Abstract
Il testimone de relato narra un fatto che egli non ha percepito direttamente, ma che dichiara di aver appreso da un altro soggetto. In tale ipotesi si rende necessario accertare l’attendibilità sia del testimone indiretto che di quello diretto. Per tale motivo il legislatore pone delle condizioni alla utilizzabilità della testimonianza indiretta. In primo luogo, è richiesto che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte «da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame». In secondo luogo, allorché una delle parti chieda che venga esaminata nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto, il giudice è obbligato a disporne la citazione. L’omissione della citazione implica la inutilizzabilità della prova assunta.
Al di là delle molteplici definizioni attribuite alla testimonianza indiretta, l’ampia locuzione di cui all’art. 195, co. 1, c.p.p. sembra racchiudere due diverse situazioni, riconducibili rispettivamente alle species della testimonianza indotta e della testimonianza indiretta. Nella prima ipotesi il testimone indica qualcuno come persona informata sui fatti, senza riferirne le dichiarazioni (Santini, E., Sub art. 195, in Comm. breve c.p.p. Conso-Grevi, Padova, 2005, 590 ss.). Si ha testimonianza indiretta, invece, quando il testimone narra un fatto che egli non ha percepito direttamente (Tonini, P., Manuale di procedura penale, Milano, XII, 2016, 288 ss.), ma che dichiara di aver appreso da un altro soggetto (cd. teste di riferimento), il quale, a sua volta, può avere percepito personalmente il fatto (teste diretto) oppure può averlo sentito dire da altra persona (teste indiretto). A seconda che venga attribuita rilevanza all’intenzione comunicativa del soggetto che ha reso l’informazione originaria si distinguono due orientamenti interpretativi. Per il primo orientamento rientrano nell’area della testimonianza indiretta soltanto le comunicazioni, ossia parole, simboli grafici, gesti, espressioni fisiognomiche e qualunque altro atteggiamento umano idoneo a comunicare e finalizzato a farlo. Non vi rientrano, invece, le comunicazioni caratterizzate da funzione operativa o esecutiva, come ad es., ordini, minacce, promesse, avvertimenti, «perché solo quando riporta una descrizione o una dichiarazione altrui il testimone “si riferisce per la conoscenza dei fatti ad altre persone” (art. 195 co. 1°) e può dirsi indiretto» (Nappi, A., Guida al codice di procedura penale, X ed., Milano, 2007, 453). Viceversa, l’orientamento alternativo, ponendo l’accento sulla obiettiva conoscenza conseguita dal soggetto, che non ha percepito personalmente il fatto da provare che sta narrando ma che gli è stato, invece, rappresentato da un’altra fonte con parole o comportamenti, fa rientrare nell’area della testimonianza indiretta anche i cosiddetti enunciati performativi, i quali non costituiscono un racconto che possa essere valutato in termini di verità o falsità, bensì parole utilizzate per ottenere un risultato e, pertanto, valutabili in termini di efficacia o inefficacia. Di tal guisa, vengono ricondotte nell’ambito della testimonianza indiretta anche le asserzioni implicite ovvero espressioni verbali o comportamenti, che, pur non finalizzati a comunicare o asserire alcunché, attestano una determinata situazione di fatto, avendo la persona parlato o agito sul presupposto della stessa. A tal proposito va rimarcato che il comma 5 dell’art. 195 c.p.p. stabilisce che la disciplina della testimonianza indiretta si applica anche quando la comunicazione sia avvenuta in forma diversa da quella orale. Ne consegue che essa deve applicarsi non solo al testimone che riferisca comunicazioni informative – ricevute anche in forma diversa da quella orale – ma anche al testimone che riferisca comportamenti comunque significativi, come un gesto di saluto (Cordero, F., Procedura penale, XI, Milano, 2012, 684; Di Paolo, G., Testimonianza indiretta, in Dig. pen., Aggiornamento, III.2, Torino, 2005, 1685 ss.; Nappi, A., Guida al codice di procedura penale, cit., 386 ss.; Santini, E., Sub art. 195, cit., 593 ss.). Peraltro, la giurisprudenza ha individuato alcune ipotesi che non costituiscono testimonianza indiretta. Ad esempio, non può considerarsi testimonianza indiretta la rappresentazione di fatti ai quali il teste ha assistito solo per una parte, ma che tuttavia consente di ricostruire per intero, sia pure in via di logica consequenzialità, i medesimi fatti nella loro totalità (Cass. pen., 23.3.1998, n. 5285, Calia, in C.E.D. Cass., n. 210542). È, inoltre, esclusa la possibilità di richiamo, tramite testimonianza indiretta, sia per le dichiarazioni rese in corso di indagine dai prossimi congiunti che si astengano dal deporre in dibattimento (Cass. pen., 29.3.1999, n. 6294, Femia, in Giur. it., 2000, 367 ss.), sia per le dichiarazioni rese in riferimento a persone che non facciano parte dei testi già citati o, qualora ne facciano parte, non siano già state sentite su ciò che forma oggetto della testimonianza indiretta (Cass. pen., 16.5.2002, N. 23161, Calabrò, in C.E.D. Cass., n. 221500). Infine, mette conto di rilevare che la disciplina dettata dall’art. 195 c.p.p. è applicabile, ex art. 209, co. 1, c.p.p., anche all’esame delle parti private diverse dall’imputato (parte civile, responsabile civile, civilmente obbligato per la pena pecuniaria), nonché all’esame di persona imputata in un procedimento connesso, ex art. 210, co.1 e 5, c.p.p. (Sturla, M. T., Sub art. 195, in Commento al codice di procedura penale, a cura di P. Corso, Piacenza, 2008, 759; Triggiani, N., Sub art. 195, in Comm. c.p.p. Giarda-Spangher, I, Milano, 2010, 1936).
Attraverso l’esame incrociato è possibile accertare la credibilità e l’attendibilità del testimone che ha avuto una conoscenza personale del fatto da provare, consentendo il codice di rito penale che siano fatte le contestazioni e poste le domande-suggerimento nel controesame (Tonini, P., Manuale di procedura penale, cit., 289). Viceversa, essendo affette da un grave deficit di contraddittorio (Bonzano, C., I mezzi di prova, in Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti, G.-L. Kalb, I, Soggetti. Atti. Prove, a cura di G. Spangher, Torino, 2015, 829), il codice pone alcune condizioni alla utilizzabilità delle informazioni apprese da altri, affinché possa essere effettuato il controllo sulla credibilità della persona da cui si è sentito dire e sull’attendibilità di quanto è stato riferito. La prima condizione richiede che il testimone indiretto indichi la persona o la fonte da cui ha appreso la notizia dei fatti oggetto dell’esame. Quindi, nel caso in cui non sia individuato il teste diretto o, comunque, la fonte (ad esempio, il documento) da cui si è appreso il fatto riferito, la testimonianza non è utilizzabile (Tonini, P., op. cit., 290), in quanto la mancata individuazione della fonte impedisce, anche astrattamente, di valutare la credibilità e l’attendibilità di quanto è stato riferito (Triggiani, N., Sub art. 195, cit., 1937). Tuttavia, la testimonianza indiretta è utilizzabile in caso di irreperibilità del testimone primario, ma non qualora ne risulti impossibile l’identificazione (Cass. pen., 25.6.2001, n. 32464, Busatta, in C.E.D. Cass., n. 219702); e comunque, in ogni caso, allorquando sia impossibile l’esame del soggetto nel quale si identifica l’originaria fonte della notizia sui fatti (Cass. pen., 2.10.2003, n. 37434 , Postiglione, in C.E.D. Cass., n. 226036). La testimonianza de relato è anche utilizzabile allorché il soggetto nel quale si identifica l’originaria fonte della notizia dei fatti, sottoposto a esame, si avvale del diritto di non rispondere (Cass., S.U., 14.5.2013, n. 20804, Aquilina, in C.E.D. Cass., n. 255142). La seconda condizione opera soltanto quando una delle parti chiede che venga sentita nel processo la persona che ha avuto conoscenza diretta del fatto; in tal caso, il giudice è obbligato a disporne la citazione. Se il giudice non dispone la citazione la testimonianza indiretta non è utilizzabile (cfr. Cass. pen., 30.9.2015, n. 1620, Z., inedita, secondo cui l’inutilizzabilità della testimonianza indiretta può essere comminata solo quando, nonostante l’espressa richiesta della parte processuale che vi ha interesse, il giudice ometta la citazione del teste diretto, pur essendo possibile procedere ad esame). Se, viceversa, nessuna delle parti ha chiesto la citazione, la testimonianza indiretta è comunque utilizzabile (Tonini, P., op. cit., 290). In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità che ritiene utilizzabili le dichiarazioni de relato anche al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dall’art. 195, co. 3, c.p.p., quando le parti rinunciano espressamente all’assunzione del teste di riferimento (Cass. pen., 15.1.2008, n. 2001, G. R., in Dir. pen. e processo, 2008, 1117 ss.). In conclusione, la inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato va circoscritta al caso in cui il giudice abbia omesso la citazione dei testimoni diretti, nonostante l’espressa richiesta, che, fra l’altro, può essere avanzata fino all’inizio della discussione, dal momento che solo dopo l’escussione del testimone la parte è in grado di conoscere se le circostanze riferite siano frutto di conoscenza diretta o apprese da altri (Cass. pen., 9.5.2002, n. 43464, p.m. in c. Pinto, in Ind. pen., 2003, 713 ss.; contra Cass. pen., 10.10.2006, n. 761/07, Randazzo, in Cass. pen., 2008, 707 ss., secondo cui la richiesta può essere presentata nel momento stesso in cui un testimone si riferisce per la conoscenza dei fatti ad altre persone). In via eccezionale, la testimonianza indiretta è utilizzabile quando l’esame diretto risulti impossibile per morte, infermità o irreperibilità. La giurisprudenza maggioritaria ritiene tali casi non tassativi, bensì aperti ad un controllo caso per caso della impossibilità oggettiva di assumere la testimonianza diretta (cfr. Cass. pen., 13.3.1997, n. 7947 , Mandalà, in Cass. pen., 1998, 2424 ss., che ha escluso la illogicità della motivazione dei giudici di merito i quali avevano ritenuto impossibile l’esame di una bambina di circa tre anni – che aveva fornito ad alcune persone, poi esaminate nel corso del dibattimento, indicazioni utili per l’identificazione dell’autore dell’omicidio del padre cui aveva assistito – assimilando la tenerissima età della piccola ad una sorta di “infermità” mentale, potendo sussistere in entrambi i casi una totale incapacità di discernimento tra la realtà e la fantasia). È stato, inoltre, precisato che il giudice, ai sensi dell’art. 195, co. 2, c.p.p. può disporre anche d’ufficio l’audizione del teste di riferimento, ma l’omesso esercizio di tale potere officioso non rende inutilizzabile la deposizione de relato (Cass. pen., 25.1.2007, n. 6522, in Cass. pen., 2008, 2030 ss.). Tuttavia, sul tema non sono mancate decisioni di segno contrario (cfr. Cass. pen., 7.6.2002, n. 32144, in Cass. pen., 2004, 610 ss., secondo cui deve considerarsi tassativa l’elencazione dei casi in cui, divenendo impossibile l’esame del soggetto indicato quale fonte primaria, per morte, infermità o irreperibilità, la norma di cui al comma 3 dell’art. 195 c.p.p. consente l’utilizzazione delle dichiarazioni rese dal testimone de relato). Venendo al concetto di irreperibilità, va rimarcato che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che esso, con riferimento alla «irreperibilità del testimone idonea ad impedire l’operatività del divieto comprende non solo la nozione tecnica ricavabile dall’istituto previsto per l’imputato – impossibilità di rintracciare e citare – ma anche l’impossibilità di identificazione, che ne costituisce l’antecedente storico» (Cass. pen., 22.3.2011, n. 17107, Cocca, in C.E.D. Cass., n. 250252). È discusso, invece, se la testimonianza indiretta possa essere utilizzata anche qualora l’impossibilità di ripetizione risultasse prevedibile ex ante (sul punto cfr. Cass. pen., 25.9.2000, n. 3059, Galliera, in Cass. pen., 2002, 616 ss.). In ogni caso, la nozione di irreperibilità presuppone che sia già stato individuato il teste di riferimento (Cass. pen., 2.3.2010, n. 12916, Hoxha, in C.E.D. Cass., n. 246611). A chiusura delle rigide regole dettate in materia di testimonianza indiretta, il codice prevede un divieto relativo all’oggetto della stessa (Bonzano, C., I mezzi di prova, cit., 825 ss.). Sono, infatti, inutilizzabili, in quanto non acquisibili, ex art. 195, co. 6, c.p.p., le dichiarazioni concernenti fatti appresi da persone vincolate da segreto professionale o d’ufficio, salvo che queste abbiano comunque divulgato tali fatti. Sebbene la norma richiami solamente gli artt. 200 e 201 c.p.p., la dottrina prevalente ritiene che i testimoni non possano essere esaminati neanche su notizie apprese da altri in materia di segreto di Stato. Ciò perché una interpretazione letterale della norma porterebbe alla conseguenza assurda di ritenere il segreto su fatti di importanza vitale per lo Stato meno garantito del segreto professionale e del segreto d’ufficio, essendo esso rivelabile in via indiretta (Calamandrei, I., Sub art. 195, in Commento c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 435; Di Martino, C., Prova testimoniale II) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1 ss.; Di Paolo, G., Testimonianza indiretta, cit., 1673 ss.; Grevi, V., Prove, in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi-M. Bargis, VIII ed., Padova, 2016, 306; Grifantini, F., Segreto di Stato e divieto probatorio nel codice di procedura penale 1988, in Giust. pen., 1989, III, 539 ss.; Scalfati, A., Interessi in conflitto: testimonianza e segreti, in AA.VV., Verso uno statuto del testimone nel processo penale, Milano, 2005, 160 ss.; Spangher, G., La pratica del processo penale, III, Padova, 2014, 490). Un orientamento minoritario ritiene, invece, che, non essendo espressamente richiamato l’art. 202 c.p.p. dall’art. 195, co. 6, del medesimo codice, non vi sarebbero ostacoli alla testimonianza indiretta su notizie apprese da persone tenute al segreto di Stato (Cordero, F., Procedura penale, cit., 701). Infine, una ulteriore e delicata questione in tema di utilizzabilità della testimonianza indiretta attiene alla valutazione delle chiamate in reità de relato nel caso in cui l’imputato – principale ovvero connesso o collegato – chiamato a deporre, si avvalga della facoltà di non rispondere. Di recente le Sezioni Unite sono state chiamate a chiarire se in tali ipotesi due chiamate di tal guisa possano riscontrarsi reciprocamente. Alla luce del principio di atipicità dei riscontri, ex art. 192, co. 3, c.p.p., hanno escluso l’ammissibilità di ulteriori limiti non previsti espressamente dalla legge. Pertanto, in presenza di dichiarazioni così delicate ancora più pregnante dovrà risultare la motivazione sull’attendibilità intrinseca oggettiva e soggettiva, conseguendone l’obbligo di un’indagine ancora più scrupolosa sulla causa scientiae del dichiarante (Cass., S.U., 14.5.2013, n. 20804, Aquilina, in C.E.D. Cass., n. 255142).
Sul valore probatorio della testimonianza indiretta si sono formati diversi orientamenti giurisprudenziali e dottrinali. Per una parte della giurisprudenza alla testimonianza indiretta sarebbero applicabili le regole e i principi stabiliti in tema di chiamata in correità dall’art. 192, co. 6, c.p.p., stante l’idoneità di ratio delle due norme: consentire un controllo sulle dichiarazioni del teste de relato. Quindi, al giudice sarebbe imposto di verificare le dichiarazioni indirette attraverso il riscontro con altri elementi di prova (Cass. pen., 5.3.2004, n. 26027, Pulcini, in Cass. pen., 2006, 2235 ss.; Cass. pen., 28.2.1997, n. 4473, Bagarella, in Riv. pen., 1998, 205 ss.; Cass. pen., 20.5.1992, n. 7946, Aversa, in Giur. it., 1993, II, 597 ss.). Un altro indirizzo giurisprudenziale sostiene, invece, che non è necessario che il giudice compia la verifica sull’esistenza di altri elementi di prova che confermino l’attendibilità della dichiarazione: ciò in base alla considerazione che, mentre la dichiarazione resa al giudice da chi è coinvolto negli stessi fatti addebitati all’imputato può, per sua natura, ingenerare un erroneo convincimento, tanto che la legge pretende per la chiamata di correo maggior rigore valutativo e necessario riscontro probatorio, nell’ipotesi di testimonianza indiretta il racconto del referente è fatto fuori del processo, sicché la cautela imposta dal legislatore è limitata al controllo delle fonti di conoscenza del testimone de relato (Cass. pen., 17.1.1997, n. 4976, p.m. in c. Accardo, in C.E.D. Cass., n. 207843). In realtà, il problema della valutazione della testimonianza indiretta va affrontato in una duplice prospettazione: a seconda che vi sia stata o meno la deposizione del teste di riferimento. Nel caso in cui il teste di riferimento sia stato escusso, ed abbia reso dichiarazioni difformi rispetto a quelle rese dal testimone indiretto, secondo un primo indirizzo giurisprudenziale, il giudice non può effettuare una valutazione comparativa tra le due deposizioni, come di norma avviene in presenza di testimonianze tra di loro in contrasto, dando eventualmente attendibilità a quella de relato piuttosto che a quella del teste di riferimento; viceversa, il giudice dovrebbe valutare solo la testimonianza diretta, rappresentando la testimonianza indiretta un mero elemento indiziario privo di credibile riscontro e dunque inidoneo a fondare un giudizio di colpevolezza (Cass. pen., 4.6.1996, n. 8151, p.m. in c. Scarriglia, in Giust. pen., III, 1998, 62 ss.). Un altro orientamento giurisprudenziale, invero maggioritario, sulla scorta del rilievo secondo cui nel codice non è dato rinvenire alcuna disposizione che predetermini il valore probatorio della testimonianza indiretta, quando essa risulti ammissibile ed utilizzabile, ritiene che il giudice possa valutare comparativamente le due deposizioni, al limite dando attendibilità a quella de relato in base al principio generale del libero convincimento sancito dall’art. 192, co. 1, c.p.p.; il legislatore, infatti, non ha posto una gerarchia tra i mezzi di prova, tale da privilegiare la testimonianza della fonte diretta (Cass. pen., 30.11.2007, n. 2010, Vitielllo, in Giur. it., 2008, 2597 ss.; Cass. pen., 4.10.2004, n. 46556, Biancoli, in Guida dir., 2005, 5, 60 ss.; Cass. pen., 6.2.2004, n. 15006, Bossio, in C.E.D. Cass., n. 227537; Cass. pen., 21.12.1999, n. 1717, p.m. in c. Modeo, in Cass. pen., 2001, 972 ss.). La prevalente dottrina concorda con questo orientamento (Balsamo, A.-Lo Piparo, A., La prova “per sentito dire”. La testimonianza indiretta tra teoria e prassi applicativa, Milano, 2004, 393; Lozzi, G., Lezioni di procedura penale, Torino, 2014, 236; Ramajoli, S., La prova nel processo penale, Padova, 1995, 76; Santini, E., op. cit., 598; Scaparone, M., Procedura penale, I, Torino, 2008, 334; Tonini, P., op. cit., 291; Triggiani, N., op. cit., 1939). Quando, invece, manchi la deposizione del teste di riferimento, e quella del testimone indiretto sia ugualmente utilizzabile (per morte, infermità o irreperibilità del teste di riferimento, oppure perché non sia stata formulata dalle parti alcuna richiesta di citazione dello stesso, e il giudice non abbia ritenuto di provvedervi d’ufficio), il giudice dovrà valutarla con particolare rigore: esigendo i riscontri previsti per la chiamata di correo (Cass. pen., 28.2.1997, n. 4473, Bagarella, in Cass. pen., 1998, 2426 ss.; App. Milano, 12.5.2000, in Foro ambr., 2001, 30 ss.; App. Milano, 5.7.2000, in Foro ambr., 2001, 77 ss.), oppure, applicando i meccanismi confermativi di cui all’art. 192, co. 2, c.p.p., dovendosi la testimonianza indiretta non confermata, a differenza della chiamata di correo, qualificarsi come indizio, e non come prova (Cass. pen., 3.9.1996, n. 2071, Franco, in Giust. pen., III, 1997, 327 ss.; Cass. pen., 3.5.1996, n. 8610, Nocchiero, in Cass. pen., 1997, 3539 ss.; Cass. pen., 28.4.1995, n. 17886, Vollaro, in Arch. nuova proc. pen., 1996, 159 ss.). Nel caso in cui si abbiano plurime chiamate in reità de relato, esse sono idonee, ex art. 192 c.p.p., a costituire riscontro alla chiamata in correità (Cass. pen., 25.2.2004, n. 24249, Rotondale, in C.E.D. Cass., n. 228550). Quando, tuttavia, la dichiarazione de relato dei collaboratori di giustizia si riferisca a fatti appresi dagli stessi imputati, i quali non possono essere chiamati a rendere dichiarazioni che possano pregiudicare la propria posizione, non si applica la disciplina dell’art. 195 c.p.p., fermi restando i criteri di particolare rigore nella valutazione di tali elementi probatori (Cass. pen., 13.3.2003, n. 552 , Attanasi, in C.E.D. Cass., n. 227021). Quanto all’ipotesi di irreperibilità del testimone (che, ai sensi dell’art. 195, co. 3, c.p.p., rende utilizzabili le dichiarazioni relative a fatti che lo stesso ha riferito aver appreso da altri), essa ha fondamento e disciplina del tutto diversi rispetto a quelli relativi alla irreperibilità dell’imputato, perché le norme che prevedono la necessità di disporre ricerche di quest’ultimo, in caso di impossibilità di notificargli atti processuali, non sono applicabili anche al teste, atteso che esse rispondono alla esigenza di assicurare il diritto di difesa: ne consegue che, di fronte alla impossibilità di notificare la citazione al testimone, è sufficiente a far ritenere la sua irreperibilità l’effettuazione di accertamenti anagrafici, che abbiano dato esito negativo (Cass. pen., 6.12.2000, n. 6888, Angemi, in C.E.D. Cass., n. 218269).
Le alterne vicissitudini dell’art. 195, co. 4, c.p.p., secondo cui «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto» delle dichiarazioni acquisite dai testimoni sono note. La norma, nella sua prima versione, stabiliva un divieto a tutela del contradditorio nella formazione della prova. Divieto travolto dalla Corte costituzionale nei primi anni ‘90. Il Giudice delle leggi, infatti, con una delle decisioni più criticate dall’entrata in vigore del nuovo codice di rito penale, dichiarava l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost., della disposizione in questione (e dell’art. 2, direttiva n. 31, l. 16.2.1987, n. 81), nella parte in cui vietava l’utilizzazione agli effetti del giudizio, attraverso la testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad essa rese da testimoni (C. cost., 31.1.1992, n. 24, in Foro it., 1992, I, 1052 ss.), in base all’assunto che gli appartenenti alla polizia giudiziaria hanno capacità di testimoniare, ex art. 196 c.p.p., alla pari di ogni altra persona – né possono ritenersi meno affidabili del testimone comune – e che nei loro confronti non è prevista dall’art. 197 c.p.p. alcuna incompatibilità a deporre. Le diverse problematiche sollevate dalla decisione costituzionale de qua sono state superate dalla riforma introdotta dalla l. 1°.3.2001 n. 63, in sede di attuazione dei principi costituzionali del giusto processo. In tale ottica, è stato introdotto nel comma 4 dell’art. 195 c.p.p. il divieto per gli ufficiali e gli agenti di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite dai testimoni, con le modalità di cui agli artt. 351, 357, co. 2, lett. a) e b) del codice di rito penale. La ratio che ha indotto il legislatore a vietare la testimonianza indiretta della polizia consiste nella volontà di evitare aggiramenti della regola in base alla quale in dibattimento le precedenti deposizioni sono utilizzabili soltanto ai fini delle contestazioni per stabilire la credibilità del dichiarante (art. 500, co. 2), è condivisa anche in dottrina (Tonini, P., op.cit., 293). Tuttavia, la ratio che presiede al divieto di deposizione de relato per gli organi di polizia giudiziaria è ben diversa da quella che presiede al divieto generale di testimonianza indiretta (Gaeta, P., Il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria (art. 195, co. 4, c.p.p.), in Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (l. 1° marzo 2001, n. 63), a cura di P. Tonini, Padova, 2001, 256), in quanto si vuole impedire all’ufficiale di polizia giudiziaria di deporre sugli atti acquisiti, nell’ambito del medesimo procedimento, in ragione dell’espletamento delle sue funzioni (Giostra, G., Equivoci sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e sacrificio del principio di oralità, in Riv. dir. proc., 1992, 1132).
«Il criterio distintivo tra i casi, nei quali la testimonianza indiretta della polizia è vietata, e quelli, nei quali è ammessa, resta legato al formale svolgimento della specifica funzione di assumere sommarie informazioni da possibili testimoni o di ricevere dichiarazioni dall’indagato (art. 357 lett. a e b). Pertanto “altri casi” ammessi per la testimonianza de relato sono quelli nei quali la polizia è chiamata a riferire su dichiarazioni ricevute fuori dall’esercizio delle sue funzioni; oppure su dichiarazioni percepite dalle persone informate sui fatti nel corso di attività tipiche come identificazioni, ricognizioni informali, sequestri, o atipiche quali appostamenti, pedinamenti. In tali ipotesi non opera il divieto ma si applicano le condizioni poste dai primi tre commi dell’art. 195» (Tonini, P., op. cit., 294). Tuttavia, l’equilibrio astratto ricercato dal legislatore viene spesso reso precario dalle più diversificate problematiche che si creano nella prassi applicativa delle norme processuali, che finiscono spesso per tradire l’originario intento. Il limite di operatività del divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria alle sole ipotesi di documentazione dell’attività investigativa con le modalità previste dall’art. 195, co. 4, c.p.p. sembrava consentire la testimonianza di tali soggetti anche su quelle dichiarazioni assunte de auditu, che dovevano e potevano essere ritualmente verbalizzate. In tal modo, si veniva a creare l’inaccettabile situazione per cui la violazione di un obbligo di documentazione imposto dalla legge consentiva l’elusione di un divieto posto a tutela di un principio costituzionale, in quanto, aderendo ad una interpretazione rigoristica del dettato normativo, l’ipotesi prospettata doveva ritenersi rientrante negli “altri casi” di cui all’art. 195, co. 4, seconda parte del codice di procedura penale. A dirimere il contrasto interpretativo sorto in riferimento a tale situazione, intervenivano le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass., S.U., 28.5.2003, n. 36747, Torcasio, in Cass. pen., 2004, 2094 ss.), limitando gli “altri casi” alle ipotesi in cui le dichiarazioni fossero state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza. Tuttavia, tale pronuncia sembrava ammettere la testimonianza indiretta degli operanti non tanto, in via generale, per le dichiarazioni che avrebbero dovuto essere oggetto di verbalizzazione e non lo erano state, quanto piuttosto per le fattispecie di “giustificazione” della omissione (Fanuli, G. L., La prova dichiarativa nel processo penale, Torino, 2007, 480; nello stesso senso, Potetti, D., Questioni sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Cass. pen., 2005, 2001), lasciando così aperto un possibile spiraglio a salvaguardia delle indagini. Sul punto si era formato, altresì, un indirizzo che riteneva ammissibile la testimonianza de relato qualora la polizia avesse omesso la verbalizzazione (Cass. pen., 11.7.2003, n. 10920, Buongarzone, in Foro it., 2003, II, 578 ss.; Cass. pen., 18.62002, n. 26414, Rossini, in Arch. nuova proc. pen., 2002, 516 ss.). La Corte costituzionale, però, ha ritenuto tale lettura irragionevole e lesiva «del diritto di difesa e dei principi del giusto processo» e, pertanto, con una sentenza interpretativa di accoglimento, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 195, co. 4, c.p.p., con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., «ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 comma 2, lett. a) e b), e non anche nel caso in cui, ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate» (C. cost., 30.7.2008, n. 305, in Guida dir., 2008, 38, 87 ss.). In dottrina, l’interpretazione è stata pienamente condivisa, in quanto evita la violazione, nella prassi applicativa, del divieto di testimonianza indiretta e tutela, quindi, il principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova (Aprati, R., Testimonianza indiretta della polizia giudiziaria sulle sommarie informazioni annotate e deroghe al principio della formazione della prova, in Cass. pen., 2004, 1014; Balsamo, A.-Lo Piparo, A., op. cit., 219 e 226; Caprioli, F., Palingenesi di un divieto probatorio: la testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura R.E. Kostoris, Torino, 2002, 59 ss.; Conti, C., Questioni controverse in tema di prova dichiarativa a quattro anni dalla legge n. 63 del 2001, in Cass. pen., 2005, 80; Curtotti Nappi, D., Equivoci “sugli altri casi” di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria: un probabile attentato al principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, 789 ss.; Illuminati, G., Inammissibile la testimonianza della polizia giudiziaria sul contenuto delle dichiarazioni non verbalizzate, in Cass. pen., 2003, 662 ss; Scaglione, A., Questioni in tema di divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Foro it., 2002, II, 397). Seppure apprezzabile sotto il profilo dell’effettività dei principi costituzionali coinvolti, l’intervento della Corte costituzionale lascia irrisolti i problemi applicativi legati ai criteri da adottare, nella prassi, per dimostrare (se davvero sia ipotizzabile un onere, in tal senso, in capo alla polizia giudiziaria) e, quindi, stabilire quando effettivamente siano da ritenersi sussistenti o meno le condizioni per procedere ad una rituale documentazione degli atti, tenendo anche conto del peso probatorio che le dichiarazioni riferite in sede di testimonianza de relato dall’agente o ufficiale di polizia giudiziaria possano assumere nel procedimento e, in particolare, quando esse depongano a sostegno della tesi accusatoria. In applicazione del nuovo disposto normativo in esame, ferma restando la preclusione in esso contenuta, la testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria è ammessa quando concerne dichiarazioni non a loro dirette e ricevute, ma solo percepite occasionalmente, con conseguente esclusione dell’obbligo di documentazione mediante processo verbale (Cass. pen. 8.2.2005, n. 10946, in C.E.D. Cass., n. 231224; nonché Cass. pen., 8.11.2004, n. 14550, in C.E.D. Cass., n. 231100). Di recente, anche le dichiarazioni accusatorie rese alla polizia giudiziaria ma non verbalizzate, sono state ritenute inutilizzabili (Cass. pen., 4.12.2013, n. 6386).
Il codice fa divieto di testimoniare sulle dichiarazioni comunque rese dall’imputato (o dall’indagato) in un atto del procedimento. L’ambito applicativo della norma si desume dal dettato dell’art. 62 del codice di rito penale. In primo luogo, il divieto ha natura oggettiva e cioè si riferisce a chiunque riceva le dichiarazioni, sia esso un testimone qualsiasi o un appartenente alla polizia giudiziaria. In secondo luogo, il divieto ha per oggetto “dichiarazioni” in senso stretto ossia espressioni di contenuto narrativo. Pertanto, sono riferibili le dichiarazioni che costituiscono una espressione di volontà o meri comportamenti. Infine, le dichiarazioni che non possono essere oggetto di testimonianza sono quelle rese nel corso del procedimento ovvero in occasione di un atto tipico e non già durante la pendenza del procedimento. Pertanto, non è vietata la deposizione sulle dichiarazioni aventi anche contenuto confessorio, rese al di fuori della specifica sede processuale a soggetti non preposti istituzionalmente a raccogliere in forma tipica le dichiarazioni degli indagati o imputati, che sono suscettibili di libero apprezzamento da parte del giudice di merito (Cass. pen., 26.2.2004, n. 25096, in Cass. pen., 2005, 1624 ss., ha ritenuto utilizzabile la testimonianza indiretta in ordine alle dichiarazioni rese dall’imputato al compagno di cella nel corso del dibattimento); così come il divieto non riguarda il contenuto delle dichiarazioni rese spontaneamente dall’imputato ad un agente di polizia al di fuori del contesto procedimentale, ovvero il contenuto di dialoghi intervenuti tra persone soggette alle indagini e percepito da agenti di polizia giudiziaria presenti per finalità diverse dall’accertamento dei fatti, in quanto si tratta di dichiarazioni raccolte per ragioni estranee al procedimento e non rappresentative di fatti antecedenti (Cass. pen., 16.2.2006, n. 6221, in Cass. pen., 2007, 1214 ss.). Il divieto riguarda, altresì, le dichiarazioni dell’imputato che abbiano valenza di prove, e non quelle che siano rilevanti come fatti storici, che devono essere necessariamente accertati mediante un processo penale. Tuttavia, la disciplina dettata in tema di testimonianza indiretta dall’art. 195 c.p.p. non può trovare applicazione, quando la fonte di riferimento sia costituita da soggetto che rivesta la qualità di imputato, in quanto in tal caso la fonte non può essere chiamata a rendere dichiarazioni che possono pregiudicare la sua posizione, con la conseguenza che è irrilevante accertare se la stessa abbia inteso sottrarsi o si sia di fatto sottratta all’esame testimoniale (Cass. pen., 8.10.2009, n. 4977, in C.E.D. Cass., n. 245580; Cass. pen., 25.3.2004, n. 26628, in Cass. pen., 2006, 1044 ss.). Più articolata processualmente e dibattuta in giurisprudenza è la questione relativa alla possibilità che la polizia giudiziaria deponga sulle dichiarazioni dell’imputato oggetto di intercettazione, finendo tale deposizione testimoniale per minare seriamente il diritto di difesa. A tal proposito, la giurisprudenza ha più volte affermato che, «in tema di intercettazioni telefoniche, il contenuto delle conversazioni intercettate può essere provato solo mediante la trascrizione delle registrazioni. Ne consegue che sono illegittimi l’ordinanza di ammissione della testimonianza e l’esame del teste ed è priva di valore probatorio la conseguente deposizione quando oggetto della testimonianza sia il contenuto di intercettazioni telefoniche non documentato mediante la trascrizione prevista dall’art. 268 c.p.p.» (Cass. pen., 5.12.2000, n. 9797, Reina, in C.E.D. Cass., n. 218316). Un diverso orientamento ritiene che «la deposizione testimoniale sul contenuto di intercettazioni telefoniche non è inutilizzabile, giacché la sanzione processuale dell’inutilizzabilità discende da espressi divieti di acquisizione probatoria ex art. 191 c.p.p. (inutilizzabilità generali), ovvero da una specifica previsione – che nel caso non è rinvenibile nell’ordinamento – della sanzione in relazione a un’acquisizione difforme dai modelli legali (inutilizzabilità speciali). Tuttavia, tale deposizione testimoniale – in quanto diretta a introdurre nel processo i risultati delle intercettazioni in una maniera difforme da quelle desumibile dalla disciplina di cui al capo IV del titolo III del codice di procedura penale, […] – deve ritenersi affetta da nullità di ordine generale ex art. 178 lett. c) c.p.p., […]» (Cass. pen., 12.10.1998, n. 402, Aliu e altri, in C.E.D. Cass., n. 213328). Entrambi gli orientamenti esprimono «il principio secondo cui i dialoghi intercettati non possono essere introdotti nell’orizzonte conoscitivo del giudice con mezzi di prova diversi dalle stesse intercettazioni, o meglio dall’acquisizione delle registrazioni e delle trascrizioni», di guisa che, l’atteggiamento di chiusura mostrato dalla giurisprudenza non sembra ostare ad una esegesi dell’art. 62 c.p.p. «tale da rendere applicabile il divieto di testimonianza alle dichiarazioni dell’imputato documentate dalle intercettazioni» (Strummiello, M. L., Brevi note in tema di testimonianza della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni dell’imputato oggetto di intercettazione, in Arch. pen., 2015, 2, 6 e 7). La norma in parola, infatti, fa riferimento alle «dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall’imputato o dalla persona sottoposta alle indagini». L’esatto valore semantico del termine dichiarazione è quello di espressione volta a esternare una manifestazione di pensiero. Ne deriva che sono dichiarazioni anche le affermazioni rese dall’imputato nel corso di conversazioni oggetto di intercettazione. Pertanto, se «ogni manifestazione del pensiero dell’imputato rientra nell’ampio genus delle dichiarazioni» risulta agevole ritenere che anche le dichiarazioni intercettate siano state rese nel corso del procedimento. D’altronde, se l’avverbio “comunque” contenuto nell’art. 62 c.p.p., è da intendersi nel significato letterale “in qualsiasi modo”, anche la dichiarazione dell’imputato per la quale vige il divieto di testimonianza della polizia giudiziaria può essere stata resa nel procedimento “in qualsiasi modo”, «ossia attraverso atti formali di assunzione delle sue conoscenze o anche con diverse modalità come, appunto, quelle costituite dall’ascolto remoto e occulto delle sue dichiarazioni». In conclusione «l’esegesi letterale della norma conferma che anche le conversazioni dell’indagato oggetto di intercettazione vanno ricomprese a pieno titolo fra le dichiarazioni rese nel corso del procedimento per le quali vige il divieto di testimonianza sancito dall’art. 62 c.p.p.» (Strummiello, M.L., Brevi note in tema di testimonianza, cit., 8). Tale interpretazione, ha trovato conferma anche in una decisione della Corte costituzionale, che, chiamata a pronunciarsi sulla ragionevolezza della norma, ha «escluso che la norma medesima sia viziata da irragionevolezza. Il divieto in essa contenuto, infatti, […] non è certamente irrazionale, essendo posto a tutela della esigenza che le dichiarazioni dell’imputato giungano a conoscenza del giudice attraverso l’esclusivo veicolo della documentazione formale, con le garanzie a questa connesse» (C. cost., 13.5.1993, n. 237, in Giur. cost., 1993, 1728 ss.). Infine mette conto di rilevare che il d. lg. 4.3.2014, n. 39, di attuazione della Direttiva/2011/93/UE (relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile), ha novellato l’art. 62 c.p.p., introducendo un espresso e specifico divieto di testimonianza indiretta sulle «dichiarazioni, comunque inutilizzabili, rese dall’imputato nel corso di programmi terapeutici diretti a ridurre il rischio che questi commetta delitti sessuali a danno di minori». La norma è palesemente finalizzata a garantire l’efficacia e l’operatività dei trattamenti terapeutici volti al recupero del malato, che viene tutelato da «pericolosi sviluppi processuali contra se che potrebbero dar luogo ad eventuali giudizi sulla personalità in spregio alla presunzione di innocenza» (Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, II ed., Milano, 2014, 214).
Art. 195 c.p.p.
Aprati, R., Testimonianza indiretta della polizia giudiziaria sulle sommarie informazioni annotate e deroghe al principio della formazione della prova in contraddittorio, in Cass. pen., 2004, 1011 ss.; Balsamo, A.-Lo Piparo, A., La prova “per sentito dire”. La testimonianza indiretta tra teoria e prassi applicativa, Milano, 2004; Bonzano, C., I mezzi di prova, in Procedura penale. Teoria e pratica del processo, diretto da G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb, I, Soggetti. Atti. Prove, a cura di G. Spangher, Torino, 2015, 825 ss.; Calamandrei, I., Sub art. 195, in Comm. c.p.p. Chiavario, II, Torino, 1990, 429 ss.; Caprioli, F., Colloqui riservati e prova penale, Torino, 2000; Id., Palingenesi di un divieto probatorio. La testimonianza indiretta del funzionario di polizia nel rinnovato assetto processuale, in Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di R.E. Kostoris, Torino, 2002, 59 ss.; Conti, C., Questioni controverse in tema di prova dichiarativa a quattro anni dalla legge n. 63 del 2001, in Cass. pen., 2005, 658 ss.; Cordero, F., Procedura penale, IX ed., Milano, 2012; Curtotti Nappi, D., Equivoci sugli «altri casi» di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria: un probabile attentato al principio del contraddittorio, in Cass. pen., 2003, 789 ss.; Di Martino, C., Prova testimoniale II) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1 ss.; Di Paolo, G., La testimonianza de relato nel processo penale. Un’indagine comparata, Trento, 2002; Id., Testimonianza indiretta, in Dig. pen., Aggiornamento, III.2, Torino, 2005, 1673 ss.; Fanuli, G.L., La prova dichiarativa nel processo penale, Torino, 2007; Gaeta, P., Il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria (art. 195, co. 4, c.p.p.), in Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova (l. 1° marzo 2001, n. 63), a cura di P. Tonini, Padova, 2001, 235 ss.; Giostra, G., Equivoci sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e sacrificio del principio di oralità, in Riv. dir. proc., 1992, 1130 ss.; Grevi, V., Prove, in Compendio di procedura penale, a cura di G. Conso-V. Grevi-M. Bargis, VIII ed., Padova, 2016; Grifantini, F., Segreto di Stato e divieto probatorio nel codice di procedura penale 1988, in Giust. pen., 1989, III, 523 ss.; Illuminati, G., Inammissibile la testimonianza della polizia giudiziaria sul contenuto di dichiarazioni non verbalizzate, in Cass. pen., 2003, 660 ss.; Lozzi, G., Lezioni di procedura penale, Torino, 2014; Menna, M., Prove dichiarative, in Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, II.1, Le prove, a cura di A. Scalfati, Torino, 2009, 109 ss.; Nappi, A., Guida al codice di procedura penale, X ed., Milano, 2007; Peroni, F., Sull’utilizzabilità della testimonianza de relato della polizia ai fini di un provvedimento cautelare, in Dir. pen. e processo, 2003, 431 ss.; Potetti, D., Questioni sulla testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Cass. pen., 2005, 1996 ss.; Ramajoli, S., La prova nel processo penale, Padova, 1995; Santini, E., Sub art. 195, in Commentario breve cp.p. Conso-Grevi, 2005, 590 ss.; Scaglione, A., Questioni in tema di divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, in Foro it., 2002, II, 393 ss.; Scalfati, A., Interessi in conflitto: testimonianza e segreti, in AA.VV., Verso uno statuto del testimone nel processo penale, Milano, 2005, 149 ss.; Scaparone, M., Procedura penale, I ed., Torino, 2008; Spangher, G., La pratica del processo penale, III, Padova, 2014, 488 ss.; Strummiello, M.L., Brevi note in tema di testimonianza della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni dell’imputato oggetto di intercettazione, in Arch. pen., 2015, 2, 1 ss; Sturla, M.T. Prova testimoniale, in Dig. pen., X, Torino, 1995, 405 ss.; Id., Sub art. 195, in Commento al codice di procedura penale, a cura di P. Corso, Piacenza, 2005, 757 ss.; Tonini, P., Manuale di procedura penale, XVII ed., Milano, 2016; Tonini, P.-Conti, C., Il diritto delle prove penali, II ed., Milano, 2014; Triggiani, N., Sub art. 195, in Comm. c.p.p. Giarda-Spangher, I, Milano, 2010, 1928 ss.; Id., Testimonianza, in La prova penale, a cura di P. Ferrua-E. Marzaduri-G. Spangher, Torino, 2013, 149 ss.