TETRARCHI
Col nome di T. si indicano solitamente nella letteratura archeologica due gruppi di immagini in porfido, a Roma (Vaticano) e a Venezia (S. Marco).
Queste immagini sono state poste in relazione con la riforma dello Stato Romano operata da Diocleziano. Questi inizia il suo principato col titolo di Augusto nel 285 avendo come correggente, in posizione inferiore, col titolo di Cesare, M. Aurelio Valerio Massimiano. Il 10 aprile del 286 anche Massimiano assume il titolo e il rango di Augusto coll'attributo di "Erculio", mentre l'attributo di Diocleziano è "Giovio". Nella riforma successiva, dal 1° marzo del 293 vengono nominati due Cesari, C. Galerio Valerio Massimiano e M. Flavio Valerio Costanzo. Questa è la prima tetrarchia. Secondo le disposizioni di Diocleziano, dopo le feste ventennali del 305, i due imperatori anziani abdicano e vengono nominati Augusti Galerio e Costanzo; Cesari Fl. Valerio Severo e Galerio Valerio Massimino Daja (seconda tetrarchia). Questo regolamento della successione imperiale è, tuttavia, di breve durata per la ricomparsa di Massimiano sulla scena politica e i turbamenti che ne conseguono. Nel 308 i Cesari vengono adottati come figli e nel 310 elevati anch'essi al rango di Augusti: Galerio, Massimino, Licinio e Costantino. Con successive eliminazioni in scontri bellici, dal 324 Costantino rimane unico monarca.
A Roma, nella Biblioteca Vaticana, si conservano due colonne monolitiche gemelle, in porfido, alte m 3,85; a due terzi del fusto ciascuna reca una mensola sulla quale posa una coppia di figure in altorilievo, unite in un simbolico gesto di abbraccio. Alti circa cm 56, i personaggi, tutti barbati, sono qualificati come imperatori dagli attributi: la corona di lauro sul capo e il globo che sostengono colla mano protesa. Indossano un abito militare, con tunica manicata e brache fino ai piedi, corazza che termina in basso con una fascia gemmata da cui pendono le pteryges, stivali e paludamentum allacciato sulla spalla destra; alla cinta portano spade, di cui si scorgono i puntali piatti (v. vol. ii, fig. 1025).
A Venezia, murati sulla cantonata del Tesoro di S. Marco, si conservano soltanto i rilievi con i gruppi imperiali; ma la superficie curva del fondo e la forma della mensola assicurano che in origine dovevano appartenere a colonne sul tipo delle vaticane. Uno solo dei gruppi è monolitico, l'altro era scolpito su tre blocchi accostati, uno dei quali oggi è perduto, e la figura di sinisira del gruppo è incompleta; non mancano altre lacune e rotture minori. Le dimensioni sono notevolmente superiori a quelle dei rilievi vaticani: i personaggi sono raffigurati a circa due terzi del vero, e le colonne raggiungevano forse (secondo un calcolo fatto dal Delbrück in base al modulo di quelle vaticane) i 7-8 m d'altezza. Quanto all'iconografia, vi sono alcune differenze rispetto ai gruppi romani. In primo luogo, in ogni coppia imperiale uno soltanto dei personaggi è barbato, mentre l'altro ha il volto glabro. L'abito, sostanzialmente identico, è tuttavia reso con maggior ricchezza di dettagli; la corazza è attraversata da un cinturone gemmato; coperte di gemme sono pure le scarpe allacciate (campagi) e i foderi delle lunghe spade con manico a testa d'aquila, che impugnano nella mano sinistra al posto del globo. In testa recano un copricapo cilindrico con fori per applicarvi una corona o per inserirvi pietre preziose. Come ben sottolineò lo Strzygowski, molti dettagli dovevano essere aggiunti con il colore (particolarmente gli occhi), con paste vitree (le gemme ornamentali), e a sfoglia d'oro (squame delle corazze), con una vivacità cromatica di grande effetto (v. vol. vi, fig. 415).
La tipologia dei monumenti risale a modelli orientali (Strzygowski): un confronto stringente si ha nella via colonnata di Palmira, dove mensole analoghe sostenevano statue onorarie oggi perdute. Possono essere ricordate anche le due colonne in porfido del Louvre, che recano busti di Nerva e Traiano, ma che sono probabilmente opera del IV secolo.
Manca ogni dato sicuro sulla provenienza dei rilievi. Quelli romani sono ricordati dal 1479, allora nella Cappella Paolina del vecchio S. Pietro; la loro provenienza da Roma (Tempio del Sole o Mausoleo di Romolo al Foro) non è però del tutto sicura. Quelli veneziani, Fr. Sansovino (1581) dice provenienti dal saccheggio di Acri (1258); ma gli Annales Ianuenses, che narrano quell'episodio, nominano altri antichi monumenti frutto del bottino, ma non i gruppi dei Tetrarchi. Puramente congetturale l'ipotesi di una provenienza da Roma; quella da Costantinopoli sembra ora confermata.
La identificazione con i quattro regnanti della prima tetrarchia è ormai tradizionale; proposta già da E. Q. Visconti per i monumenti vaticani e dal Cicogna per quelli di S. Marco, è tuttora seguita dalla maggioranza degli studiosi. Ma non vi è accordo sul riconoscimento dei singoli personaggi e, in primo luogo, se le due coppie raffigurino l'una gli Augusti e l'altra i Cesari, oppure se ognuna rappresenti l'abbraccio di un Augusto con il proprio Cesare. Ambedue le tesi hanno argomenti a loro favore; i sostenitori della prima (tra cui il Delbrück e il L'Orange) osservano tra l'altro che in uno dei due gruppi, a Venezia come a Roma, i personaggi hanno un volto dai tratti più sottili, ciò che si adatterebbe ai due T. più giovani, i Cesari, contrapposti all'anziana coppia degli Augusti. Contro l'identificazione comune non sono mancate riserve ed obiezioni. Superate quelle del Wilpert da lavori successivi, di recente sono state formulate altre ipotesi che, con argomentazioni di vario genere, rifiutano di riconoscere i T. nei rilievi porfirei e abbassano la cronologia di entrambi i gruppi (Cagiano, il quale ritiene aggiunta in epoca posteriore la barba di due delle figure veneziane) o di quelli di Venezia soltanto (Verzone, Ragona). Tutte, in vero, posano su basi opinabili e hanno approdato a risultati poco persuasivi; muovono però da un principio che appare valido, cioè la possibilità di considerare separatamente i rilievi di S. Marco e quelli di Roma (anche se strettamente collegati per iconografia e stile) ed eliminare il postulato, a rigore non necessario, che gli uni e gli altri rappresentino gli stessi personaggi.
Saldamente ancorati all'età della prima tetrarchia sembrano i gruppi di Roma. La barba, sul viso di tutti gli imperatori, costituisce un preciso dato cronologico: è una moda antica che, salvo occasionali reviviscenze, può considerarsi tramontata con Costantino; e nella stessa epoca anche la corona di lauro viene in pratica definitivamente sostituita dal diadema. Ma soprattutto vanno riconfermate le strettissime affinità di stile che collegano i rilievi alle effigi monetali dei primi e dei secondi T.: affinità che divengono prova quando li si ponga a confronto con un bronzo battuto a Nicomedia con nome di Costanzo Augusto, ma probabilmente con l'effigie di Galerio (Maurice, iii, tav. i, 1).
Nuova è l'iconografia, come nuova e la forma politica dello Stato dioclezianeo; e così rara, che è dato ritrovarla soltanto in un avorio copto di Trieste con l'abbraccio dei Dioscuri (v. copta, arte), che giustamente il Cagiano pone in stretta relazione concettuale coi nostri gruppi; o in più tarde iconografie cristiane. Di per sé il gesto potrebbe essere forse interpretato come l'antica forma di saluto per abbraccio, un tempo assai comune (i cotidiana oscula: cfr. Suet., Tib., 34, 2), ma che dal III sec. riservato ai soli pari grado (Alföldi), viene ad assumere il significato particolare del riconoscimento di una uguaglianza nella comune dignità. A spiegarlo, non basta quindi il concetto tutt'altro che nuovo di Concordia Augustorum che, del resto, ha una diversa formulazione iconografica sui rovesci monetali; e neppure sembra soddisfacente il concetto della fratellanza, la ellenistica adelphòtes, anche se gli Augusti si considerano fratelli nelle iscrizioni (per esempio in quella di Tuscania) e nei panegirici (germani geminive fratres: Cl. Mamert., Genethl. Max. Aug., vi). Forse, in questa simbolica forma si esprime l'ordinato equilibrio delle successioni, il regolare trapasso dei poteri dagli Augusti ai Cesari, in una parola la continuità del sistema dinastico dioclezianeo; vicino sembra il concetto di Perpetuitas sulle monete. Nel rinnovarsi delle dinastie dei "Giovii" e degli "Erculii" consiste quindi la stabilità dell'Impero, l'assetto del cosmo: si può congetturare che le colonne fossero sormontate proprio dalle statue di Giove e di Ercole, divini garanti della carismatica virtù imperiale e della sua trasmissione.
In questo orizzonte concettuale è anche possibile intendere un fenomeno che ha lasciato interdetti alcuni studiosi: la mancanza nei nostri rilievi di quella differenziazione gerarchica tra Augusti e Cesari, così chiaramente affermata nella diversa titolatura. Ma, in questo periodo, il concetto di autorità richiede la pienezza dei poteri e perciò la totale equiparazione nella simbologia; e assicura la unicità dell'impero pur attraverso la divisione territoriale. Come i titoli conferiti per le vittorie sono comune patrimonio di tutti i T., chiunque sia stato effettivamente l'imperatore vittorioso, così a tutti, nei nostri rilievi, è dato l'attributo del globo, emblema di ecumenica signoria che, per sua stessa natura, non potrebbe conciliarsi con la pluralità dei dinasti: contrastanti sul piano logico, i due concetti trovano in questa sfera la loro compenetrazione. Con una singolare analogia, i T. sono glorificati nelle iscrizioni quali reparatores orbis sui (C.I.L., iii, 133; cfr. anche Dessau, 641 e 5786).
Questa formulazione, così precisa, deve considerarsi un punto d'arrivo nella iconografia tetrarchica, come la stessa dottrina politica che Diocleziano andò elaborando lentamente (Seston). Un ordine di concetti più tradizionale è espresso nell'Arco di Galerio: i Cesari, in piedi, presentano le province conquistate agli Augusti assisi in trono sopra i simboli dell'ecumene; attorno sono Virtus, Marte e altre figurazioni allegoriche. Predomina qui il tema della pace vittoriosa nell'Impero, la quies in aeternum fundata (cfr. l'Edictum de pretiis, Dessau, 642), da cui discende la nuova èra di prosperità, l'aureum, frugiferum saeculum, come si esprimono iscrizioni e panegiristi. Perciò nella perduta erma Jerichau il volto di Diocleziano era associato a quello di Saturno-Kronos, il dio dell'età dell'oro, e in quelle di Salona i T. sono uniti a figurazioni di propiziatrici divinità fluviali.
Quanto ai rilievi di Venezia, il Ragona ha proposto di riconoscervi gli imperatori della tetrarchia stabilita dopo il congresso di Carnuntum (308). Senza barba sarebbero rappresentati i due imperatori più giovani, e ciò corrisponde all'iconografia di Costantino; forse anche a quella di Massimino (ma non sulle monete) se a lui appartiene la testa in calcare di Berlino. L'ipotesi potrebbe trovare un appoggio in un frammento di rilievo porfireo, in tutto simile ai gruppi veneziani (con cui concordano le misure e ogni dettaglio di tecnica e stile) trovato a Nis (Naissus), la città natale di Costantino, che egli abbellì con splendidi edifici. Comunque è indubbio che, rispetto a quelli di Roma (da cui pur muovono) i rilievi veneziani rappresentano uno stadio iconograficamente più avanzato: gli ultimi simboli tradizionali, il globo e la corona di lauro, sono sostituiti dal berretto "pannonico" del costume militare contemporaneo e dallo spadone piatto a testa d'aquila, di probabile origine persiana, e che trova infatti confronti nel mondo sassanide (basta citare i rilievi di Shapur I a Bishapur e a Naqsh-i Rustam, e la gemma parigina con la cattura di Valeriano: v. sassanide, arte; shapur). Alla Persia riporta anche l'intenso impiego delle gemme, e ricorda gli elementi orientali introdotti da Diocleziano nel costume di corte: primus... ornamenta gemmarum vestibus calceamentisque indidit (Eutrop., ix, 26). Consimili espressioni, con intento di biasimo, sono assai frequenti nelle fonti dell'epoca e pur rientrando nella topica antitirannica greco-romana (Aiföldi) sembrano qui trovare una conferma e una concreta motivazione.
Il frammento del museo di Nis (Jugoslavia) mostra che i monumenti dei T. dovevano essere più numerosi di quanto si pensasse, e toglie necessità all'ipotesi di una provenienza costantinopolitana dei gruppi veneziani. È però vero che a Costantinopoli se ne fecero delle repliche, come mostra uno scadente torsetto marmoreo trovato a Istanbul, dal costume praticamente identico, che ripete il motivo dell'abbraccio. Che si tratti di una copia, lo dimostra il fatto che, pur eseguito a tutto tondo, esso è, anche tecnicamente, trattato come un rilievo.
Sulla identificazione dei singoli personaggi rappresentati, regna come si è visto, grande disparità di opinioni. In parte questo dipende dalle nostre scarse conoscenze sull'iconografia di alcuni imperatori, per esempio Massimiano, in conseguenza della damnatio memoriae. Ma un fenomeno analogo si riscontra sulle monete. Il Maurice ha ben messo in evidenza il continuo scambio delle immagini dei T. in monete battute con uno stesso nome; alcune zecche creano perfino tipi generici (le "effigi banali") copiate da altre monete e adattabili ad ogni dinasta. Egli ha perciò stabilito il principio che le monete utili a ricerche iconografiche sono, per ciascun imperatore, soltanto quelle emesse nelle province a lui appartenute; e a spiegare le sostituzioni d'effigie, ha addotto motivi di politica finanziaria; certo plausibili, ma che non giustificano interamente la portata del fenomeno. Esso corrisponde in realtà ad un totale scadimento dell'interesse per il ritratto fisionomico (v. ritratto), che è carattere peculiare di questa epoca (L'Orànge, Castelfranco): ciò che i nostri monumenti vogliono rappresentare sono, non tanto le fattezze dei dinasti, quanto ormai solo i simboli di un sistema politico.
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