The Fountainhead
(USA 1948, 1949, La fonte meravigliosa, bianco e nero, 114m); regia: King Vidor; produzione: Henry Blanke per Warner Bros.; sceneggiatura: Ayn Rand, dal suo omonimo romanzo; fotografia: Robert Burks; montaggio: David Weisbart; scenografia: Edward Carrere; costumi: Milo Anderson; musica: Max Steiner.
Howard Roark, architetto d'idee innovative e di inflessibile coerenza, rifiuta di venire a patti con qualsiasi committente e preferisce lavorare come operaio in una cava. Qui lo vede, e ne è violentemente attratta, Dominique Francon, figlia del più apprezzato architetto di New York, lei stessa critico d'architettura al giornale "The Banner"; lo chiama nella casa di campagna con una scusa, lo provoca, lo respinge, si lascia infine portare in camera da letto. Quella stessa notte, Roark riceve una commissione importante, parte e riesce a realizzare, in piena autonomia, il suo primo, originale edificio. Dominique, che non conosce il nome del suo amante scomparso, si dimette dal giornale che ha avviato una campagna contro Roark, alimentata dal critico Toohey. Infine lo incontra, ed entrambi si confessano innamorati: Dominique chiede a Roark di abdicare al proprio rigore, perché il mondo finirà col distruggerlo, e di accettare una vita semplice con lei. Lui rifiuta, si separano e lei sposa Wynand, il proprietario di "The Banner", personalità inquieta e tormentata. Wynand commissiona a Roark la costruzione d'una casa in campagna come dono per la moglie. Dominique, ancora innamorata, soffre in silenzio. Quindi Roark accetta la proposta di Peter Keating, amico di modesto talento ma di buone frequentazioni: disegnerà al suo posto un grande complesso pubblico, alla sola condizione che il suo progetto venga realizzato esattamente com'è. Nonostante i tentativi del povero Keating, le modifiche vengono apportate; Roark, con l'aiuto di Dominique, fa saltare in aria il complesso, consegnandosi subito dopo alla giustizia. L'intera stampa gli è contro, tranne il giornale di Wynand; ma anche questi, per sopravvivere, è costretto infine ad allinearsi all'opinione pubblica. In tribunale, Roark si difende da sé, rivendicando il valore sacro e intoccabile della creazione individuale, e viene assolto. Non sopportando l'onta della propria codardia, e forse già sapendo che Dominique ha sempre amato solo Roark, Wynand si uccide, lasciando all'architetto la commissione di costruire il più alto grattacielo del mondo. Su quel grattacielo ancora in costruzione sale Dominique, mentre in cima l'attende "la poderosa figura di Howard Roark", suo marito.
Nella seconda metà degli anni Quaranta King Vidor diresse tre melodrammi che gli consentirono di elaborare una personale fenomenologia delle passioni. Il secondo capitolo dell'ideale trilogia, che si apre tra le rocce roventi di Duel in the Sun (Duello al sole, 1947) e si chiude nelle paludi di Ruby Gentry (Ruby, fiore selvaggio, 1953), sceglie New York come fondale metafisico alle gesta di Howard Roark, eretico eroe intellettuale. La passione delle idee, o piuttosto di un unico incorruttibile sistema ideale cui si contrappongono le declinazioni della mediocrità legittimata, incrocia la passione dei corpi: Vidor ne astrae una sorta di fredda incandescenza, motivo del perdurante fascino d'un film che si consegna peraltro a qualche deriva enfatica.
Alla base di The Fountainhead c'è un romanzo di settecento pagine, tutte in bilico tra media e cattiva letteratura, e certamente installate nell'approssimazione filosofica: con il suo culto della libera creatività (specie della propria) e il suo orrore per il compromesso mondano, Roark espone il principio americano dell'individualismo al soffio di un'esaltazione nietszchiana. Ma se la qualità di scrittura di Ayn Rand resta povera (poverissima nella traduzione italiana), la costruzione narrativa, le profonde digressioni che attribuiscono a ogni personaggio un romanzo personale e una ragion d'essere, permettono a Vidor di trovare protagonisti già dotati insieme di carattere umano e di peso simbolico: Roark o dell'intransigenza intellettuale, Wynand o del tormento dei propri limiti etici e sociali (quell'infanzia mai veramente riscattata nei bassifondi di Hell's Kitchen), Toohey o dell'invidia luciferina verso tutto ciò che esula dalla norma ‒ norma di cui si fa campione e vittima Peter Keating, pover'uomo senza qualità e senza talento. Vidor lavora la materia allegorica tenendo i suoi attori a distanza, oppure attirandoli in primi piani invasivi, eccessivi; con rigore espressionista (ma un espressionismo chiarificato, scarnificato) dilata le dimensioni, sperde le figure sullo sfondo immobile della città, e quindi le riproporziona perché la figura dell'architetto Roark risulti comunque allineata, altrettanto solida e infine congenere a quella dei suoi grattacieli ‒ nudi e impenetrabili come un'idea superiore, come il monolito kubrickiano. La recitazione piana, scandita, produce un'illusione brechtiana; e New York, al di là di immense vetrate, è una metropolis aliena e bastarda (altezze vertiginose, picchi bizantini, decori neoclassici): Raymond Massey, che pensa di dominarla dalle pareti di cristallo del suo ufficio, pare a tratti ancora sul set del fantascientifico Things to Come (La vita futura ‒ Nel 2000 guerra o pace?, William Cameron Menzies 1936).
Quindi, com'è nella sua poetica di questi anni, Vidor agita la geometria ideologica e figurativa con l'assoluto d'una passione femminile. Con opposta stilizzazione, ma per l'essenziale in modo non diverso dalla Pearl Chavez di Duel in the Sun e da Ruby Gentry, la Dominique di Patricia Neal (forse non abbastanza aristocratica per il ruolo? Nacque comunque, sul set, un amore celebre e scandaloso tra lei e Gary Cooper), altera vergine consacrata alla propria libertà, cade preda d'un desiderio che rischia di annullarla. Sulla natura esplicitamente sessuale dell'attrazione, Vidor non lascia dubbi: al primo incontro tra i due, nella cava di marmo dove Roark ha accettato di lavorare come operaio, Dominique non ha idea che lui sia portatore di tanto cervello e vigore morale, quel che vede è solo Gary Cooper con un cappellaccio, una camicia fradicia di sudore e, metafora quasi eisensteiniana, tra le mani un trapano pneumatico che perfora il muro sul quale lei resta immobile ("evocazione di sbalorditiva evidenza rispetto al puritanesimo del 1948, e che conserva ancor oggi gran parte della sua forza poetica", Luc Moullet). Cooper di per sé offre un corpo assai desiderabile, ma anche una personale sottotraccia ironica che addomestica le asprezze concettuali e dà all'arringa finale il sapore di un'autodifesa quasi capriana, e sia pur perversamente democratica.
Non è forse essenziale, ma nemmeno casuale, che il personaggio sia ispirato con gran libertà romanzesca a Frank Lloyd Wright, figura dominante e irregolare dell'architettura americana. L'autobiografia di Wright, uscita dieci anni dopo The Fountainhead, confermava peraltro piena sintonia ideologica con le posizioni del romanzo e del film; e certo fu autorizzato l'utilizzo nel film di disegni e décor che replicavano, non senza eleganza, le più celebri abitazioni wrightiane, a partire dalla Casa Kaufmann o sulla cascata. Quasi un paradosso temporale, infine, che Howard Roark si congedi, in un'apoteosi iconografica, dalla sommità del grattacielo più alto del mondo, ancora in costruzione (mentre Dominique sale verso di lui oscillando lieve sul montacarichi, lunga magnifica sequenza invasa di senso del vuoto e di tensione erotica); anni dopo, uno degli ultimi, irrealizzati progetti di Wright, destinato a Chicago, si sarebbe chiamato il Grattacielo Alto un Miglio.
Interpreti e personaggi: Gary Cooper (Howard Roark), Patricia Neal (Dominique Francon), Raymond Massey (Gail Wynand), Kent Smith (Peter Keating), Robert Douglas (Ellsworth Toohey), Henry Hull (Henry Cameron), Ray Collins (Roger Enright), Moroni Olsen (presidente), Jerome Cowan (Alvah Scarret), Paul Harvey (uomo d'affari), Harry Woods (sovrintendente), Paul Stanton (preside).
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