TESTA, Pietro detto il Lucchesino
– Figlio di Giovanni di Bartolomeo di professione rigattiere («vendugliolo») e di Barbara, nacque a Lucca e venne battezzato il 18 giugno 1612 nella chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata (Boschetto, 1968), dopo la nascita di almeno altri cinque figli della coppia (Giusti Maccari, 2015, p. 48), domiciliata nella parrocchia di S. Maria Forisportam (ibid.).
Nessun documento noto è riconducibile alla sua primissima formazione artistica poiché, almeno dall’età di sedici anni, Pietro avrebbe lasciato Lucca per Roma, dove sarebbe giunto, secondo uno dei suoi primi biografi e conoscente diretto (von Sandrart, 1675-1679, 1925, p. 288), «in veste da pellegrino». Tale referto sembrerebbe da privilegiare rispetto all’ipotesi di un suo arrivo nell’Urbe al seguito del concittadino Stefano Garbesi (Giusti Maccari, 2015, p. 49) – ricordato come suo «benefattore» nella dedica del Martirio di s. Erasmo, verosimilmente una delle iniziali prove incisorie di Testa (Montagnoli, in Pietro Testa e la nemica fortuna, 2014) – poiché ancora nell’agosto del 1632, in una lettera indirizzata da Lucca a Cassiano Dal Pozzo (Bottari - Ticozzi, 1822, I, pp. 357 s.), l’artista sollecitava esplicite introduzioni presso i suoi concittadini residenti a Roma («non resti frattanto di raccomandarmi ai nazionali»).
Nella città pontificia è documentato per la prima volta nel 1628, senza alcun tipo di appellativo, in una camera in affitto condivisa con un ignoto «Gualtiero fiammingo pittore» nei pressi di S. Stefano in Piscinula (Vodret, 2011, p. 486, n. 1925), sebbene non sia arbitrario ipotizzare che l’adolescente avesse cercato da subito il suo primo appoggio presso la Congregazione dei Lucchesi, dal 1631 accolta nella chiesa di S. Croce e S. Bonaventura nel rione Trevi (quartiere nel quale egli dimorò negli anni seguenti, cfr. Sutherland Harris, 1967, p. 42), e a cui risultano aggregati i tre prelati della stessa nazione con i quali Testa fu in contatto in seguito: Girolamo Buonvisi, Marco Antonio Franciotti e Bartolomeo Bernardini.
Ricordato da Giovan Battista Passeri (1673 circa, 1934, p. 183) e da Filippo Baldinucci (1681-1728, V, 1975, p. 310) per aver compiuto un breve apprendistato nella bottega del Domenichino – sotto la cui guida disegnò assiduamente dalle antichità romane, così come da Polidoro da Caravaggio e da Raffaello –, Testa entrò precocemente nell’apprezzamento del collezionista e colto umanista Cassiano Dal Pozzo, il deus ex machina dei suoi primi anni romani. Da «esquesito disegnatore» (Passeri, 1673 circa, 1934, p. 183), il Lucchesino riprodusse per lui «li migliori bassi rilievi antichi, e le statue più singolari della città» (ibid.), che costituirono cinque voluminosi tomi (Herklotz, 2011, p. 659) del Museo Cartaceo (Windsor Castle, Royal Library), un ambizioso progetto antiquario nel quale i suoi disegni (almeno trecento) sono stati riconosciuti tra i risultati qualitativamente più alti dell’impresa (Fusconi, in Pietro Testa e la nemica fortuna, 2014, p. 149). La profonda applicazione sulla statuaria antica, la vocazione classicista e la familiarità con Cassiano favorirono verosimilmente l’ammirazione e la frequentazione di Nicolas Poussin – ricordato ancora nel 1637 per lo scambio di materiali didattici (qualche «lucido di molte cose rare» e «carte stampate vecchie», cfr. Bottari - Ticozzi, 1822, I, p. 360) –, mentre l’interessamento per la stesura neoveneta del colore avrebbe favorito il suo tirocinio (breve, insoddisfacente e litigioso) presso Pietro da Cortona, nella cui bottega sarebbe stato introdotto, dopo la partenza del Domenichino per Napoli (1631), proprio dallo stesso Cassiano (Passeri, 1673 circa, 1934, p. 183). Da Pietro da Cortona e dal medesimo studioso linceo Testa sarebbe stato poi coinvolto nella riproduzione dei costumi dei primi cristiani illustrati nei manoscritti Virgilio Vaticano, Virgilio Romano e Terenzio Vaticano, che questi aveva commissionato a «Pietro da Cortona [...] e allievi suoi» (Solinas - Nicolò, in Prints and drawings, 1988, p. LXXIV), e che Baldinucci (1681-1728, 1975, V, p. 313) attribuisce interamente a Testa, sebbene nelle copie dal Terenzio la sua responsabilità sia stata recentemente posta in dubbio (Fusconi, in Pietro Testa e la nemica fortuna, 2014, p. 149).
Rientrato a Lucca nell’agosto del 1632 per la ripartizione con il fratello maggiore Giacinto dell’eredità del padre, deceduto probabilmente nella violenta pestilenza che colpì la città toscana tra il 1630 e il 1632 (Giusti Maccari, 2015, p. 48), Testa chiese l’intercessione di Cassiano per poter ‘abbreviare’ la quarantena ai confini dei territori pontifici e rientrare velocemente a Roma (Bottari - Ticozzi, 1822, I, pp. 357 s.), a conferma di un rapporto ormai stretto e vario con l’erudito.
Questa familiarità trova conferma non solo nelle collezioni puteane (nelle quali sono registrate una copia da Poussin e un suo paesaggio – inventario del 1689, cfr. Sparti, 1990, p. 558, nn. 350, 351 – almeno cinque tele di soggetto religioso e profano – ibid., inventario del 1695, pp. 562 s., nn. 4, 86, 102, 104, 105 – e due di soggetto naturalistico – un’Ostrica e molti Elefanti, cfr. Albl, 2017, pp. 70 s.), ma anche da una più tarda testimonianza dello stesso pittore – resa nel 1635 agli ufficiali del governatore di Roma dopo una notte in carcere per disubbidienza nei confronti di una guardia (cfr. Cavazzini, 2008, p. 8 nota 22) – nella quale egli si dichiarò al servizio del Cavaliere.
L’indigenza dei primi anni romani e il progressivo inasprimento di alcuni tratti del carattere restano tuttavia elementi costanti nella vita di Testa redatta dall’amico Joachim von Sandrart (1675-1679, 1925), che, nel descriverlo malvestito, timido e solitario, introdusse il tema della sua lenta ma ferma adesione allo stoicismo, un altro ricorrente topos letterario nelle biografie del Lucchesino. Vedendolo disegnare instancabilmente davanti alle rovine di Roma, Sandrart lo avrebbe ospitato nella propria bottega, gli avrebbe insegnato la tecnica di intagliare il rame e lo avrebbe scelto per la costituzione della Galleria Giustiniana, una raccolta di incisioni derivate dalle sculture appartenenti alla collezione del marchese Vincenzo Giustiniani (von Sandrart, 1675-1679, 1925, p. 289; Cropper, 1984, p. 13), per i cui disegni (Statua muliebre, Rilievo con putti e Rilievo con trionfo di divinità marine), non conservatisi, Testa venne pagato nel dicembre del 1633 (Gallottini, 2001, pp. 428 s., nn. 90, 92). Dalla metà circa del quarto decennio nella residenza romana, dello stesso mecenate figuravano anche due tele soprapporta (Mosè fa scaturire le acque dalla roccia e Labano cerca gli idoli nascosti da Rachele, Potsdam, Bildergalerie von Sanssouci), assegnate a Testa nel 1638 dall’inventario post mortem del marchese (Salerno, 1960, p. 97, nn. 105 e 106), sebbene la seconda sia stata recentemente proposta ad Andrea de Lione (Albl - Canevari, in Pietro Testa e la nemica fortuna, 2014, pp. 214-216), ispiratosi alla grafica del quasi coetaneo Lucchesino e anch’egli profondo estimatore di Nicolas Poussin. I riferimenti a quest’ultimo e a François Duquesnoy emergono ancora decisamente sia nel Narciso al fonte (collezione privata, cfr. Pietro Testa. 1612-1650, 1988, p. 41, cat. 20), sia nella tela raffigurante Venere e Adone (Wien, Akademie der bildenden Künste, il cui soggetto era già stato disegnato e intagliato da Testa su richiesta dello scultore e restauratore Niccolò Menghini, cfr. Pietro Testa. 1612-1650, 1988, pp. 30-35, cat. 16), mentre il paesaggio e le rigogliose macchie boschive denotano interesse per i fondali veneto-bolognesi (Marabottini, 1954a, p. 122), oltreché per i paesaggisti fiamminghi e francesi (Claude Lorrain, Carel Philips Spierincks e Hermann van Swanevelt) e per i pittori coevi attivi a Roma (Giovanni Benedetto Castiglione e Pier Francesco Mola).
Sebbene i disegni dall’antico e gli intagli rappresentino le attività più documentate, e la produzione pittorica conosciuta sia formata pressappoco da una trentina di quadri, le prove su tela più libere dal preponderante influsso di Poussin ci consegnano un autore con un carattere e una personalità già forti. Nell’Allegoria del massacro degli Innocenti (Roma, Galleria Spada) – probabilmente identificabile nel dipinto già appartenuto a Mario Albrizzi, che possedette almeno cinque sue tele (Albl, 2013, p. 47, n. 8) –, Testa affidò «l’emotività drammatica ai rapidi passaggi luminosi» (Marabottini, 1954a, p. 125), creando forti penombre e improvvisi guizzi di luce, e indirizzandosi verso esperienze luministiche nuove, non genericamente accostabili a quelle dei puri imitatori della realtà (caravaggeschi), da lui categoricamente definiti «scimie sporche e ridicole della natura» (Cropper, 1984, p. 237).
Prolifico disegnatore e divulgatore anche attraverso la produzione incisoria delle proprie idee teoriche e filosofiche, il Lucchesino descrisse la cultura artistica come un’attività umana «così profonda» (Cropper, 1984, p. 248) da sentire l’esigenza di riprodurla a stampa in un monumentale ‘manifesto figurativo’ illustrante il luogo destinato all’apprendimento dell’arte (il Tempio della Filosofia-Sapienza), dal quale emergessero la nobiltà della professione e la sua stretta relazione con la pratica pittorica. Dedicato al fedele protettore e concittadino monsignor Girolamo Buonvisi, il Liceo della pittura è stato unanimemente riconosciuto come il suo più ambizioso progetto incisorio (The illustrated Bartsch, 1990, pp. 163 s., nota 34), e dovette realizzarsi sullo scorcio del quarto decennio (1638-40 circa). Il grande formato della lastra, l’inusuale numero delle figure e delle scene, nonché la superba scenografia architettonica, comportarono un impegnativo lavoro propedeutico – scrupolosamente studiato in almeno dieci progetti grafici (Pietro Testa. 1612-1650, 1988, pp. 76-90; Albl, in Pietro Testa e la nemica fortuna, 2014, p. 286). Nel foglio conservato agli Uffizi raffigurante un gruppo di Scienziati poi riprodotto sulla sinistra della stampa, evidentemente ispirato all’analogo gruppo della Scuola di Atene di Raffaello, l’artista adottò uno stile essenziale e appuntito, funzionale alla traduzione in acquaforte (Disegni del Seicento romano, 1997, p. 153, n. 96), tecnica che egli privilegiò per diffondere l’etica altissima della propria professione. Una progressiva maturazione sui testi più formativi della filosofia antica (Platone, Aristotele, Euclide e Vitruvio) e sugli scritti più moderni di letteratura artistica (Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, Giovan Battista Armenini, Giovan Paolo Lomazzo e Athanasius Kircher), lo incoraggiarono anche alla stesura degli appunti destinati al costituendo trattato su L’ideale della pittura (1639-1650 circa, Düsseldorf, Kunstpalast, Graphische Sammlung, cfr. Marabottini, 1954b, pp. 217-241; Cropper, 1984, pp. 189-271), il vero e proprio ‘manifesto teorico’ – per quanto non definitivo, né stampato – dell’arte di Pietro Testa, nel quale sono affrontati, tra gli altri, temi come la corrispondenza tra pittura e poesia, la poetica degli affetti, il rapporto tra luce e ombra, nonché tra disegno e colore.
L’ipoteca su beni immobili di sua proprietà istituita nel 1636 (Canevari - Fusconi, in Pietro Testa e la nemica fortuna, 2014, p. 440, alla data), il grave taglio alla testa «cum aliquo vitae periculo» durante una rissa avvenuta nell’estate del 1637 (Canevari - Fusconi, 2014, p. 442 nota 7, già in Cavazzini, 2008), la reclusione nel carcere di Tor di Nona nel settembre dello stesso anno per l’inflessibile determinazione del suo primo protettore Cassiano Dal Pozzo (al quale il pittore doveva ancora due tele a saldo di un debito con lui contratto e che l’artista s’impegnò a pagare – garante un suo conterraneo – a rate di 5 scudi il mese, cfr. Bottari - Ticozzi, 1822, pp. 360 s.), e infine la quasi estraneità rispetto all’imperante mecenatismo dei Barberini (per i quali sono tutt’oggi documentati solo tre progetti grafici: cfr. Cropper, 1984, p. 42; Albl, 2013, pp. 45 s.), sono dati indicativi di un’esistenza volubile, costantemente priva di comodità e di protezioni stabili.
Dopo la guarigione dalla profonda ferita, Testa lasciò Roma negli ultimi mesi del 1637 per seguire nella propria Lucca il concittadino e neoletto cardinale Marcantonio Franciotti, forse insieme all’amico Pier Francesco Mola, registrato a Roma nella Pasqua di quello stesso anno. Nella città toscana Mola lo ritrasse a matita rossa (Montpellier, Musée Fabre) in un’immagine estemporanea che definisce la dimensione amichevole del rapporto tra i due, mostrando Testa distintamente seduto in poltrona e concentrato nella lettura di una carta, il mantello sulle spalle e il cappello a larga tesa sul grembo. Probabilmente ancora nella città natale nel 1638, anno in cui ricevette due pagamenti per la Libertà di Lucca nel palazzo degli Anziani (Albl, 2013, p. 47, nota 7), unica prova conosciuta dipinta ad affresco, l’artista lasciava poi davanti a sé un vuoto documentario di tre anni (colmabile con l’ipotesi di un viaggio nel Settentrione in compagnia dell’amico Mola).
Le notizie ce lo riconsegnano a Roma il 25 agosto 1641 a un’adunanza dell’Accademia di S. Luca (Sutherland Harris, 1967, p. 42), né vi sono ulteriori tracce delle sue frequentazioni nella città pontificia, se non una lettera di velato biasimo inviata nell’estate del 1642 al noto collezionista e mercante d’arte Niccolò Simonelli, nella quale – invocando la sua amicizia e il suo servizio, e disprezzando l’avidità di denaro mostrata dai grandi artisti del suo stesso tempo (Pietro Testa. 1612-1650, 1988, p. 216, cat. 99) –, egli sembra palesare l’esclusione dalle tendenze più remunerative del mercato.
L’attività romana degli anni Quaranta rivela un deciso interesse per la produzione di Mola, di Andrea Sacchi, di Guido Reni e di Giovanni Lanfranco, ma resta numericamente limitata: la Presentazione della Vergine al Tempio (1640-42, San Pietroburgo, Ermitage) per la cappella Buonvisi nella chiesa della nazione lucchese a Roma, la tenebrosa Visione di s. Angelo carmelitano (1645-46, cfr. Sutherland Harris, 1964a, p. 62) per la chiesa dei Ss. Silvestro e Martino ai Monti, e i perduti monocromi rappresentanti le storie del Volto Santo eseguiti nel 1649 nella stessa chiesa della comunità lucchese, furono committenze importanti, ma forse non sufficienti al suo sostentamento fisico e spirituale. Ad aggravare un suo già manifestato malessere sarebbe stata la mancata decorazione dell’abside di S. Martino ai Monti (1647-48; Sutherland Harris, 1964b, p. 116; Passeri, 1673 circa, 1934, p. 187) – committenza confermata dallo stesso Testa nel disegno d’insieme conservato a Düsseldorf (Brigstocke, 1978, pp. 124, 140 fig. 40; Cropper, 1984, pp. 260 s.; Pietro Testa. 1612-1650, 1988, pp. 230-235, cat. 107) –, per la quale egli aveva previsto una composizione teatrale fasciata da un «panno azurro scuro con le stelle d’oro che acenna il firmamento come squarciato», una concezione probabilmente troppo intellettualistica e consumata per le tendenze di metà secolo (Passeri, 1673 circa, 1934, p. 187), che andavano affermando cieli correggeschi e architetture prospettiche.
L’Autoritratto a sanguigna (Madrid, Academia de Bellas Artes de San Fernando), preparatorio per la lastra eseguita dallo stesso Testa e stampata dopo il 1650 da François Collignon, è espressamente ispirato a quello eseguito su tela tra il 1648 e il 1649 da Poussin per Jean Pointel: analoghe al modello francese sono l’impostazione del busto, la mano destra che sorregge qui il taccuino di disegni e la matita nella mano sinistra. Estrema apologia del maestro d’Oltralpe, il foglio ci restituisce l’effigie di un uomo «di buona presenza, ma alquanto rigida» (Passeri, 1673 circa, 1934, p. 188), cui era «congiunto un certo compiacimento di sé stesso» (Baldinucci, 1681-1728, V, 1975, p. 311), e se la malinconia individuata nello sguardo del foglio madrileno risulta davvero impercettibile, resta innegabile, allo stato attuale delle nostre conoscenze, l’incremento nella produzione estrema dell’artista dei temi di morte e di suicidio, che Testa affrontò rappresentando quello di Didone e di altri eroi classici quali Sinorice, Camma e Catone, riconoscendovi forse «una uguaglianza di sventura» (Passeri 1673 circa, 1934, p. 188).
Anticipato figurativamente anche dal drammatico e tenebroso Alessandro salvato dalle acque del fiume Cidno (New York, Metropolitan Museum of art), negli ultimi giorni di febbraio del 1650 Testa morì annegato nel Tevere all’età di 38 anni (Sutherland Harris, 1967, p. 60): il suo corpo venne recuperato il 2 marzo sulla riva prospiciente la chiesa di S. Biagio alla Pagnotta, dove ebbe la prima sepoltura (Gigli, 1644-1670, 1994), dando inizio alle mai risolte speculazioni sulla causa (accidentale o volontaria) della sua prematura scomparsa.
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