doni ne ha avuti tanti, Erik, è un geniale musicista che compone un Don Giovanni trionfante, perché, pur nascondendo sotto una maschera le disgustose fattezze di un viso che Lon Chaney ha reso emblema struggente dell'abiezione, il Fantasma ama e desidera, vuole il piacere, brama la bellezza di Christine Daae. Alla giovane e bella cantante ha fatto anche da maestro: l'ha resa bravissima dandole speciali lezioni senza farsi vedere, stando dietro un muro. Poi Christine raggiunge Erik passando per uno specchio, proprio come Alice.
Ma lei ama Raoul de Chagny, prova solo orrore per il mostro. E, del resto, Rupert Julian lo ha reso coerente monarca di un Altrove assoluto, un regno del male dove Piranesi si lega a M.C. Escher e Max Ernst a Gustave Moreau. "Una volta mi chiamavano Erik, ora sono una leggenda senza nome" dice il Fantasma e poi appare nel Grande Ballo in Maschera, dimensione immaginativa resa da Rupert Julian con tetra e perentoria possanza. Qui, come se spremesse, dal testo di Leroux, umori e misteri che in esso sono solo nascosti, Erik proclama che lì, sotto i piedi di chi danza, tanti sono morti tra inverosimili torture. Così, non il Fantasma di Leroux, ma proprio quello di Rupert Julian diventa una delle tremende, grandi icone del Novecento. Se osserviamo la truce bellezza visionaria che trapela dall'ombra dell'impiccato Joseph Buguet, un macchinista ucciso da Erik perché "sapeva troppo", se scrutiamo l'altro mondo 'di sotto', dove si può condurre un cavallo e avanzare in battello nel dedalo di canali, se analizziamo il contrasto tra il sopra, con i baffuti e comici proprietari, e il sotto, con Erik e il suo organo che suona inneggiando alla morte, se guardiamo alla folla che fa a pezzi il Fantasma e lo butta nella Senna, allora possiamo dire che questo è proprio il Novecento.
Esclusione, tortura, segregazione, terrore programmato, dignità negata, violenza totalizzante, odio, bassezza: tutto questo sta dentro l'Opéra. Il ventre del Tempio, la parte oscura del monumento alla lirica, l'odio sotterrato dove impera il piacere, e Christine Daae che proprio non può amare Erik, perché la gratitudine, qui, non trasfigura e non migliora nessuno. Non c'è dubbio che Gaston Leroux abbia ideato una grande trama, e sia da porsi fra quei pochi che hanno creato un personaggio simbolo che dura nel tempo. È vero anche, però, che senza la speciale lettura di Rupert Julian, senza la consequenziale efferatezza di Lon Chaney, il fantasma di Gaston sarebbe forse rimasto prigioniero di un limitato numero di amatori.
Un'altra leggenda metropolitana dice che Hitler, nel suo breve viaggio a Parigi dopo la vittoria del 1940, si fece portare nel palco numero cinque dell'Opéra, bussò su una parete, attese un poco.
Interpreti e personaggi: Lon Chaney (Erik, il fantasma), Mary Philbin (Christine Daae), Norman Kerry (Raoul de Chagny), Snitz Edwards (Florine Papillon), Gibson Gowland (Simon), John Sainpolis (Philippe de Chagny), Virginia Pearson (Carlotta), Edward Cecil (Faust), Arthur Edmund Carewe (Ledoux), Edith Yorke (Mama Valerius), Anton Vaverka (suggeritore), Bernard Siegel (Joseph Buguet), Olive Ann Alcorn (La Sorelli), Cesare Gravina (impresario teatrale).
Skig., Phantom of the Opera, in "Variety", September 9, 1925.
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L. Edgington, The Phantom of the Opera, in Magill's Survey of cinema. Silent films, 2° vol., a cura di F.N. Magill, Englewood Cliffs (NJ) 1982.
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