The Four Horsemen of the Apocalypse
(USA 1921, I quattro cavalieri dell'Apocalisse, bianco e nero, 133m a 22 fps); regia: Rex Ingram; produzione: Rex Ingram per Metro Pictures; soggetto: dal romanzo Los cuatros jinetes del Apocalipsis di Vicente Blasco-Ibáñez; sceneggiatura: June Mathis; fotografia: John F. Seitz; montaggio: Grant Whytock; scenografia: Joseph Calder, Amos Myers; musica: Louis F. Gottschalk.
Madariaga, ricco allevatore nell'Argentina dei primi anni Dieci, ha due figlie: la prima è sposata a un francese pacifista, la seconda a un tedesco che alleva i propri figli nel rispetto della tradizione prussiana. Julio Desnoyers, figlio del genero francese, è il nipote scapestrato e libertino su cui Madariaga riversa però tutto il suo affetto. Alla morte del vecchio, le due famiglie spartiscono l'eredità e ritornano nei paesi d'origine. A Parigi, mentre il padre si dedica all'antiquariato, Julio inizia una carriera d'artista e una relazione con Marguerite Laurier, moglie d'un avvocato; scoperto con scandalo l'amore clandestino, già i Laurier pensano al divorzio, quando piomba su Parigi la dichiarazione di guerra e cambiano le priorità. Laurier parte per il fronte, Julio se ne resta a casa insieme all'amante finché Marguerite, morsa dalla coscienza, decide di offrire alla patria i suoi servigi di infermiera. Un mistico russo, Tchernoff, evoca davanti agli occhi atterriti di Julio la visione dei Cavalieri dell'Apocalisse, che avanzano nel cielo portando con sé Distruzione, Carestia, Guerra e Morte. Sintomi della tragedia incombente: la moglie tedesca d'un soldato francese si suicida, le orde tedesche bivaccano nel castello dove Desnoyers padre ha raccolto i suoi tesori d'arte. Julio decide infine di arruolarsi; al fronte incontra Marguerite che, dedita alle cure del marito ormai cieco, rinuncia per sempre al suo amore. Tornato in trincea, Julio muore nel corso di un'azione eroica, ucciso dal cugino tedesco. Entrambe le famiglie, a distanza, piangono i loro figli, mentre il misterioso Tchernoff, tra le mille croci d'un cimitero di guerra, mormora: "Io li conoscevo tutti".
The Four Horsemen of the Apocalypse, dal best seller d'amore e guerra firmato dallo spagnolo Vicente Blasco-Ibáñez, resta soprattutto il film che introduce nel cinema americano il 'corpo fatale' del divo Rudolph Valentino. È in realtà tutt'altro che un debutto: a queste date Valentino ha alle spalle una ventina di titoli, in film però minori, in parti quasi sempre marginali di torvo vilain latino. Con The Four Horsemen of the Apocalypse finisce per sempre l'epoca dei piccoli delinquenti, dei nobiluomini italiani usati come puro décor, dei gangster di strada, dei fedigraghi seduttori brasiliani. Valentino occupa d'autorità, fin dalla prima sequenza, il centro della scena; a conferirgli quell'autorità, in un processo produttivo del tutto singolare per la Hollywood dell'epoca, è la sceneggiatrice June Mathis. Talento brillante e stimatissimo dai produttori, Mathis raggiunge, in un breve giro d'anni, un potere contrattuale e uno status gerarchico inaudito per una donna e per uno sceneggiatore; è lei a promuovere il progetto The Four Horsemen of Apocalypse, a insistere perché la Metro acquisti i diritti del romanzo, a volere per il ruolo di Julio l'ancora oscuro Rudolph Valentino (dopo averlo visto, pare, ennesima ambigua canaglia nel film Eyes of Youth di Albert Parker, 1919), a ottenere una supervisione sul film che va dalla stesura del copione fino alle scelte di montaggio, e infine a pretendere come regista l'amico Rex Ingram, dandy irlandese con un passato di scultore, qualche film esotico all'attivo e una spiccata vocazione all'estetismo. Valentino ha venticinque anni, Mathis e Ingram ne hanno ventotto: nelle pieghe d'un racconto consegnato alla retorica (amorosa, antimilitarista) resta viva la traccia di un'irruenza giovanile a dimostrare tutto, e dimostrarlo subito.
Dimostrativi, Valentino e Ingram, lo sono presto e in piena armonia. The Four Horsemen of Apocalypse si apre sul primo piano del ragazzo gaucho fermo sulla soglia d'una taverna argentina, e con squisito senso dell'economia Ingram organizza una scena di pochi minuti in cui a Valentino si chiede di fare ciò che sa fare meglio: guardare, essere guardato, ballare. C'è uno scambio di occhiate con la ballerina, un incrocio di frusta e coltello con il rivale, quindi Valentino prende la donna e fa vedere cos'è il tango: balla con le gambe, con i piedi (dettaglio), con le spalle, con il capo eretto, con la schiena elastica, aggressivo e libero e insieme intrappolato negli sguardi del nonno Madariaga, dei giocatori, delle femmine di bas-fonds (e, naturalmente, delle platee soprattutto femminili che da qui cominciano a decretare all'attore italiano un culto senza paragoni nella storia del divismo). Smessi i panni del gaucho, Valentino e la storia si spostano in una Parigi sull'orlo della guerra, e la posta in gioco diventa una specie di confronto tra una Kultur caricaturale (il ghigno espressionista del ceppo tedesco, cattivo, di casa Madariaga) e un feuilleton vagamente progressista (il passato socialista di Desnoyers, che appartiene invece al ceppo buono). Nel turbinio della guerra si fa strada la storia d'amore: Ingram lavora qui sulla bellezza figurativa, sulla ricercatezza plastica, sulla sapienza nell'uso del backlighting che scontorna i profili, e tanto l'evanescenza di Alice Terry (che diventerà sua moglie) quanto la morbidezza latina, la cadenza sensuale nei gesti di Valentino sembrano assecondare al meglio il suo stile. Se l'orizzonte estetico sono i film di Griffith con Lillian Gish (come sarà ancora più chiaro nel film successivo di Ingram-Valentino-Terry, The Conquering Power ‒ La commedia umana, 1921), certi tocchi di kitsch sublime già contribuiscono alla fondazione consapevole del mito dell'amante immortale: Valentino che bacia una rosa prima di darla alla bella, che allontana la donna dal proprio abbraccio (adulterino) quando la vede indossare un velo da crocerossina, lo stesso velo che si china a baciare più tardi, lui e lei con gli occhi lucidi di rinuncia, gesto d'addio erotico e luttuoso. Ma la cura compositiva di Ingram e soprattutto la straordinaria sensibilità luministica di John Seitz (tra i massimi direttori della fotografia del cinema americano, dal muto ai grandi film 'neri' di Billy Wilder) producono un buon risultato anche nel grande spettacolo macabro della visione apocalittica, tra un Dürer hollywoodiano e un Medioevo prossimo venturo, momento comunque importante di un film dagli alti valori di produzione e dall'alto costo.
Sorte non felice attendeva i protagonisti dell'impresa: Valentino moriva di peritonite nel 1926, al culmine del proprio fulgore divistico, un anno dopo lo seguiva la trentacinquenne Mathis, e la tribolata carriera di Ingram non superò la soglia del sonoro (abbandonò Hol-lywood, visse a lungo in Marocco, tornò alla scultura, scrisse testi sul cinema come eredità vivente della grande tradizione pittorica del passato). Ma in quel 1921 il successo di pubblico e critica fu enorme per tutti loro, e per il film; il remake omonimo del 1962, che trasportava l'azione dalla Prima alla Seconda guerra mondiale, sarebbe stato invece il peggior film di Vincente Minnelli.
Interpreti e personaggi: Rudolph Valentino (Julio Des-noyers), Alice Terry (Marguerite Laurier), Pomeroy Cannon (Madariaga), Josef Swickard (Marcelo Desnoyers), Brinsley Shaw (Celendonio), Alan Hale (Karl von Hartrott), Bridgetta Clark (doña Luisa), Mabel Van Buren (Elena), Nigel De Brulier (Tchernoff), John Sainpolis (Étienne Laurier), Virginia Warwick (Chichi), Stuart Holmes (capitano von Hartrott), Jean Hersholt (professor von Hartrott), Wallace Beery (tenente colonnello von Richtoffen), Bowditch Turner (Argensola), Beatrice Dominguez (ballerina).
Anonimo, The Four Horsemen of the Apocalypse, in "National Board of Review", March 1921, poi in From Quasimodo to Scarlett O'Hara, a cura di S. Hochman, New York 1982.
R.E. Sherwood, The Four Horsemen of the Apocalypse, in "Life", n. 2003, March 24, 1921, poi in Selected film criticism, 1921-1930, a cura di A. Slide, Metuchen (NJ)-London 1982.
M. McPherson, Valentino's career became a Graveyard Gamble, in "Films and Filming", n. 8, May 1956.
K. Brownlow, Burning Memories, suppl. a "Sight & Sound", n. 7, November 1992.
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